Il senatore deve essere processato: la Procura antimafia accusa D'Ali'

di Rino Giacalone – 24 ottobre 2011

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Il suo nome è stata una costante nelle indagini antimafia più recenti. La cosidetta mafia borghese, quella che ha “comandato” su Trapani e la provincia è finita sempre col girare attorno alla sua persona. Lui da ultimo è uscito dal silenzio protestando perché continuamente il suo nome viene accomunato a “malefatte” e “complotti”. Adesso però per il senatore Antonio D’Alì, “patron” berlusconiano a Trapani (sindaco del capoluogo Fazio permettendo perché rotta l’antica alleanza tra i due non c’è per niente pace) si prospetta l’ingresso da indagato nell’aula del giudice delle udienze preliminari del Tribunale di Palermo. La Procura antimafia ne ha chiesto infatti il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. La firma in calce al provvedimento è quella del procuratore aggiunto Teresa Principato e dei sostituti procuratore Paolo Guido e Andrea Tarondo. Il nodo è quello del rapporto mafia, imprese e politica. Sullo sfondo nell’atto di accusa, formato da diversi faldoni, si staglia, e nemmeno come un “fantasma”, la figura di Matteo Messina Denaro, il super latitante di Cosa nostra trapanese cresciuto affianco al padre, don Ciccio Messina Denaro, campiere nei terreni dei D’Alì. Infatti, come ha raccontato l’ex moglie del senatore, la signora Picci Aula, capitava talvolta che il piccolo Matteo passasse le giornate nella tenuta dei D’Alì. Ovvio che non è il fatto di quel ragazzino, che poteva sedere sulle ginocchia di qualcuno dei benestanti trapanesi che avevano i terreni a Zangara (territorio belicino di Castelvetrano) che ha portato oggi il senatore ad un passo dal processo per mafia. L’inchiesta è fatta di ben altro, cominciando proprio dalla vicenda che gira attorno ai terreni di Zangara. Il pentito di mafia Francesco Geraci già nel corso di un processo che contrapponeva un altro D’Alì, il prof. Giacomo, cugino del senatore ed ex componente del Cda della Comit, e il deputato ed ex presidente nazionale dell’antimafia, Francesco Forgione, riferì che quel terreno fu oggetto di una falsa compravendita tra i D’Alì e la famiglia mafiosa locale. I denari pagati davanti al notaio sarebbero stati riconsegnati dai D’Alì a Geraci che puntualmente ha detto di averli andati a prendere presso la sede della banca, quando questa aveva i suoi uffici direzionali nel corso Piersanti Mattarella a Trapani. Il racconto di Geraci avrebbe trovato riscontro anche nelle dichiarazioni di alcuni suoi congiunti. La difesa di D’Alì ha tirato fuori un compromesso risalente al 1982 e però la storia dei soldi restituiti non sarebbe del tutto infondata, e in questo contesto è saltato fuori il nome di Pietro D’Alì, fratello del senatore, anche lui avrebbe partecipato alla restituzione. Non sono pochi i faldoni di questa indagine che si è riaperta quando stava per andare in archivio. La Dda di Palermo si era mossa in questo senso, quando il gip Antonella Consiglio ha invece rigettato la richiesta e respinto le tesi difensive, ordinando nuovi approfondimenti. Il risultato è quello di queste ore, richiesta di rinvio a giudizio. Ai faldoni dell’accusa ci sono da aggiungere anche quelli della difesa che ha svolto rispetto all’avviso di conclusione delle indagini che era stato notificato dalla Dda poco prima dell’estate, una intensa attività investigativa, ascoltando decine e decine di persone, tra Trapani, Roma e Palermo. La Dda però non ha cambiato strada ed ha imboccato quella del dibattimento. Sul tavolo i magistrati hanno posto i verbali dell’ultimo più importante dichiarante del trapanese, l’imprenditore Nino Birrittella, che ha riferito di particolari relativi alla campagna elettorale nazionale del 2001, quella che vide trionfare il centrodestra e D’Alì divenne sottosegretario all’Interno e lo restò fino al 2006. Birrittella affiancava il padrino Ciccio Pace nella cupola di cosa nostra trapanese, ed ha detto del sostegno della mafia alla campagna elettorale di D’Alì. Ma ancora ha anche fatto un passo indietro quando lo stesso sostegno sarebbe stato concesso dal precedente capo mafia, Vincenzo Virga, che in quel 2001 veniva arrestato dopo sette anni di latitanza. Appalti, acquisto di caserme da destinare ai carabinieri, come quella di San Vito Lo Capo, sarebbero vicende nelle quali la mafia avrebbe avuto il suo tornaconto e il senatore D’Alì si sarebbe occupato per garantire questo tornaconto. Uno dei capitoli dell’impianto accusatorio è quello dei rapporti con mprenditori fortemente discussi, come l’imprenditore Francesco Morici, o ancora con imprenditori nel frattempo finiti in carcere con condanne definitive per mafia, come il valdericino Tommaso Coppola: è uno di quelli che si è molto bene raccordato con lui, ha reso dichiarazioni fermandosi proprio sull’uscio dei rapporti tra mafia e politica. D’Alì però su questo versante si è difeso indirettamente (non è stato mai sentito dai magistrati, sebbene adesso lui, dopo l’avviso di conclusione delle indagini poteva chiederlo), “si dimentica – dice – che i rapporti politici portavano Coppola a sinistra, ma di questo non si parla. Io mi sono interessato a fare arrivare finanziamenti per la crescita di questo territorio, non per arricchire ora uno ora l’altro imprenditore, le dico di più, rifarei tutto quello che ho fatto”. Un altro dei capitoli di indagine è quello relativa alla “cricca” che si sarebbe realizzata ai tempi dei lavori preliminari per rendere il porto di Trapani adeguato ad accogliere nel 2005 le barche a vela della Coppa America. Lì la mafia, lo dicono sentenze passate in giudicato, si infiltrò con le proprie forniture. Cemento, ferro, inerti. Propedeutica a non avere intralci sarebbe stata l’azione contestata anche al senatore D’Alì di avere “spinto” nel 2003 perché andasse via l’allora prefetto Fulvio Sodano, al suo posto giunse l’ex questore di Roma, Giovanni Finazzo che con D’Alì si mostrava apertamente come grande “amicone”.. Il contrasto tra D’Alì e Sodano ci sarebbe stato all’epoca dell’intervento della prefettura a favore dell’azienda confiscata alla mafia Calcestruzzi Ericina. Oggi il senatore Antonio D’Alì, a Palazzo Madama dal 1994, è presidente della Commissione Ambiente del Senato dal 2008, esponente berlusconiano dalla prima ora. LA REPLICA DEL SENATORE D’ALI’ “Sono una persona onesta e per bene. Non avrei mai immaginato che a stabilire ciò dovrà essere il giudizio di un tribunale, oltre quello dei cittadini, che mi conforta, da sempre e con diverse espressioni manifestatomi. Ma va bene anche così”. Questo il commento del presidente della commissione Ambiente del Senato ed ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì’ rispetto alla notizia della richiesta di rinvio a giudizio firmata dai magistrati della Procura antimafia di Palermo, per lui l’accusa è quella di concorso etserno in associazione mafiosa. D’Alì poi si lamenta: “Ancora una volta la stampa da fulminea pubblica notizia di una richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Palermo che mi riguarderebbe, a me non notificata”. Meravigliati della richiesta di rinvio a giudizio i suoi difensori, avvocati Stefano Pellegrino e Gino Bosco: “Soprattutto meraviglia – dicono – in considerazione del fatto che rispetto alle motivazioni a suo tempo esposte dagli stessi Pm per richiederne e ribadirne l’archiviazione non sono state acquisite nuove prove di qualsivoglia colpevolezza ed anzi sono stati prodotti rilevanti atti di indagini difensive comprovanti l’assoluta estraneità del senatore ad ogni possibile addebito o indizio. Nei modi e termini consentiti dalla procedura – concludono i due legali – sarà nostro interesse e dovere, a tutela della immagine del sen. D’Alì’ , mostrare alla stampa le risultanze delle stesse e le sorprendenti verità emerse, in perfetto contrasto con quanto nel corso degli anni finora riportato dagli organi di informazione”.

Fonte:Antimafiaduemila