La trattativa, la Consulta e un presidente al di sopra della legge

di Lorenzo Baldo – 15 gennaio 2013

napolitano-quirinale

“C’è la necessità di fare in modo che le decisioni sbagliate, anche della Corte Costituzionale, siano sottoposte al vaglio della Corte dei diritti dell’uomo a Strasburgo”. Era il 15 dicembre 2012 quando dal palco della manifestazione “Noi sappiamo” l’ex giudice Ferdinando Imposimato auspicava un ricorso alla Corte di Strasburgo in merito alla decisione della Consulta di bocciare il ricorso della Procura di Palermo nell’ambito della querelle sulle intercettazioni Mancino-Napolitano.

A distanza di un mese esatto sono state depositate le motivazioni di quella decisione immediatamente rilanciate da tutte le agenzie di stampa: “la Corte Costituzionale ha depositato la sentenza sul conflitto tra Capo dello Stato e Procura di Palermo per le conversazioni casualmente intercettate nell’ambito dell’inchiesta Stato-mafia. Disponendo la distruzione dei nastri con modalità che evitano la ‘propalazione’ dei contenuti, la Consulta afferma la ‘riservatezza assoluta’ delle conversazioni del Presidente, legata all’esercizio delle sue funzioni, e l’esigenza di una ‘tutela rafforzata’ a salvaguardia del sistema costituzionale”. I primi stralci della sentenza 1/2013 scritta dai giudici relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo sono alquanto espliciti. Secondo i giudici la distinzione tra “intercettazioni dirette, indirette, e casuali” “non assume rilevanza”. La Corte Costituzionale ha stabilito che “non spettava ai pm” né valutare la rilevanza della documentazione né “omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271 (riferito alle intercettazioni vietate, ndr), terzo comma codice procedura penale e con modalità idonee ad assicurarne la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti”. Per i giudici la posizione del Presidente della Repubblica “non sarebbe assimilabile a quella del parlamentare: solo il secondo infatti può essere sottoposto a intercettazione da parte del giudice ordinario” e in questo senso la Procura di Palermo avrebbe “fatto un uso non corretto dei propri poteri”. La Consulta ha osservato quindi che il presidente della Repubblica “è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”. I giudici hanno ritenuto inoltre che il capo dello Stato, sia per quanto attiene alle sue attività “formali” che quelle “informali” “deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto a una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte”. A parere della Corte la “propalazione” del contenuto dei colloqui del Capo dello Stato “sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e per le funzioni del Capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo che dovrebbe sopportare le conseguenze dell’acuirsi delle contrapposizioni e degli scontri”. “Non è salvaguardia della persona ma della efficacia delle funzioni”. “Leggeremo con attenzione le motivazioni della Consulta – ha dichiarato a caldo il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi – e ci adegueremo alle sue direttive”. Certo è che ad una prima lettura del documento tornano in mente le considerazioni di Alessandro Pace, professore emerito di Diritto costituzionale e difensore della Procura di Palermo nel conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale di fronte alla Consulta. Nella parte finale del suo intervento Pace si era domandato che cosa dovrebbero fare i magistrati se intercettassero una conversazione del presidente della Repubblica che complotta per un golpe. Eliminare i files? Per quanto riguarda l’articolo 271, 3° comma, lo scorso dicembre l’avv. Pace aveva ricordato in un’intervista come in questo caso non potessero essere applicati nemmeno il primo e il secondo comma in quanto nel secondo comma non sussisteva “l’eadem ratio per sostenere che nella specie vi possa essere un’analogia tra il Capo dello Stato e un avvocato e un sacerdote” ; così come per il primo comma, “nel quale si parla di ‘casi non consentiti di intercettazioni’”. “Esiste il divieto di intercettazioni ‘dirette’ a danno del Presidente della Repubblica – aveva specificato il difensore della Procura di Palermo – nell’art. 7, 3°comma, della legge 219/1989, ma non esiste nel nostro ordinamento alcun divieto d’intercettazioni indirette. Lo ha detto la stessa Corte Costituzionale nella sentenza 390/2007 con riferimento alle intercettazioni dei parlamentari interpretando l’art. 68 Cost. E lo si deve ripetere anche per il citato art. 7, per la semplice ragione che le intercettazioni casuali costituiscono un fatto fortuito, e i fatti fortuiti non possono essere né imposti né vietati. Se ne possono disciplinare le conseguenze, ma non i fatti in sé e per sé”. Le geometrie giuridiche contenute nella sentenza della Consulta spostano volutamente l’attenzione dalla questione principale: la gravità di alcune telefonate del privato cittadino Nicola Mancino che chiedeva aiuto al Colle per evitare il confronto con Claudio Martelli in merito alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, fino a tentare di far togliere la suddetta inchiesta alla Procura di Palermo. Siamo di fronte a conversazioni che rientrano nelle questioni “informali” del Presidente? “E’ indispensabile – hanno scritto sul punto i giudici della Consulta – che il Presidente affianchi continuamente ai propri poteri formali, espressamente previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il ‘potere di persuasione’, essenzialmente composto di attività informali”. E “le suddette attività informali, fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici, implicano necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocutori”. Parole pesanti. Che alimentano la sgradevole sensazione di un Presidente al di sopra della legge e di una sconfitta del diritto e della Costituzione nel tentativo di fermare un pool di magistrati che investiga sulla trattativa Stato-mafia. Per un ex appartenente a quel pool come Antonio Ingroia (attualmente candidato premier per “Rivoluzione Civile”) la Corte Costituzionale “conferma il principio dell’assoluto riserbo che deve circondare le comunicazioni del Capo dello Stato, principio al quale si è sempre attenuta la Procura di Palermo (come dimostra il fatto che neanche una riga di queste intercettazioni è uscita sui giornali), ribadendo altresì che solo il giudice e non il Pubblico ministero può distruggere tali intercettazioni, come da sempre sostenuto dalla Procura”. “In secondo luogo – sottolinea Ingroia –, la sentenza apre ad un ampliamento delle prerogative del Capo dello stato, mettendo così a rischio l’equilibrio dei poteri dello Stato”.

Fonte:Antimafiaduemila