Antonino Caponnetto, che ci lasciò vent’anni fa

Quanti ricordano ancora il suo viso fragile, lo sguardo affranto, quegli occhiali appannati, e quella frase struggente “è finito tutto”, mentre era caldo il cadavere di Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo e i palazzi sventrati dall’esplosione ancora fumavano, e, appena qualche giorno dopo, quelle due dita della mano destra a significare vittoria, e quasi a voler rimediare a quel primo irrefrenabile, ma umanissimo, moto di sconforto? Quella frase e quelle due dita a V chiusero entro parentesi una delle vicende più traumatiche dell’intera storia repubblicana: la storia di una Palermo troppo a lungo insanguinata. 

Chi è stato Antonino Caponnetto? Chi si ricorda di lui? Cosa ha rappresentato Antonino Caponnetto nell’eterna lotta, altalenante, fatta di accelerazioni e brusche frenate, fughe in avanti e ripensamenti calcolati, se non addirittura compromissioni e commistioni inconfessabili, fra lo Stato e i poteri criminali, in una parola: fra lo Stato e le mafie? 

Coi tempi che corrono, oggi non è facile rispondere, anche se per chi visse sino in fondo quella stagione – la stagione del “pool antimafia” di Palermo, della quale Caponnetto fu figura carismatica e insostituibile – rispondere sarebbe facilissimo. Basterebbe dire che fu il regista di attori che si chiamarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e non soltanto loro. E potrebbe bastare. 

Ma è trascorso un ventennio dalla sua morte. Questo è il problema. E questo è infatti paese dalla memoria labile. E questo è il paese che divora i suoi figli migliori, li seppellisce in fretta, li beatifica spesso, li santifica a volte , applaude a scena aperta nel giorno dei funerali, ma appena quei figli migliori li ha seppelliti, meglio se con gran contorno di retorica e polemiche, se ne dimentica per sempre, irrimediabilmente. Anche a causa di questa terribile regola del costume italico, sembrava che di Antonino Caponnetto non se ne dovesse parlar più. D’altra parte si sa: di smemorati e immemori, in Italia, ne trovi a legioni.
Inutile allora farsi illusioni. I giovani oggi non conoscono il suo nome. E nessuno si cura di porre rimedio a questa incolpevole ignoranza. 

Le fiction televisive, unica fonte di memoria per le grandi masse di popolazione di questo sventurato paese che è l’Italia, educate con dosi massicce di grandi fratelli e isole dei famosi, non lasciano tracce autentiche di quanto è successo. Lasciano solitamente, bene che vada, infarinature generali, storielle di cappa e spada, di guardie e ladri, o, nel caso specifico, di guardie e coppole storte.

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Stando così le cose, sembrava che un definitivo velo d’oblio fosse sceso sulla figura di questo magistrato toscano, pur se di antiche origini nissene, prestato alla Sicilia. E non prestato alla Sicilia in un momento qualsiasi, ma in uno di quei momenti che hanno segnato drammaticamente la storia siciliana del dopoguerra. Parliamo della seconda metà degli anni ottanta, quando una escalation mafiosa mai vista prima mise in ginocchio proprio la Sicilia, culminando, nel 1992, nelle stragi di Capaci e via d’Amelio. Quando, in un attimo, tutta l’Italia, e non solo la Sicilia, si ritrovò in ginocchio.
Invece, forse anche perché gli anniversari, in mancanza d’altro, servono a qualcosa, oggi torniamo a parlare di Antonino Caponnetto. E vogliamo farlo con l’occhio rivolto a quei giovani di cui dicevamo prima, nella speranza che antichi fili di memoria possano finalmente essere riannodati.   

Ebbi modo di conoscere Antonino Caponnetto, all’indomani del suo insediamento alla guida dell’ ufficio istruzione di Palermo. Nessuno, al Palazzo di giustizia di Palermo, sapeva chi fosse. Né la gran parte dei suoi colleghi, né, a maggior ragione, i giornalisti che seguivano le vicende giudiziarie nella città con il più alto tasso di criminalità, semplice e organizzata, di tutt’Italia. Quanto agli avvocati penalisti, quei vecchi volponi che per decenni avevano fatto della clientela mafiosa una greppia remunerativa all’insegna del sacrosanto diritto-dovere alla difesa, ironizzarono all’arrivo di Caponnetto. Quel palazzo aveva già divorato – e in tutti i sensi – fior di procuratori, fior di magistrati, fior di poliziotti e di carabinieri. Un’interminabile scia di funzionari lasciati prima soli e , subito dopo, assassinati dalla mafia. E non solo dalla mafia. Cesare Terranova e Gaetano Costa e Rocco Chinnici. O, volendo andare dietro negli anni, Pietro Scaglione. E Boris Giuliano, e Emanuele Basile. Citiamo solo i più illustri, i più noti, a non voler declinare un elenco che sarebbe sterminato e agghiacciante. I vecchi volponi penalisti, cioè, erano convinti che, prima o poi, dentro o fuori dalla stessa magistratura, qualcuno, anche di Caponnetto, avrebbe fatto un bel boccone. Calcoli sballati.
Il fatto è che quel magistrato, dalla figura apparentemente esile, negli anni, prima di venire a Palermo ad occupare la poltrona che era stata di Rocco Chinnici, si era temprato come l’acciaio nella conoscenza di codici e giurisprudenza. 

Se ne accorsero in pochi, all’inizio. Ma il primo tangibile risultato del suo insediamento consistette nel dare immediato impulso a quella socializzazione delle informazioni fra i magistrati – donde la definizione di “pool antimafia” – che era stato il chiodo fisso di Rocco Chinnici. Incredibilmente, il più era già stato fatto. Se solo fosse prevalsa quella diffusissima concezione che negava l’unitarietà del disegno mafioso, le grandi indagini sarebbero state spappolate sul nascere, sparpagliate per mezza Sicilia, in altre parole: narcotizzate a priori. Qualcosa di simile poi accadde, con l’insediamento di Antonino Meli, una volta che Caponnetto andò in pensione. Ma ormai nulla sarebbe stato più come prima. 

Dicevo, prima, di Caponnetto regista. Ché solo un regista, totalmente scevro da tentazioni di protagonismo, poteva garantire l’eccellente gestione del “caso Buscetta”. Mi riferisco al fatto che Tommaso Buscetta restò, per almeno un anno, una bomba ad orologeria destinata a deflagrare al momento convenuto, senza che nessuno, fatta eccezione per i magistrati del “pool” e qualche poliziotto di provata fede, ne seppe nulla. Così, fatto più unico che raro in casi di questa natura, fu durante un’apposita conferenza stampa che il mondo intero venne a sapere che si era scatenato “il terremoto Buscetta”. Il che oggi, e lo diciamo per dovere di cronaca, sarebbe proibito dai divieti di regime imposti dalla recente “riforma” a firma Marta Cartabia. 

Questi, appena indicati, furono i passaggi più significativi del lavoro palermitano del magistrato toscano prestato alla Sicilia. Ma, dietro le quinte, il contributo di Caponnetto alla causa antimafia, se così vogliamo definirlo, fu immenso, anche se meno conosciuto. Tenere con mano ferma le redini di un gruppo di lavoro che vedeva la partecipazione di personalità eccezionali equivalse, da parte di Caponnetto, a vincere una scommessa il cui esito non era affatto scontato. 

La seconda occasione in cui ebbi a che fare con lui fu Firenze, la città in cui era tornato dopo essere andato in pensione. E questa volta il mio rapporto fu diretto, personale. Non da cronista insieme ad altri colleghi, come era stato in precedenza. L’occasione nacque dalla sua decisione di raccontare a me – nel libro che avremmo infatti intitolato: “I miei giorni a Palermo. Storie di mafia e di giustizia raccontate a Saverio Lodato”, e per volontà di Gianandrea Piccioli, grande editor delle Garzanti di allora – quegli anni di speranze e di sangue.

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Non ebbi smentite, semmai ulteriori conferme, dell’idea che me ne ero fatto vedendolo al lavoro in quegli anni che ormai, a Firenze, si stava lasciando dietro le spalle. Conferma del suo carattere d’acciaio che gli aveva consentito, insieme ai suoi colleghi tutti più giovani di lui, di tener testa a mandrie mafiose inferocite poiché, questa volta, la lotta alla mafia veniva fatta sul serio. 

Conferma del suo scrupolo professionale, non disgiunto da una conoscenza della lingua italiana, oserei dire quasi di imprinting toscano, che lo portava a disquisire a ragion veduta sul tempo di un verbo o la collocazione di una virgola. Conferma di quell’infinita umanità che lo aveva portato alla frase” è finito tutto” e alle dita che indicavano vittoria.
Ma perché volle scriverlo questo libro? 

Perché gli ripugnavano i primi stravolgimenti della verità all’indomani delle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. E non accettava che, essendo miracolosamente uscito vivo dall’inferno di Palermo, qualcuno potesse sperare che ormai fosse diventato un pensionato di nome di fatto. Proprio il ritrovarsi fuori dai ruoli, con la toga appesa ad un chiodo, gli diede la determinazione e la lucidità di prendere per l’ultima volta la parola affinché gli italiani non dimenticassero troppo presto. 

Il libro fu uno straordinario successo di vendite. In pochissimi mesi ne vennero “bruciate”, come si dice in gergo, una dozzina di edizioni. E da quel momento Caponnetto, con la forza di un giovane atleta, iniziò per mesi e mesi a percorrere l’Italia da un capo all’altro, con viaggi dai ritmi massacranti, seguito dai fedelissimi uomini della sua scorta, per raccontare, ai giovani di allora che accorrevano in massa, chi erano stati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Poi, un giorno del lontano 2002, la sua tempra si spezzò per sempre. 

Fu così che ebbi l’ultima occasione, la peggiore di tutte, di occuparmi di lui. In occasione dei suoi funerali. I fiorentini lo salutarono a migliaia, dentro Palazzo Vecchio. E io fui l’unico inviato di un giornale nazionale a essere presente. Per il resto, non si vide l’ombra di un cronista o di una testata televisiva. 

A Caponnetto non si perdonavano troppe cose. Forse, anche, il non essersi accontentato della sua nuova condizione di “pensionato”. Il governo Berlusconi di allora, gli anni erano quelli, riuscì nel miracolo di non mandare ai suoi funerali neanche lo straccio di un sottosegretario. Ecco perché prima dicevo che sembrava che su di lui il velo dell’oblio fosse sceso per sempre.
Perché Antonino Caponnetto fu uomo scomodo, prima da vivo, e poi da morto.
Mi sbaglierò: ma credo che sarebbe ancora una volta contento di tornare a prendere la parola per quei giovani di oggi che allora non erano ancora nati. E chissà mai se oggi, qualche editore dalla memoria lunga, e dalla schiena assai dritta, riuscisse a fare il miracolo di ristampare quel suo libro meraviglioso. 

Foto originale © Shobha

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La rubrica di Saverio Lodato