Lavoro: la punizione di Dio

di Marcello Cadeddu.

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Oggi, mentre camminavo, ho pensato al mercato. Ma non ai mercati classici, quelli pieni di box, mercanzia di ogni tipo, alimenti, pesci e venditori che urlano, cantano, ammiccano e offrono. No, il mercato mio, quello virtuale, quello che in verità non esiste perché altro non è che un insieme di relazioni tra soggetti: il mercato del lavoro.   Sarà perché è il mio mestiere, sarà perché al singolare è uno fra i più evocati, camminando mi è venuto in testa. È strano come il mercato del lavoro, contrariamente a quelli declinati al plurale, “i mercati”, non abbia particolari desideri: a oggi non ho sentito mai dire “il mercato del lavoro vuole…” o “il mercato del lavoro ci chiede…” Lui, che dev’essere il fratello povero o sfortunato della altrimenti opulenta famiglia dei mercati, ha piuttosto “necessità di…”, “ha bisogno di…” Credo sia un po’ legato e imbolsito perché da molti anni la cura è sempre la stessa: stretching e iniezioni per aumentarne la flessibilità.

Io un’idea me la sono fatta, ma ammetto che pur potendomi fregiare del titolo di esperto, sempre meno ne capisco. O forse è la categoria di esperto a essere sopravvalutata oppure sono soltanto io a essere un cazzone.

Intanto, qualche puntino sulle “i” bisognerà pur metterlo: se abbiamo cento asini e ottanta carote sarà molto difficile che ogni asino abbia una carota. Credo che su questo possiamo concordare tutti, belli e brutti, piddini e grillini, maschi e femmine, destra e sinistra.

Quindi su cosa dovremmo concentrarci, sull’alleggerire l’asino per farlo arrivare prima alla carota oppure sull’aumentare le carote?

Perché la scelta non è indifferente. E visto che la strategia prevalente è stata quella di lavorare sull’asino, così che fosse più reattivo, più rapido, più leggero, più capace di affrontare le mutate condizioni, significa che noi viviamo in un sistema costruito per ottanta asini e che venti saranno sempre in esubero: se le carote saranno abbastanza grandi da generare scarti sufficienti bene, ma con carote rachitiche tipiche dei periodi di crisi pietà l’è morta…

C’è anche chi dice che se si vedono asini particolarmente reattivi, rapidi ecc. da fuori, dal resto del mondo inizieranno a tirarci carote oppure le carote cresceranno da sole, spontaneamente, ansiose di offrirsi agli asini. Oppure gli asini dovranno farsi “imprenditori di sé stessi” e inventarsela la carota.

Il mercato del lavoro è difficile da intrappolare in una metafora, asini e carote, i posti al cinema (occupati, non occupati, distrutti creati, comodi e scomodi, con spettatori che entrano e che escono), spiegano – come tutte le metafore in fondo – i meccanismi fino a un certo punto.

Intanto perché “il mercato del lavoro” non esiste, ma è un concetto teorico forse valido per l’analisi generale (l’insieme degli occupati, l’insieme dei disoccupati e via dicendo), per farsi un’idea di massimo, ma quasi inutile dal punto di vista operativo.

Contano “i mercati”: per esempio, se sono un idraulico…lasciamo perdere gli idraulici!

Se sono un insegnante entrerò in uno specifico mercato del lavoro che è quello dell’insegnamento, che ha le sue regole: concorsi, chiamate, domande a istituti pubblici e privati, competenze, acquisizione di competenze. E bisogna conoscerlo per potersi orientare, per avere qualche possibilità. E si sa pure quanti posti potranno essere disponibili, quanti quelli “fissi”, quanti quelli “mobili”.

Questo vale per quasi tutti i mestieri e le professioni, ciascuna ha un suo mercato. E in questo mercato vige un certo evoluzionismo: vince il più “adatto”, dove a volte il più adatto non è il più serio, il più bravo o il più preparato, ma quello con più relazioni, più “accozzato”, “il figlio di…” (non nel senso della professione della mamma, di di genitori abbienti e ben introdotti, of course).

Resta la sensazione che in tutto questo ci sia qualcosa di profondamente sbagliato. Mi occupo di mercato del lavoro dai tempi della mia tesi di laurea e la situazione è peggiorata. Questo nonostante leggi, pacchetti di leggi, riforme e controriforme. Ma forse avevano ragione Aris Accornero e Fabrizio Carmignani nel libro che mi convinse a studiare questo argomento e a fare una tesi di laurea sulla disoccupazione: è un’attenzione fatta esclusivamente di parole!

Quando iniziai a occuparmi di mercato del lavoro i soggetti più deboli erano le giovani donne del Sud Italia con bassa scolarizzazione e oggi mi sa che è la stessa cosa. La differenza è che ieri la disoccupazione era un passaggio probabile in una traiettoria di vita: finivi le scuole, mettevi in conto – in virtù dell’alta disoccupazione giovanile – un certo periodo, più o meno lungo, alla ricerca di un lavoro, ma entro una certa età eri sicuro di trovarlo. Infatti, superati i 35/40 anni i tassi di disoccupazione, soprattutto quella maschile, erano poco significativi anche da noi.

Oggi non è più così e la disoccupazione, anche quella mascherata (perché siamo pieni di cassaintegrati che non rientreranno mai al lavoro precedente), è un evento che può capitare a tutte le età.

Da qui la grande truffa nel dividere “insider” da “outsider”, padri da figli, come ha fatto questa destra maledetta – che il diavolo se la pigli – nella repubblica delle banane in cui viviamo (con simpatie anche dalla parte avversa, che di polli che si credono aquile grazie a dio ne abbiamo anche noi!).

Ad un certo punto sembrava che le tutele dei lavoratori delle grandi imprese fossero un ostacolo all’assunzione dei figli i quei lavoratori e che il problema fosse tutto lì! Non che mancasse una politica industriale, uno straccio di idea di futuro, un minimo di governo dell’economia, una visione laica delle dinamiche produttive e non dogmatica da taliban del mercato “che fa bene tutto, basta lasciarlo stare…”

Occultando il fatto però che padri e figli sono legati e che i figli in genere sono mantenuti dai padri e che se tu non tuteli il padre, ma lo sostituisci col figlio, senza prevedere una stato sociale capace di far fronte a un mutato equilibrio sociale, fai esplodere il sistema.

Perché sostituisci chi è tutelato con chi è indifeso, chi può mantenere anche altri con chi a malapena riesce a mantenere sé stesso. Quindi, l’obiettivo vero qual è?

Aiutare i giovani a entrare nel mercato del lavoro o disarmare i padri, indebolendo la classe lavoratrice, giovani compresi?

Non vi pare che i diversi strumenti messi in campo, le diverse varianti di stage e tirocini, non servano per selezionare e modellare lavoratori che abbiano quale caratteristica principale la docilità?

Perché sembra che l’inadeguatezza sia tutta dal lato dell’offerta del lavoro e mai da quella della domanda, anche quando l’insufficienza della nostra classe imprenditoriale è palese e dimostrabile dalla scelta costante della via più facile?

Come se non fosse chiaro che chi sul mercato resta, in fin dei conti, è chi lavora sulle innovazioni di prodotto e non chi scarica sulla forza lavoro ogni problema e tira a scardinare le organizzazioni sindacali, cercando di trasformarle (senza grandissima e diffusa opposizione a dire il vero, che teniamo famiglia tutti…) in complici, da antagoniste quali dovrebbero essere, almeno in una sana democratica dialettica fra interessi contrapposti…

Perché la cosiddetta “concertazione” avrà pure portato un pochino di pace sociale, ma ha anche drenato immense risorse dalla tasche di chi lavora a quelle di redditieri vari.

Nel linguaggio comune poi si fa pure confusione fra le parti in gioco, perché “offerta di lavoro” sembra essere chi offre posti di lavoro, cioè imprese, pubblica amministrazione e famiglie; mentre “domanda di lavoro” invece sembra essere chi il lavoro lo chiede, cioè i lavoratori disoccupati. Invece è esattamente il contrario.

Agire sul lato dell’offerta (i “quattro pilastri” UE del Trattato di Lisbona questo esplicitamente promuovono, con l’accento posto su “occupabilità”, “adattabilità”, “imprenditorialità” e “pari opportunità”) significa in qualche modo scaricare la responsabilità dello Stato, che si ritira dall’economia e dal suo governo (in ottemperanza al dogma), sui lavoratori, che si devono industriare per essere più appetibili e la funzione dello Stato che non è quella di promuovere l’economia attraverso la creazione di lavoro (più carote), ma coi servizi ai lavoratori (cioè allenando gli asini alla corsa…).

È chiaro che la partita è tutta politica e poco tecnica: gli strumenti dell’economia sono per l’appunto “attrezzi” ed è inutile attribuire loro caratteristiche che non hanno. A ben vedere, tutta questa enfasi sui mercati, con l’attribuzione di caratteri antropomorfici (i mercati “chiedono” e reagiscono come fossero esseri animati e dotati di senso) rientrano in quei meccanismi detti “euristiche di cui scrivevo ieri.

È necessario quindi ragionare attorno al concetto di “job guarantee“, ovvero di garanzia del lavoro e impegnare le istituzioni, dalle comunità locali fino all’UE passando per lo Stato, nella promozione del lavoro.

Il fatto che fino a oggi non ci siano stati risultati significativi può voler significare che le soluzioni adottate sono semplicemente inutili, se non dannose. Esiste la necessità di implementare e manutenere le competenze, oggi a rischio di obsolescenza, ci sono settori dove si può produrre ad alto valore aggiunto con rispetto dei diritti e dell’ambiente (due dei tre lati del triangolo della sostenibilità).

Anche se nel mio cuore io continuo a inseguire il sogno di Karl Marx per il quale bisognava abolire la condizione di lavoratore, non estenderla a tutti gli uomini!

Perché, non dimentichiamolo, il lavoro è una punizione divina, non un dono.

 

 

Fonte: http://marcellosovjetcadeddu.wordpress.com/2013/03/20/la-punizione-di-dio/.