Strage Borsellino: le dichiarazioni depistanti di Trizzino in Commissione antimafia (2/2)

Giorgio Bongiovanni

Su mafia appalti solito mantra e insiste contro i magistrati che cercano la verità

Nei giorni scorsi in Commissione antimafia, con le ultime serie di domande di deputati e senatori, si è definitivamente conclusa l’audizione di Lucia Borsellino, figlia del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio, e dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della stessa Lucia, di Manfredi e Fiammetta Borsellino. La abbiamo ascoltata con attenzione ed interesse.
Abbiamo ascoltato le parole di Lucia Borsellino che si è soffermata sulla scomparsa dell’agenda rossa, che è stato sicuramente il primo atto di depistaggio effettuato sulla strage di via d’Amelio (“Io ho testimoniato personalmente in ordine alla presenza dell’agenda rossa nella borsa perché sono stata testimone oculare dell’utilizzo dell’agenda da mio padre la mattina del 19 luglio. L’agenda rossa era nella borsa con l’agenda marrone, il costume da bagno, le chiavi di casa, le sigarette. Mi sono arrabbiata perché non ci era stata consegnata l’agenda rossa ed ero certa che fosse nella borsa. Io sono certa che l’ha portata con sé. Escludo la possibilità che l’abbia lasciata a casa al mare o in altri luoghi perché mio padre non se ne separava mai”). Ma Lucia Borsellino ha anche consegnato alla commissione una copia dell’agenda marrone di suo padre, quella che il giudice usava per segnare i numeri di telefono. “Nella borsa di mio padre c’era non solo l’agenda rossa ma anche un’agenda marrone, che conteneva una rubrica telefonica. Un’agenda mai repertata, che ci è stata consegnata e che abbiamo custodito per trent’anni senza aver mai saputo che non avesse avuto attenzione sotto il profilo delle indagini. In questi giorni ho chiesto a mio fratello di fornire a questa commissione copie scansionate di quell’agenda e sarà mio padre a far comprendere chi fossero le persone di cui si fidava e quelle di cui non si fidava”, ha detto la figlia del magistrato ucciso nella strage di via d’Amelio”. E poi ha aggiunto: “Io vorrei dare la mia lettura su quell’agenda marrone, che è stata aggiornata fino alla mattina del 19 luglio: lì troverete tutti i numeri delle persone vicine a mio padre. Si trovano per tre quarti numeri di magistrati e per il resto di familiari. Troverete un surplus di numeri di persone che mio padre aveva necessità di raggiungere in qualunque momento oppure di persone come Giammanco che per questioni lavorative doveva raggiungere. Non troverete i numeri di chi non aveva queste frequentazioni. Me ne assumo la responsabilità: per i numeri che non troverete lascio a voi ogni valutazione”.
Ieri mattina l’Unità del solito Sansonetti si è soffermato su queste parole per puntare il dito in particolare contro un magistrato, Roberto Scarpinato, insinuando, di fatto, che lo stesso fosse inviso a Borsellino.
Eppure è noto che proprio Scarpinato fu colui che redasse e sottoscrisse la lettera firmata da otto componenti della DDA di Palermo (all’ex Procuratore generale di Palermo si aggiunsero Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, e Vittorio Teresi) in cui si diceva, in sostanza, che il Procuratore capo Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. Quel documento fu redatto proprio dallo stesso Scarpinato che in questi giorni è stato continuamente attaccato all’interno della Commissione.
Un argomento che viene spesso dimenticato nelle ricostruzioni. Viene citata la deposizione al processo depistaggio di via d’Amelio dell’ex pm Antonio Ingroia ma non si dice che proprio quest’ultimo, parlando degli schieramenti che al tempo si erano creati all’interno della Procura di Palermo, metteva da una parte i “fedelissimi” di Giammanco (“Erano tutti gli aggiunti, tra cui Vittorio Aliquò, ad esempio. Ma anche pm come Pignatone, Sciacchitano. Era l’establishment del tempo”) e all’altra i “falconiani”, tra cui vi era anche Scarpinato.
E’ evidente che contro Scarpinato, oggi senatore del Movimento Cinque Stelle, sia in corso una vera e propria manovra, come dimostrano i ripetuti e vergognosi attacchi messi in atto in seno alla stessa Commissione dopo i suoi interventi, con semplici domande, volte a ripristinare la verità dei fatti dopo le molteplici inesattezze della ricostruzione dell’avvocato Trizzino sull’intera vicenda mafia-appalti.
Inesattezze che sono state ripetute anche in quest’ultima seduta che non esitiamo a definire “depistanti” perché sviano l’attenzione della Commissione su fatti che, è stato sufficientemente provato da sentenze, inchieste e processi, non sono causa scatenante di quell’accelerazione che ha portato alla morte Paolo Borsellino appena 57 giorni dopo Giovanni Falcone.

E’ sempre mafia-appalti
L’insistente riferimento che viene fatto al dossier mafia-appalti va proprio in questa direzione. Abbiamo già spiegato perché questa pista (la “favorita” della difesa Subranni-De Donno al processo trattativa Stato-Mafia), ma anche di tanti giornaloni e contestatori della trattativa e dei pm che hanno condotto il processo) non può essere considerata come decisiva nella ricostruzione per comprendere ciò che avvenne con le stragi degli anni Novanta. Stragi che vanno valutate nel loro complesso e non in maniera separata, come invece sembra voler fare la Commissione antimafia presieduta dalla Colosimo.
Ancora una volta è stata ripetuta la solita litania (non veritiera) sull’archiviazione del dossier quando è negli atti che fu richiesta solo l’archiviazione della posizione di alcuni indagati perché alla data del 13 luglio 1992 non erano ancora state acquisite prove sufficienti nei loro confronti.
Ancora una volta si è sventolato il decreto di archiviazione del Gip di Caltanissetta Gilda Lo Forti sulle fughe di notizie sul dossier “mafia e appalti” come se fosse l’unico giudice che si è occupato della vicenda.
Un documento che viene utilizzato per dimostrare l’inesistenza della doppia informativa del Ros.
Di essa, lo ripetiamo ancora una volta, ne dà espressamente atto la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”.
In quel documento si dimostra come una prima versione del rapporto del Ros viene depositata alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991, priva del nome di politici come Calogero Mannino ed altri. La seconda verrà depositata un anno e mezzo dopo, il 5 settembre del ’92. Stavolta però, vi saranno espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
Anche volendo seguire il ragionamento di Trizzino, per cui il documento della Lo Forti è più completo, ciò viene smentito nelle motivazioni della sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia, divenuta definitiva dopo che la Cassazione ha assolto definitivamente gli imputati istituzionali “per non aver commesso il fatto”.
La Corte d’Assise d’Appello di Palermo bacchetta l’ordinanza Loforti, ritenuta “frettolosa e sommaria”, per poi evidenziare le “omissioni assai significative” compiute dal Ros.
Trizzino asserisce di non voler difendere l’operato del Ros, eppure è proprio quello che fa ogni volta che non si misura con le sentenze come quella delle stragi di Firenze in cui si dice che “l’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto tra il Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino (…) iniziativa del Ros – perché di questo organismo si parla posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante, lo stesso comandante del reparto – aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questa iniziativa al di là delle intenzioni con cui fu avviata (…) ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato”.
Trizzino ha sostenuto che quel dialogo con Ciancimino era finalizzato a convincere il sindaco mafioso di Palermo a collaborare e portare elementi sull’indagine mafia-appalti. Eppure proprio i militari del Ros hanno parlato di “muro contro muro” e “trattativa”.
Il legale dei figli dei Borsellino, ovviamente, non tiene conto di fatti come la mancata perquisizione del covo di Riina o il mancato blitz per la cattura di Provenzano. Fatti oggetto di processi che hanno portato ad assoluzioni ma che in seno contengono pesanti giudizi sull’operato del tanto amato “Ros”.
Ma la sequela di informazioni “depistanti” non si ferma qui.
Già in precedenti articoli abbiamo evidenziato come poco seriamente siano state prese le dichiarazioni di Spatuzza, sull’uomo sconosciuto presente al momento dell’imbottitura dell’esplosivo.
E allo stesso modo abbiamo definito osceno il tentativo di stravolgere il senso delle parole della suocera, Agnese Borsellino, quando raccontò ai magistrati ciò che il marito le disse sul generale Antonio Subranni.
Assolutamente non possiamo condividere anche la banalizzazione che viene fatta sulle rivendicazioni ai tempi delle stragi rispetto la sigla “Falange armata” (“La vera falange armata che io ho visto operare seriamente in quegli anni erano le pattuglie di Riina che piazzavano il tritolo. Poi ho visto un’altra falange armata muoversi, uomini dello Stato che hanno fatto di tutto per depistare l’indagine sulla strage via d’Amelio”).

Attacco contro Di Matteo
Ancora una volta, pur non essendo citato direttamente, sul depistaggio di via d’Amelio viene tirato in ballo il magistrato Nino Di Matteo.
Il pretesto è l’argomentazione sul ritardato deposito, nel processo sulla strage di via d’Amelio, nei confronti tra Vincenzo Scarantino ed i collaboratori di giustizia Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera che non furono immediatamente depositati.
Tutto ciò è inaccettabile tenuto conto che il deposito avvenne prima della fine del dibattimento Borsellino bis e vi fu una sentenza del Gip di Catania che archiviò l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta, denunciati da parte di tre avvocati, Di Gregorio, Scozzola e Marasà per “comportamento omissivo”. Il giudice diede loro torto valutando l’operato dei pm come privo di “comportamento omissivo”.
Ma Trizzino, con disonestà intellettuale, non sembra voler mai tener conto di questi elementi. Forse ritiene che anche questi giudici siano protagonisti del depistaggio sulla strage?
Perché questi elementi non vengono mai considerati?

Borsellino e l’intervista ai francesi su Berlusconi e Dell’Utri
Perché quando si parla degli interessi investigativi di Borsellino in quel 1992 non si parla mai dell’intervista che il giudice rilasciò ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus (morto nel 2010), appena due giorni prima della strage di Capaci?
In quella video intervista (mai trasmessa su quel canale ma poi svelata da L’Espresso nel 1994, ed andata in onda parzialmente sulla Rai nel 2000) i due giornalisti francesi stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti fra Cosa nostra e la politica italiana, i collegamenti presunti all’epoca e poi dimostrati (con una sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa) fra la mafia palermitana e Marcello Dell’Utri, fondatore di Publitalia e successivamente del partito Forza Italia, e braccio destro di Silvio Berlusconi. Paolo Borsellino con scrupolo ed equilibrio rispose alle domande a lui rivolte parlando di traffico di droga, di Mangano, della famiglia mafiosa di Porta nuova sempre evidenziando che di quei fascicoli non si stava occupando direttamente ma che da altri dibattimenti emergevano alcuni elementi.
Che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in qualche maniera stessero monitorando le vicende che ruotavano attorno all’ex Cavaliere emerge anche da un altro dato.
Qualche anno fa è stato ritrovato un appunto, redatto proprio da Falcone in cui si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”.
Maurizio Ortolan, ispettore in pensione della polizia, agente di scorta del pentito Mannoia, testimone oculare degli interrogatori che Giovanni Falcone tenne con il collaboratore di giustizia, ha raccontato che quelle parole furono dette già nel 1989.
Quei nomi contenuti nell’appunto non sono di poco conto e rappresentavano una traccia di ciò che sarebbe stato scoperto successivamente.
Gaetano Grado è uno dei boss palermitani che frequentava Milano negli anni Settanta. Gaetano Cinà è il boss mafioso molto amico di Dell’Utri, considerato il “tramite, l’intermediario di alto livello fra l’organizzazione mafiosa e gli ambienti imprenditoriali del Nord”. Vittorio Mangano è il mafioso assunto da Berlusconi come stalliere nella sua villa di Arcore.
E’ ampiamente riconosciuto che, dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino fosse il magistrato di punta della lotta alla mafia. Ed è facile pensare che fosse al corrente delle stesse cose.
Dubitiamo fortemente che la Commissione antimafia indagherà su queste cose, anche se speriamo che lo stesso risalto dato alle affermazioni di Trizzino e Lucia Borsellino possa essere dato a ciò che hanno detto e diranno nelle prossime audizioni l’avvocato Fabio Repici e Salvatore Borsellino che è già intervenuto in difesa proprio di quei magistrati che oggi vengono attaccati.
Più si va avanti in questa storia più è evidente che “menti raffinatissime” si siano messe in gioco per rendere ancor più torbida la ricerca della verità sulle stragi di Stato e sui mandanti esterni che vi sono dietro di esse.
Un’azione che vede alternarsi politici, giornalisti, avvocati difensori di stragisti sanguinari ed avvocati difensori di uomini oscuri, appartenenti ad apparati deviati dello Stato (forze dell’ordine, servizi segreti, Gladio).
E ciò che fa più male è che, più o meno consapevolmente, anche parenti di vittime di mafia si prestino a questo stillicidio.

fonte: antimafiaduemila.com