Lo schiavitù che rende «scintillante» la moda low cost

A un anno e mezzo dalla strage del Rana Plaza di Savar, Ban­gla­desh, la gran parte delle vit­time non è stata risar­cita: lo ha ricor­dato pochi giorni fa il Ny Times. Il crollo del com­plesso pro­dut­tivo ha pro­cu­rato 1129 morti e 2515 feriti. A Savar, venti chi­lo­me­tri dalla capi­tale Doha, si pro­duce la gran parte della moda che si vende nelle grandi catene distri­bu­tive a prezzi così detti demo­cra­tici, tra i 10 e i 99 euro.

Due set­ti­mane fa, la dicias­set­tenne sve­dese Anni­ken Jør­gen­sen ha sve­lato al mondo tutti i con­te­nuti del docu-reality nor­ve­gese Sweat Shop: con altre tre ragazze, Anni­ken ha lavo­rato per un mese nei labo­ra­tori tes­sili cam­bo­giani dove H&M, il colosso sve­dese della moda low cost, pro­duce la mag­gior parte dei suoi capi. Tra turni di lavoro di 16 ore al giorno, alloggi fati­scenti, con­di­zioni igie­ni­che pre­ca­rie e assenza di tutele dei lavo­ra­tori, Anni­ken ha docu­men­tato come e per­ché la moda a basso costo, a dispetto del prezzo basso che la rende acces­si­bile, nasce dallo schia­vitù di chi la produce.

La scorsa set­ti­mana un ser­vi­zio di Report ha sve­lato alla tv ita­liana che nell’Est euro­peo è ancora dif­fuso il metodo di spiu­ma­tura delle oche vive, vie­tato dai rego­la­menti euro­pei. Il ser­vi­zio indica tra i frui­tori di quelle piume anche Mon­cler, un noto mar­chio di capi di abbi­glia­mento imbot­titi. Durante il ser­vi­zio, l’autrice si imbatte anche nel pro­blema della delo­ca­liz­za­zione pro­dut­tiva, rin­trac­ciando Prada tra i mar­chi che fanno cucire alcuni capi addi­rit­tura in Trans­ni­stria, soviet soprav­vis­suto tra la Mol­da­via e l’Ucraina. A que­sto punto, nel ser­vi­zio emerge il clas­sico pre­giu­di­zio che molti hanno sulla moda.

Per­ché, men­tre è sicu­ra­mente giu­sto chie­dere alle aziende ita­liane che fanno altis­simi mar­gini il rien­tro in Ita­lia delle lavo­ra­zioni delo­ca­liz­zate, il re-shoring, appare invece molto impre­ciso insi­stere sul costo del capo finito che dalle poche decine di euro pagati all’azienda che lo assem­bla arriva in nego­zio a un prezzo iper mol­ti­pli­cato. Per chia­rezza, quel costo pro­nun­ciato davanti ai micro­foni fa sen­sa­zione ma non è il costo indu­striale del capo che com­prende non solo i mate­riali ma, tra tanti altri, anche il costo di una ricerca di inno­va­zione che va dal design alla tec­no­lo­gia, in cui sono impie­gate risorse umane dai salari ade­guati e inse­rite in aziende strut­tu­rate e sin­da­ca­liz­zate. Che è tutto il con­tra­rio di quello che c’è nei capi così detti a prezzo demo­cra­tico. Le aziende della moda low cost, infatti, quella ricerca che pro­duce nuovi modelli se la tro­vano già pronta e, in assenza di copy­right, pos­sono impu­ne­mente copiarla.

Una raz­zia che chiude spesso il suo iter nei tanti Rana Plaza del mondo, dove i modelli fir­mati ven­gono repli­cati con mate­riali sca­denti dagli schiavi del sistema indu­striale glo­ba­liz­zato. Tutt’al più, andrebbe chie­sto ai grandi mar­chi della moda mon­diale che hanno aziende così ben strut­tu­rate se vale la pena rispar­miare pochi euro a capo e non sapere dove vanno a finire i loro mate­riali e le loro eti­chette e, soprat­tutto, in quali con­di­zioni ven­gono assem­blati i loro prodotti.

Pur­troppo biso­gna ras­se­gnarsi a non fare l’equazione fra demo­cra­zia e prezzo del pro­dotto. Ma non ci si può ras­se­gnare né ai morti sul lavoro, né alla schia­vitù gene­rata dalla mas­si­miz­za­zione del pro­fitto, né alla spiu­ma­tura delle oche vive: dal punto di vista dell’etica del con­sumo, però, si deve sapere che com­prare una gonna a 29.90 euro pro­dotta in Cam­bo­gia equi­vale a com­prare un capo imbot­tito con le piume delle oche vive a oltre mille euro. E infine, la poli­tica indu­striale di un Paese coman­dato dal Grande Inno­va­tore dovrebbe pre­ve­dere un serio piano di back resho­ring. Que­sta sì che sarebbe una grande inno­va­zione per la quale torna utile uno dei fol­go­ranti slo­gan che Renzi potrebbe lan­ciare nei suoi crowdfunding’s dinners.

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Fonte:Ilmanifesto