Difendiamoli!

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di Lorenzo Baldo – 1° febbraio 2011 – AUDIO E FOTOGALLERY ALL’INTERNO!
Palermo.
“Io accetto, ho sempre accettato più che il rischio, quali sonole conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e vorreidire anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto a un certo punto della mia vita di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli.

La sensazione di essere un sopravvissuto, e di trovarmi come viene ritenuto in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione, o finanche vorrei dire dalla certezza, che tutto questo può costarci caro”. Le parole di Paolo Borsellino registrate durante un’intervista, il 22 giugno 1992, risuonano nella mia testa mentre ci apprestiamo a presentare il libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” scritto insieme al nostro direttore, Giorgio Bongiovanni. Accanto a noi siedono Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo, due magistrati che, insieme ad altri loro colleghi, hanno raccolto sulle loro spalle la gravosa e straordinaria eredità del giudice assassinato in via D’Amelio il 19 luglio 1992. Salvatore Borsellino li osserva in silenzio, sua sorella Rita ci raggiunge poco dopo per alcuni problemi di salute che l’hanno trattenuta. Al tavolo dei relatori anche il giornalista Umberto Lucentini, vero e proprio biografo di Paolo Borsellino, autore del libro sul giudice assassinato pubblicato nel ’94 Il valore di una vita. Il preside della facoltà di Giurisprudenza, Antonio Scaglione, introduce l’incontro. Il figlio del procuratore Pietro Scaglione, ucciso dalla mafia nel 1971, ricorda l’importanza dell’impegno complessivo di tutte le istituzioni e della società civile nella lotta alla mafia. Il prof. Scaglione evidenzia quindi le importanti iniziative del suo ateneo nel campo della lotta alla mafia attraverso ricerche specifiche sui temi legati al reato di associazione mafiosa e di confisca dei beni mafiosi, mostrando una particolare attenzione nel proseguimento dei progetti di legalità già istituiti dai suoi predecessori. Subito dopo Umberto Lucentini si rivolge a Rita e a Salvatore per sottolineare con grande emozione come entrambi, “ognuno con la propria personalità, con la propria passione e con il proprio impegno quotidiano sono assolutamente all’altezza del proprio fratello…”. Le parole dell’ex cronista de l’Europeo riaccendono le immagini di Paolo Borsellino alla procura di Marsala, per poi affrontare la questione nevralgica di quello che fin dal 19 luglio ’92 si intuiva: e cioè che dietro la strage di via D’Amelio non c’era solo Cosa Nostra. Lucentini affronta di seguito il nodo del ruolo dell’informazione assoggettata al potere politico, spiegando il rischio che ciò che viviamo oggi a seguito dell’ingerenza di Berlusconi nei media possa tornare a ripetersi con un suo possibile alter ego dello schieramento opposto. Per il cronista palermitano l’unica via d’uscita da questo pericoloso empasse la si può trovare nei lettori che esigono dai giornalisti la coerenza di informare facendo il proprio dovere. La rappresentante della confederazione associazioni studentesche, Lucia Castellana, chiede a Rita Borsellino come ci si senta a stare dentro ad un sistema politico per alcuni versi colluso con la mafia. Subito dopo le stragi Rita aveva intrapreso un lunghissimo viaggio per tutta l’Italia insieme ad Antonino Caponnetto e a Don Ciotti, per sensibilizzare le coscienze dei tanti giovani che incontravano nelle scuole e nelle piazze. L’agone politico che avrebbe frequentato nel futuro, dall’Ars, fino al Parlamento Europeo, nemmeno si poteva immaginare in quegli anni. L’analisi di Rita Borsellino è lucida e minuziosa. Con la mente torna ai giorni della sua candidatura alle Regionali contro Salvatore Cuffaro. Ricorda ai presenti la sua sconfitta (dovuta anche al mancato sostegno da parte di quella politica refrattaria al cambiamento) e soprattutto la sconfitta della Sicilia intera che per ben due volte aveva preferito votare un imputato per favoreggiamento alla mafia in quegli anni sotto processo. Per ribadire l’importanza di contrastare globalmente il fenomeno mafioso Rita ha anticipato che tra un paio di settimane a Bruxelles si svolgerà una conferenza internazionale per una strategia comune contro la criminalità organizzata e le mafie. “La parola mafia – ha sottolineato amaramente la sorella di Paolo Borsellino – non è mai comparsa in un documento ufficiale dell’Europa ne del Consiglio, ne del Parlamento, ne della Commissione”. “Quando abbiamo cominciato a organizzare questo convegno a cui parteciperanno i procuratori della repubblica di mezza Europa mi è stato affidato il rapporto di iniziativa sulla strategia di sicurezza interna in Europa”. “Se si vuole davvero rompere questo sistema – ha sottolineato la Borsellino – bisogna essere in politica, come bisogna essere in magistratura per potere portare avanti questa difesa a oltranza dei valori e dei principi della giustizia… Bisogna essere lì, bisogna conoscere i meccanismi… bisogna cercare di scardinare un sistema che dall’esterno sembra impenetrabile…”. Seduti in prima fila, chiusi nel loro dolore dignitoso, Vincenzo Agostino (il papà dell’agente Nino Agostino, assassinato dalla mafia insieme a sua moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989) e sua moglie Augusta. Tra il folto pubblico tanti i giovani presenti. Alcuni di loro probabilmente appena nati in quel maledetto 1992. Il momento storico che stiamo vivendo è tra i più carichi di tensioni sociali che l’Italia ricordi. Il rischio di scontri violenti più o meno “stimolati” da apparati paraistituzionali si respira forte da troppo tempo. Il pericolo di attentati destabilizzanti nei confronti di uomini delle istituzioni riemerge dagli archivi degli anni ’90 per attestarsi come una delle ipotesi più temibili percepita da quella parte di società civile attenta ai mutamenti e ai riflussi storici. E’ la volta di Antonio Ingroia. L’allievo di Paolo Borsellino spiega come la nostra sia una “democrazia incompiuta”, una “democrazia dimezzata”, nella quale sono negati quei “valori fondanti” contenuti nella Carta costituzionale normalmente presenti in ogni “autentica democrazia”. Per Ingroia uno di quei principi negati è innanzitutto l’eguaglianza della legge davanti a tutti i cittadini ed è soprattutto “un punto di riferimento nell’opera professionale, così come del percorso umano e professionale di Paolo Borsellino”. Ma questa democrazia si potrà raggiungere “solo se il nostro Paese riuscirà a riconquistare un’uguaglianza spesso negata” e solo se verrà applicato il principio che “non solo i deboli ma anche i potenti devono rispondere dei reati che commettono”. Per il procuratore aggiunto di Palermo “l’assedio cui è stata sottoposta l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da parte di ben precisi settori della politica, dell’informazione e dell’economia non è mai stato e non è oggi fine a se stesso, non è finalizzato a vendicarsi di una magistratura disubbidiente, ma ha come finalità quello di negare sotto altra forma il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ed è la ragione per la quale l’autonomia e l’indipendenza della magistratura va difesa da tutti i cittadini che hanno a cuore il principio di eguaglianza e le sorti della democrazia”. Proseguendo nel suo intervento Ingroia affronta quei poteri criminali “che hanno condizionato l’intera storia del nostro Paese da secoli”. “E non è un caso – ribadisce il pm prendendo come esempio la strage di Portella della Ginestra fino a quelle del ’93 – che l’Italia sia il Paese di democrazia occidentale a più elevato tasso di stragismo contrassegnato dalla presenza di poteri occulti che ha attraversato l’intera storia del nostro Paese, ne ha condizionato e indirizzato il corso…”. Secondo il magistrato palermitano quello che viene fuori dalle indagini sulla trattativa tra Stato e mafia riporta in superficie la precedente stagione stragista che “allunga la sua ombra anche oggi”. L’analisi di Ingroia va a toccare il “blocco di potere che vuole che le cose restino così come sono”, evidenziando come l’unica possibilità di ottenere una democrazia compiuta che resti alla società civile per ristabilire
il principio di uguaglianza e di libertà dal condizionamento dei poteri criminali passi attraverso un solo strumento: “Conquistare la verità!”. Solamente se l’intera società pretenderà di conoscere la verità potremo avere giustizia, e questo solamente se arriveremo ad “individuare, scoprire, conoscere la verità sulle nostre origini”. “Noi siamo figli di quella stagione, orfani di questi maestri che non ci sono più” e soprattutto “orfani della verità su quella stagione”. Per Ingroia quella che si prospetta è una “verità pesante, ingombrante, imbarazzante, quasi indicibile”, ma “dobbiamo assumerci, da cittadini, sulle nostre spalle di cercarla questa verità”. E quando una verità è così ingombrante e imbarazzante “può essere solamente una conquista collettiva” creando così un movimento ampio “che voglia verità e giustizia”. Per il procuratore aggiunto di Palermo questa fase della grave crisi etico-morale e politico-istituzionale “ha delle strane assonanze con la crisi politico-istituzionale ed etico-morale del ’92”. Un pericoloso parallelismo che non lascia scampo all’immaginazione. Nella conclusione del suo intervento il ricordo di “quei valori verso i quali Paolo Borsellino aveva formato la sua condotta professionale e umana” che “non erano solo negli ultimi giorni ma per tutta un’esistenza…”. “Soltanto così potremo conquistare una piena libertà nel nostro futuro e ancora qualche riconoscimento anche da Paolo Borsellino che ci ricorda…”. Un lunghissimo applauso chiude la relazione di Antonio Ingroia e anticipa l’intervento di Salvatore Borsellino. Il fratello del giudice si alza in piedi. La rabbia che trasuda dalle sue parole rimbomba sui soffitti altissimi di quest’aula austera. Ormai Salvatore non parla più, grida, tutta la sua sete di giustizia è diretta a chi lo ascolta per spronarlo ad unirsi a chi pretende giustizia e verità per questo nostro disgraziato Paese. Salvatore ricorda il senso di “ottimismo” di suo fratello nei confronti dei giovani che avrebbero avuto una maggiore coscienza civica per contrastare la mafia; quell’ottimismo rimasto nell’ultima lettera che Paolo Borsellino aveva scritto ad una professoressa di Padova la mattina del 19 luglio 1992. “In Italia non tutti vogliono la verità, la giustizia, non soltanto chi ci governa, ma forse anche a tante persone non interessa…!”. Il ricordo di Salvatore va a toccare “l’amore di Paolo”. “Solo l’amore dura tanto nella vita… sono morti tanti magistrati, tante altre persone, ma solo Paolo ha lasciato attorno a sé questo amore perché ce l’aveva dentro… era per amore che lui combatteva…”. “Ricordo bene il discorso di Paolo al trigesimo di Falcone, parlando di Giovanni Falcone mio fratello disse: ‘Perchè non sono fuggiti…? Perché non hanno abbandonato…? Per amore!’”. “Era come se stesse parlando di se stesso – evidenzia Salvatore – perché è per amore che Paolo ha sacrificato la sua vita! Per amore che Paolo ha negato le carezze ai suoi figli, ha accettato di sacrificarsi per tutti noi! Avrebbe potuto fuggire anche lui, sarebbe potuto andare via, avrebbe potuto smettere…”. “Nel momento in cui qualcuno gli ha parlato della trattativa, nel momento in cui forse Nicola Mancino (il 1° luglio del ’92) gli ha comunicato che doveva fermarsi e che c’era una trattativa in corso, che doveva interrompere tutto, la reazione di Paolo deve essere stata così violenta, così assoluta, tanto da minacciare di rivelare quello che gli era stato detto all’opinione pubblica, che a questo punto non restava che una possibilità: eliminarlo ed eliminarlo in fretta, più in fretta di quanto la stessa mafia avesse progettato ed è per questo che Paolo è stato ucciso…”. La voce di Salvatore aumenta via via di intensità. “I ragazzi che oggi combattono per Paolo lo fanno, nonostante non lo abbiano conosciuto, perché hanno dentro l’amore di Paolo… e l’amore di Paolo io credo che sia la cosa più bella che lui ci ha lasciato…”. “Adesso ho capito cosa deve essere la speranza – dice lentamente Salvatore – quella stessa speranza  che aveva Paolo e con la quale è morto e cioè che questi giovani possano vivere in un Paese dove la vita valga la pena di essere vissuta… quel Paese, quel sogno per cui Paolo ha sacrificato la sua vita…”. Immediato parte l’applauso, forte, interminabile, la gente si alza in piedi, molti sono commossi. Salvatore apre il libricino sull’agenda rossa con il disegno del volto di Paolo. Lo alza in alto. Nel pubblico in molti alzano quello stesso libricino rosso erto a simbolo della richiesta di giustizia e verità per l’agenda rossa di Paolo Borsellino scomparsa nel ’92. Dopo qualche minuto è il pm Antonino Di Matteo a prendere la parola, ancora emozionato per l’intervento di Salvatore. “Paolo Borsellino – esordisce Di Matteo – caratterizzò la sua vita, la sua condotta professionale, la sua attività associativa con un’impronta indelebile: quella della chiarezza, del coraggio, dell’assunzione delle proprie responsabilità”. “Questo non è il momento della prudenza, non è il momento dell’attenzione alle conseguenze eventualmente pregiudizievoli, non è il momento in cui si può privilegiare una tendenza naturale in ciascuno di noi al quieto vivere. E’ il momento del coraggio, della chiarezza, dell’esprimere le proprie opinioni con onestà concettuale, ma senza infingimenti e senza tatticismi”. “Per come ho conosciuto Paolo Borsellino – spiega il sostituto procuratore di Palermo – soprattutto dalla lettura di tanti atti processuali, di tanti suoi interventi pubblici, ritengo che Paolo Borsellino si sarebbe ispirato a questi criteri, non ho dubbi su questo, così come non ho dubbi che quelli che cercano di contrapporre a chi ha il coraggio di parlare le figure di Falcone e Borsellino come “magistrati silenti” lo fanno in malafede e clamorosamente affermando quello che non è vero”. Il magistrato palermitano affronta nuovamente la questione di quella che viene definita “una guerra tra politica e magistratura”. “Io sono convinto – ribadisce Di Matteo – che sia una clamorosa mistificazione. Non c’è stata nessuna guerra reciproca, c’è stata e c’è una offensiva violenta, unilaterale, di una parte autorevolissima della politica, nei confronti della magistratura! E’ una guerra unilaterale, ma la magistratura ha resistito, resiste e resisterà in nome dei principi costituzionali sui quali noi abbiamo giurato!”. L’argomento delle complicità esterne nelle stragi del ’92 viene successivamente approfondito. “Queste indagini – ribadisce con forza – stanno vivendo una fase cruciale e oltremodo difficile. Sempre più evidenti e pericolose emergono delle subdole controspinte rispetto all’esigenza di verità. Avvertiamo anche il pericolo che ci possano essere degli interessi nel cercare di delegittimare a priori le dichiarazioni di quei collaboratori di giustizia e di quei testimoni che hanno osato affrontare argomenti tanto delicati, iniziamo a percepire il sentore del fastidio generalizzato per le nostre indagini. Percepiamo come il muro di gomma del silenzio e dell’oblio tenda a riconsolidarsi; percepiamo questo pericolo quando avvertiamo come evidenti troppe reticenze, i tanti ‘non ricordo’, le palesi omissioni che caratterizzano le dichiarazioni di troppi testimoni istituzionali”. “Noi andremo avanti – sottolinea Di Matteo – non c’è nessun dubbio, sentiamo il dovere etico, ancor prima che giuridico, di andare fino in fondo, per capire quello che è successo. Andremo avanti, non ci sorprenderebbe nemmeno se qualcuno tentasse di sottrarci la possibilità di indagare su questi argomenti, perché noi abbiamo un dovere etico, perché siamo cittadini che crediamo nello Stato, siamo magistrati che crediamo nello Stato”. “Dobbiamo capire – osserva il pubblico ministero del processo per la mancata cattura di Provenzano – se veramente Stato e mafia, due entità che dovrebbero percorrere strade parallele che non si incontrano mai, abbiano invece cercato e trovato spazi di dialogo e se abbiano stretto a
ccordi inconfessabili, perché se così hanno fatto, tra l’altro, hanno mortificato (in nome di una ragione di Stato contraria all’essenza della nostra Repubblica democratica) l’azione di uomini come Paolo Borsellino che volevano combattere la mafia senza scendere a patti, con le sole armi della legge, del codice e del diritto”. “Noi continueremo perché crediamo nello Stato e perché siamo consapevoli che uno Stato che mostrasse il timore di scoprire verità troppo scomode, uno Stato che non fosse capace, ove  emergessero i presupposti di processare se stesso, si assumerebbe una responsabilità ulteriore ed enorme, quella di perpetuare anche per il futuro il potere più subdolo della mafia che è quello del ricatto nei confronti delle istituzioni pubbliche”. Nell’appello finale di Antonino Di Matteo l’abnegazione e lo spirito di servizio di un magistrato integerrimo. “Tutti voi continuerete ad onorare Paolo Borsellino tenendo viva e costante la vostra attenzione, e alimentando la vostra sete di giustizia e verità”. “Noi magistrati abbiamo il dovere di resistere, nonostante tutto, ispirandoci al suo coraggio, alla passione di Paolo Borsellino, alla sua vera indipendenza da ogni centro di potere palese ed occulto, impegnandoci più di prima nella consapevolezza di esercitare quotidianamente non un potere fine a se stesso, ma un servizio in favore del popolo, dei più deboli, di cittadini che siano veramente tutti uguali innanzi alla legge”. Un lunghissimo applauso chiude l’intervento del dott. Di Matteo dando spazio all’ultimo intervento previsto, quello del coautore del libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino”, Giorgio Bongiovanni. “Io ho la certezza assoluta – rimarca il direttore di ANTIMAFIADuemila –, ma, come diceva Pierpaolo Pasolini: ‘Io so ma non ho le prove’,  che Paolo Borsellino avrebbe indagato personaggi di altissimo livello che oggi comandano l’Italia”.  Bongiovanni si sofferma ad analizzare come Falcone e Borsellino avrebbero impedito con tutte le loro forze che questo potere colluso avesse potuto rovinare l’Italia, così come ha fatto, e come quello stesso sistema criminale avesse ordinato la condanna a morte di entrambi i giudici. Ormai la cosiddetta “trattativa” tra Stato e mafia è confluita in un vero e proprio “accordo”. Una nuova Idra, il mostro mitologico dalle tante teste, rappresentato dal potere politico, economico e criminale. “L’accordo tra mafia e Stato – prosegue il direttore – lo possono fermare i giudici che sono presenti qui, insieme ad alcuni loro colleghi. Noi dobbiamo difendere questi magistrati che sono la prosecuzione di Paolo Borsellino e che, con le loro indagini, potrebbero mettere a rischio questo accordo. Se questi giudici riusciranno a far saltare questo potere saranno uccisi nello stesso devastante modo nel quale è stato ucciso Paolo Borsellino! E noi non lo dobbiamo permettere, dobbiamo impedirlo facendo prevenzione! Se questo potere vuole continuare a tiranneggiare il nostro Paese si metterà un’altra maschera che non si chiamerà più Berlusconi, ma avrà un altro nome, e l’accordo con questo sistema di potere non si frantumerà”. La gente ascolta senza fiatare, gli occhi sono puntati sui magistrati presenti al tavolo. “Non pensate che il pericolo per i giudici sia finito con gli arresti dei mafiosi – conclude Bongiovanni – con i vecchi Riina e Provenzano in galera. Quel sistema di potere che il procuratore Scarpinato cita con la definizione di ‘Principe’ coltiva sempre una forza militare. Chi sono i nuovi capi della mafia? Certamente Matteo Messina Denaro, ma chi sono i nuovi soldati rampanti? Non è difficile mettere nelle mani di questi personaggi, che Antonino Giuffrè definisce ‘puledri scalpitanti’, un bazooka o un’autobomba riempita di tritolo. E non è difficile farlo in Sicilia, forse lo è di più al nord. Non è difficile far saltare in aria i nostri magistrati se si ostinano a rompere questo accordo per far trionfare le istituzioni, la democrazia e la Costituzione nel nostro Paese. Ognuno di noi ha un dovere, per quello che può fare, noi da giornalisti, i laici, i credenti, gli atei: difendiamoli, difendiamoli… Difendiamoli!”. L’applauso scrosciante del pubblico stempera la tensione e si fonde in una sorta di promessa a mantenere fede a quell’impegno. Subito dopo, al cinema Edison, è la volta della proiezione del film di Salvatore Borsellino e Marco Canestrari: “19 luglio 1992. Una strage di Stato”. Il lungometraggio è un documentario appassionato e ben realizzato grazie alla redazione di 19luglio1992.com che affronta il mistero della strage di via D’Amelio attraverso le testimonianze di magistrati e giornalisti che stanno ricercando la verità (verrà distribuito da Il Fatto Quotidiano a partire dall’8 febbraio). Il giornalista de l’Unità, Nicola Biondo, presente all’incontro, si domanda provocatoriamente se il motivo per il quale la maggior parte degli italiani non voglia conoscere la verità sulle stragi vada addebitato al fatto che la mafia resta a tuttoggi l’azienda n.1 in Italia, o se invece non sia forse perché “gli italiani sono stati più realisti del <Re>”. Le immagini della strage del 19 luglio ’92 lampeggiano sul maxi schermo mentre a tratti Salvatore Borsellino chiude gli occhi per non vedere. E’ lui stesso al termine della proiezione, durante il dibattito moderato da Lidia Undiemi con Antonio Ingroia, Marco Canestrari e Nicola Biondo a spiegare il motivo di quella sua impossibilità a reggere ancora quelle immagini. Salvatore è rimasto profondamente colpito dalle precedenti dichiarazioni di Antonio Ingroia sul rischio di una nuova fase di calo di attenzione nei confronti delle indagini sulla “trattativa” e sui “mandanti esterni” delle stragi del ’92 e del ’93. Il fratello di Paolo Borsellino non accetta soprattutto che un magistrato come Ingroia denunci il pericolo che “possano verificarsi eventi” mirati a impedire che questa verità venga fuori. A quali “eventi” si riferisce il procuratore aggiunto di Palermo? Salvatore non si dà pace, teme per l’incolumità di questi giudici in prima linea, grida tutta la sua rabbia e chiede a gran voce che l’opinione pubblica sostenga ancora più forte questi magistrati. E’ lui a trasmettere con tutta la sua ansia l’urgenza di non fermarsi e di continuare a lottare al loro fianco.
Prima che sia troppo tardi.

Un ultimo sentito e profondo ringraziamento va ai relatori della presentazione del nostro libro. A fronte di quanto è stato detto nei nostri confronti e nei riguardi del nostro lavoro possiamo solamente cercare di sdebitarci continuando a fare sempre il nostro dovere.
Ascoltando le loro parole abbiamo percepito nuovamente l’essenza di Paolo Borsellino che vive attraverso di loro, abbiamo sentito come lo spirito immortale di quest’uomo continua ad operare su questa Terra per lo stesso motivo che lo ha caratterizzato durante la sua vita: per amore.
Nel nome di quell’amore e per rendere giustizia a lui e a tutti i martiri che lo hanno accompagnato ognuno di noi ha il dovere morale di continuare a lottare. Il tempo è questo.

Fonte:Antimafiaduemila