Agenda rossa: il nuovo e inquietante depistaggio nel depistaggio (Seconda parte)

Giorgio Bongiovanni 05 Dicembre 2023

L’attentato dello Stato-mafia contro Nino Di Matteo

Mentre si seguono fantomatiche piste e nuovi depistaggi vengono posti in essere, per comprendere quale sia la giusta direzione da prendere per trovare la verità su ciò che è avvenuto nel corso della nostra storia si deve guardare ai fatti, oltre le questioni giudiziarie.
Clamorosamente e paradossalmente la verità sul lavoro corretto ed onesto dei magistrati e sul lavoro sporco di alcuni funzionari di polizia e di alcuni carabinieri ci viene data dalla stessa Cosa nostra la quale, in forme inquietanti, chiare e dirette, mette in atto una serie di azioni.
Ci spieghiamo meglio.
Grazie alle rivelazioni di svariati collaboratori di giustizia sappiamo che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per la mafia erano dei condannati a morte sin dagli anni Ottanta. Per il loro lavoro erano perseguitati delegittimati sui giornali, isolati e denigrati dalle istituzioni, dalla politica e da una certa parte della magistratura. Tuttavia gli attentati nei loro confronti vennero eseguiti solo in un preciso momento storico.
Sono stati uccisi magistrati, funzionari di polizia, carabinieri, giornalisti, politici, preti, imprenditori e semplici cittadini, spesso quando gli stessi venivano lasciati soli mentre con coraggio affrontavano la mafia ed il sistema criminale di cui essa fa parte.
Oggi come allora Cosa nostra e Stato mafia parlano con le proprie azioni.


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La strage di via D’Amelio © Shobha


Lo fa quando spara o non spara, quando investe capitali, muove voti, fa affari, compie delitti e condanna a morte quei magistrati che si impegnano senza sosta nella ricerca della verità.
Uno di questi è proprio il magistrato Nino Di Matteo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia. Nel corso della sua storia ha istruito processi come quello dell’omicidio del giudice Saetta e di suo figlio (ottenendo il primo ergastolo di una lunga serie proprio per Totò Riina), e poi ancora quello sulla morte del giudice istruttore Rocco Chinnici, padre dello storico pool antimafia di Palermo. Sempre a Caltanissetta ottenne le condanne di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale finiti sotto accusa per la strage di via d’Amelio.
E’ in quei processi che, come abbiamo ricordato, venne tracciata la via per la ricerca dei cosiddetti mandanti esterni.
Noi non dimentichiamo che tra il 2012 ed il 2013 Di Matteo è stato condannato a morte dal capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina e da Matteo Messina Denaro, non per antipatia o livore.
Anche in questo caso sono i collaboratori di giustizia a spiegare il motivo.
Nel 2014 il boss dell’Acquasanta Vito Galatolo, figlio di Vincenzo Galatolo, spiegò che a fine 2012 fu Matteo Messina Denaro a chiedere di organizzare un attentato per conto di altri soggetti (“Gli stessi di Borsellino”), perché si era “spinto troppo oltre”. E sempre Galatolo aveva raccontato dell’acquisto di duecento chili di tritolo che le famiglie palermitane avevano fatto provenire dalla Calabria. Non solo. Aggiunse anche un importante dettaglio: Messina Denaro, nella lettera inviata ai boss palermitani, garantiva che “per l’attentato a Di Matteo non era come negli anni ’90, si era coperti”.
Quella doppia condanna a morte da parte di Riina dal carcere e di Messina Denaro dall’esterno (al tempo ancora era latitante, ndr) era avallata dal silenzio-assenso degli altri storici capimafia della Cupola. Dal carcere non giunsero reclami da parte dei vari Biondino, Madonia, Graviano, Aglieri, Santapaola e così via.
Sono quelli gli anni in cui venivano portate avanti le indagini che poi confluirono nel processo trattativa Stato-mafia.


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Nino Di Matteo © Deb Photo



Un periodo di forte tensione con il conflitto di attribuzione tra la Procura di Palermo e Napolitano, a causa delle intercettazioni (poi distrutte) tra il Capo dello Stato e l’allora indagato Nicola Mancino.
Anche altri collaboratori di giustizia nel corso del tempo hanno portato elementi a riscontro delle dichiarazioni di Galatolo confermando il summit avvenuto a Ballarò al quale oltre al boss dell’Acquasanta parteciparono il suo vice, Vincenzo Graziano, ed i capi mandamento di San Lorenzo e Porta Nuova, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio.
Vale la pena di ricordare le dichiarazioni di Francesco Chiarello, ex boss del Borgo Vecchio, che disse di aver saputo che l’esplosivo era stato “trasferito in un altro nascondiglio sicuro”, a cui si aggiunsero, in una vera e propria escalation di tensione, le testimonianze dell’ex boss Carmelo D’Amico, e gli elementi acquisiti con l’arresto dell’avvocato Marcello Marcatajo, oggi deceduto. Tutti fatti che evidenziavano la concretezza di quel progetto di morte.
Cosa nostra era pronta a colpire. Aveva studiato anche alcuni luoghi in cui compiere l’attentato come il Palazzo di Giustizia di Palermo o nei pressi dell’abitazione del magistrato, e aveva pensato anche di utilizzare armi convenzionali, a Roma.
Sul punto proprio Galatolo aveva svelato un altro progetto di morte alternativo che avrebbe coinvolto Salvatore Cucuzza, ex capomandamento di Porta Nuova arrestato nel 1996.
L’ex boss, deceduto a giugno 2014, avrebbe dovuto attirare Di Matteo a Roma, in una trappola, chiedendo di essere sentito dal pm palermitano riguardo ad alcune rivelazioni sulla trattativa Stato-mafia. E nella capitale il magistrato sarebbe stato ucciso a colpi di kalashnikov o con un bazooka. Un’eventualità che, però, è stata successivamente scartata.
Gli arresti che furono compiuti negli anni dei vari D’Ambrogio, Biondino, Galatolo e Graziano hanno sicuramente portato ad un rallentamento nell’esecuzione dell’attentato, ma ciò che è avvenuto in quegli anni, e in quelli successivi, spiega il perché, e soprattutto chi, si vuole uccidere il magistrato Nino Di Matteo.
Basta ricordare le criptiche (e mai chiarite) parole del boss Graziano, colui che aveva il compito di conservare il tritolo, dette al momento dell’arresto che in riferimento all’esplosivo disse: “Dovete cercarlo nei piani alti”.
Un altro elemento misterioso è l’anonimo giunto sulla scrivania dell’allora sostituto procuratore di Palermo, il 26 marzo 2013 (pochi mesi dopo il famoso summit tra i boss di Palermo) nel quale si avvisava che “Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) avevano deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità”. L’autore sosteneva di essere affiliato alla famiglia mafiosa di Alcamo.
Anche negli anni successivi l’allerta su Di Matteo è stata sempre alta.
Addirittura, nell’ambito di un’indagine sulle famiglie palermitane, nel 2016 venne intercettato un mafioso che, litigando con la moglie, si lamentava dell’imprudenza della suocera che aveva accompagnato la figlia al Tc2, il circolo tennis in via San Lorenzo.


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Matteo Messina Denaro


Ed in questo dialogo l’uomo avrebbe spiegato a chiare note che la bambina non doveva andare lì perché frequentato da Di Matteo e “a quello lo devono ammazzare”. Una conferma inquietante al racconto di alcuni ragazzini che nel 2015 avevano segnalato la presenza di uomini armati davanti all’ingresso secondario del circolo tennis di San Lorenzo.
Nel dialogo si intende, dunque, che il progetto di attentato è più che mai attuale e non potrebbe avvenire solo nel circolo tennis, ma in qualunque luogo della città frequentato dallo stesso pm.
Tutt’oggi Di Matteo è tra i magistrati più scortati d’Italia anche perché la Procura di Caltanissetta, che indagò su quel progetto di morte, nella richiesta di archiviazione mise nero su bianco che è “ancora esecutivo”.
Prima di allora l’ultima volta che la mafia si era adoperata con un progetto di morte così eclatante nei confronti di un magistrato era stata nei primi anni Novanta, con un attentato nei confronti del giudice Gian Carlo Caselli. L’idea era quella di colpire il magistrato con un lanciamissili, anche in quel caso acquistato dalla Calabria. “Tramite la ‘Ndrangheta, la cosca dei Nirta, abbiamo acquistato delle armi, due mitra, due machine-pistole ed un lanciamissili – aveva raccontato Gaspare Spatuzza Era un carico di armi per fare un attentato al procuratore Caselli che avevamo saputo che si muoveva con un elicottero dell’elisoccorso che partiva dall’ospedale Cervello”.
Cosa nostra, che mosse una squadra di morte nelle persone di Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, fallì l’attentato nei confronti di Rino Germanà.
E sul fronte calabrese, a marzo 2013, vi sono le minacce contro il magistrato calabrese Giuseppe Lombardo. In una busta vengono trovati cinquanta grammi di polvere pirica ed un biglietto di minacce: “Se non la smetti ci sono pronti altri 200 chili”. Minacce reiterate nel novembre 2014 quando la Guardia di Finanza di Reggio Calabria riceve una telefonata anonima. “Dite a Peppe Lombardo che se non la smette lo ammazziamo. Diteglielo che lo facciamo saltare per aria sul serio, i 200 chili di esplosivo sono sempre pronti”.
Ecco alcuni esempi concreti di chi ha rischiato la vita in questi anni nella lotta alla mafia.


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La strage di Capaci © Shobha


Non compaiono nomi di funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri, politici e magistrati che invece hanno preferito dialogare con Cosa nostra o loro rappresentanti.
Grazie a Dio l’esecuzione di questi delitti non ha avuto luogo.
In questo momento di cambiamento, accelerato anche dalla morte di Matteo Messina Denaro, uccidere, forse, non è più conveniente per Cosa nostra, ma questo non significa che la strategia stragista sia definitivamente estinta.
I boss protagonisti di quella stagione terribile, come i fratelli Graviano, non hanno gettato ancora la spugna. Dal carcere inviano messaggi all’esterno chiedendo che i patti siano rispettati.
E anziché uccidere ecco che tornano le accuse infamanti e le delegittimazioni eccellenti che portano a un nuovo isolamento.
E’ ciò che accade a tutti coloro che hanno il coraggio di indagare sul potere, senza paura di toccare i fili dell’alta tensione.
Anche osservando questi fatti si comprende quale sia la direzione da prendere per continuare nel cammino della ricerca della verità sulle stragi e sui mandanti esterni.
Si deve andare a vedere il lavoro che venne svolto da quei magistrati che come Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Luca Tescaroli, Gian Carlo Caselli, Domenico Gozzo, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo ed altri, ebbero il coraggio di mettere sotto accusa politici, ex ministri, funzionari di polizia, vertici dell’Arma dei Carabinieri e dei Servizi di sicurezza. E ancora si deve guardare alle indagini del tempo presente, condotte dai magistrati in prima linea nel contrasto ai Sistemi criminali, impegnati nelle Procure di Palermo, Reggio Calabria, Caltanissetta, Firenze, Milano, Catania, Roma, Napoli e così via.
Perché, piaccia o non piaccia, le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come dimostrano le modalità di esecuzione, le sottrazioni di prove e i depistaggi, non sono questioni di mafia, ma di Stato-Mafia. E ciò che sta avvenendo oggi non è altro che un depistaggio nel depistaggio per sviare dalla vera ricerca della verità.

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fonte: antimafiaduemila.com