Palestina-Israele, la guerra dei tremila anni

di Giorgio Bongiovanni

Per capire il conflitto israelo-palestinese, come in tutti i conflitti, bisogna risalire alle origini. D’altronde, la storia, le guerre, le dispute, l’odio e la violenza le si comprendono solo se le si legge volgendo lo sguardo al passato. E nella fattispecie di questo conflitto, questa disputa fratricida risale a ben tremila anni fa quando in Terra Santa, la Palestina, viveva Abramo, padre dei profeti. L’anziano patriarca, ci ricorda la Bibbia, ebbe dalla schiava Agar il suo primo figlio, Ismaele, e successivamente dalla moglie Sara ebbe il secondogenito Isacco. La storia dei patriarchi, bene o male, la conoscono tutti.
I discendenti di Ismaele, gli Ismailiti, sono identificati con i popoli della penisola Araba. Arabo è Maometto da cui origina il popolo dei musulmani. Da Isacco discende il popolo degli ebrei. In questo popolo nasce Gesù di Nazareth, discendente di Davide. Da Gesù ha origine il popolo religioso dei cristiani.
Non staremo qui a elencare l’intera discendenza dell’uno e dell’altro, né ad approfondire gli accadimenti del tempo. Quello che vogliamo ricordare è che ad un certo punto Isacco ed Ismaele si trovarono l’uno contro l’altro. O meglio l’uno a sopraffare l’altro. Fratello contro fratello. E che questa lotta fratricida si è protratta nei secoli, con tutti gli stravolgimenti umani in Terra Santa intercorsi in questi millenni, fino ai giorni nostri. E i motivi di questa lotta tra figli dello stesso padre riecheggiano, in qualche modo, nel conflitto di cui parlano ora le cronache di tutto il mondo. Nei testi sacri si nota già una divisione rispetto Ismaele e Isacco, cioè tra musulmani ed ebrei. Si ha subito una contestazione teologica riguardante l’immolazione di uno dei due figli di Abramo come prova di fedeltà di quest’ultimo a Dio. Secondo gli ebrei (così come secondo i cristiani), Dio ordinò ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco. Secondo i musulmani, invece, Allah (Dio in arabo) ordinò al patriarca di sacrificare Ismaele. In entrambe le interpretazioni avviene il miracolo della sostituzione del fanciullo con un agnello ad opera del Dio misericordioso e quindi la salvezza del giovane. Ritornando alla divisione fratello-fratello, la Bibbia ricorda l’allontanamento di Ismaele dal padre su richiesta di Sara. Allontanamento dovuto alle molestie subite dal figlio di questa – San Paolo usò addirittura il termine perseguitare – da parte del primogenito di Abramo.


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Una rappresentazione di Abramo, Isacco e Ismaele


Un atteggiamento, quello di Ismaele, spinto probabilmente da un sentimento di inferiorità afferibile al fatto che il padre prediligesse Isacco, che sarebbe dovuto essere quel primo figlio maschio che tanto voleva ma che la moglie Sara non riuscì a concepire per lunghissimo tempo. Tra i due esisteva una disputa, un tentativo di avere la meglio sull’altro. E questa contesa, come dicevamo, è riecheggiata in qualche modo nei secoli a venire. A partire dalle crociate, fino alla storia contemporanea. In questa linea temporale, però, gli eventi più significativi sono avvenuti negli ultimi 130 anni. Vale a dire dalla nascita del sionismo, quella dottrina politica secondo la quale il popolo ebraico è il popolo eletto e che la terra di Kanaan, la Palestina, è la terra promessa da Dio a questo popolo. Una dottrina nefasta presto trasformata in colonialismo puro con decine di migliaia di ebrei che dall’Europa, da inizio 1900 hanno iniziato a insediare la Palestina. “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”, questa la narrativa madre dominante in bocca agli ebrei sionisti, specialmente agli ashkenaziti (ebrei di Centro ed Est Europa). Un popolo, però, c’era: quello palestinese. E presto venne cacciato con la forza nella prima metà del secolo scorso dai coloni sionisti. Isacco (o meglio i suoi discendenti) che scaccia gli ismaeliti di oggi, proprio come avvenne ai tempi di Abramo. Lo Stato di Israele nasce su questi presupposti messianici deviati e sul sangue di 800mila innocenti palestinesi. Sangue che continua ad essere versato da 75 anni. Di risposta, i discendenti di Ismaele resistono, legittimamente, perché non vogliono essere sottomessi né espulsi.
Oppresso e oppressore. Questa dualità è andata avanti per tremila anni, talvolta interscambiandosi, in una spirale di violenza interminabile. E’ chiaro che nessuna delle due parti ha compreso gli insegnamenti cardine del Corano e della Torah, né quelli di un uomo che duemila anni fa abitava quella Terra: Gesù di Nazareth, il Cristo. Il figlio di Dio professava l’unione, la pace fra i popoli, la misericordia, proprio come, in realtà, le professano i testi sacri di musulmani ed ebrei.


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Benjamin Netanyahu


A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica” (Luca 6: 29). Sempre nel Vangelo secondo Luca c’è un secondo passaggio chiave che musulmani ed ebrei ignorano da millenni: “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina” (Luca 21: 20-38). Gli eserciti, simbolicamente, ci sono, eccome. Pertanto i presupposti per la fine di Gerusalemme, cioè della Terra Santa in sé, ci sono tutti. La distruzione totale è dietro l’angolo. Questo destino fatale è evidente come mai prima d’ora ma nessuno sembra fare qualcosa per impedirlo.
Da un lato i sionisti continuano a fare pulizia etnica in Terra Santa. Dall’altra le fazioni islamiste palestinesi gridano all’annientamento di Israele. Questo è lo stato dell’arte. Se non si capisce questo contesto che affonda le radici nella storia non si può avere una lettura esaustiva dell’attualità.

Il grande gioco
Veniamo dunque a questa attualità. Come sappiamo, il 7 ottobre il partito islamista Hamas ha avviato un’operazione militare terroristica che ha portato alla morte di 1400 Israeliani. Da oltre due settimane Israele risponde con un assedio totale e criminale della Striscia di Gaza, da 16 anni sotto embargo. I caccia radono al suolo campi profughi, edifici residenziali, ospedali e infrastrutture. Nella Striscia non c’è più corrente, cibo e acqua. E le vittime (quasi 6000) salgono di ora in ora, come i feriti e gli sfollati (oltre un milione e mezzo). Quello che è accaduto è principalmente la chiara conseguenza di due aspetti.
Il primo riguarda l’estremizzazione di Israele seguita alle politiche di estrema destra di Benjamin Netanyahu e della sua cloaca di ministri e alleati ultra ortodossi, fascisti e xenofobi. Non a caso da quando Netanyahu ha ripreso il potere (è scampato al processo per corruzione e frode grazie all’immunità prevista in Israele per i premier), la violenza contro i palestinesi è impennata. Gli omicidi da inizio anno – prima della guerra – sono stati oltre duecento (di cui trentotto bambini) e i coloni hanno fatto veri e propri pogrom nei villaggi palestinesi. Per non parlare poi della costruzione di nuovi insediamenti illegali e l’aumento degli arresti in Cisgiordania.


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Abu Mazen


Il secondo aspetto riguarda le fazioni islamiste di Hamas e Jihad Islam che, proprio a causa della radicalizzazione ulteriore delle autorità israeliane, si sono a loro volta maggiormente radicalizzate contando sull’appoggio più diffuso della società civile palestinese, sempre più esasperata. La miccia poteva essere accesa da un momento all’altro e così è stato. Ma si badi che il gioco potrebbe essere più grande di quanto non sembri e avere più facce. E’ possibile che il Mossad (servizio segreto israeliano) abbia volutamente lasciato che Hamas aprisse un varco e commettesse massacri affinché, in un secondo momento, Israele potesse giustificare l’annientamento della Striscia di Gaza e la sua nuova occupazione del territorio.
In secondo luogo, è anche possibile ritenere – questa è una seconda interpretazione dei fatti – che i paesi arabi che sostengono da anni Hamas (i cui vertici sono probabilmente infiltrati da servizi segreti stranieri) abbiano spinto l’organizzazione (finanziata da lobbies multimiliardarie) ad avviare un’offensiva contro Israele (del resto non era mai accaduto prima) con lo scopo di portare la stessa all’annientamento assieme alla striscia di Gaza. Hamas infatti potrebbe rappresentare un problema per le petrolmonarchie del Golfo, che in realtà fanno solo i propri interessi fingendo di battersi il petto per la Palestina. Forte del consenso di cui gode sia a Gaza che in Cisgiordania, che all’estero, il movimento avrebbe potuto stravolgere politicamente lo status quo in Palestina, magari con un processo democratico (a Ramallah non si vota dal 2009). Di fatti il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen (una sorta di marionetta in mano agli israeliani) è arroccato al potere da quattordici anni, e da quattordici anni rinvia periodicamente le elezioni temendo il collasso elettorale, data la totale sfiducia che i palestinesi nutrono per l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che dirige e per il suo partito Al Fatah. La gloria di Al Fatah è tramontata con Yasser Arafat, così come è tramontata la Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), diventata ANP dopo gli accordi fallimentari di Oslo. L’ANP è una realtà manovrabile, totalmente asservita al potere statunitense, dipendente dalle casse di Tel Aviv e collaborazionista con le autorità militari israeliane. Di fatti, oggi conta solo dell’appoggio della borghesia palestinese di Ramallah ed è totalmente scollata dal dramma quotidiano dei palestinesi.


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Yasser Arafat © Imagoeconomica



Hamas, invece, gode di un largo consenso popolare, soprattutto nei campi profughi (i più bersagliati dall’esercito israeliano) grazie alla sua coerenza nel progetto di liberazione agli occhi di moltissimi palestinesi. Per una larga fetta di popolazione, Hamas rappresenta l’ultima spiaggia per una Palestina senza colonie e occupazione. Va da sé, quindi, che il partito islamista sia nemico assoluto dell’establishment dell’area, sia israeliana che anche araba che con questa è compiacente.
A farla da padrone, infatti, in questo contesto, è il denaro: gli accordi economici e politici tra le petrolmonarchie e Israele; le banche israeliane con le banche islamiche. Le petrolmonarchie, come abbiamo detto, in realtà non intendono liberare la Palestina. Ne è la dimostrazione anche il processo di normalizzazione con Israele avviato da Emirati Arabi e Bahrain (oltre che da Sudan e Marocco) nei cosiddetti “accordi di Abramo” (di cui parlammo a loro tempo) (di nuovo un richiamo alle vicende narrate nei testi sacri sui due figli del patriarca).
Accordi mediati dall’ex amministrazione statunitense di Donald Trump che prevedono la fine delle reciproche ostilità diplomatiche, l’avvio di cooperazioni amichevoli e soprattutto di interscambi commerciali specialmente in ambito difesa (solo negli ultimi due anni sono state vendute armi israeliane per oltre 3 miliardi di dollari).
Anche l’Arabia Saudita si stava recentemente avvicinando in queste ultime settimane a Israele. Alti diplomatici di Tel Aviv e Ryad si sono visti diverse volte ultimamente con l’obiettivo di includere il regno negli “accordi di Abramo”.


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Ismail Haniyeh © Joe Catron


Se da un lato le monarchie del golfo si sono genuflesse a Israele, dall’altro le potenze sciite del Levante non hanno assunto iniziative degne di nota in difesa della popolazione di Gaza.
Il Libano, per esempio, Stato arabo confinante con Israele con il quale scese in guerra 17 anni fa, sta assumendo un atteggiamento indubbiamente anomalo.
Probabilmente Beirut non rientra tra le potenze doppiogiochiste come alcuni dei paesi del Golfo. Ma è un dato che Hezbollah, in arabo “partito di Dio”, sta fingendo di appoggiare Hamas e di voler liberare il popolo palestinese come sostiene. Da due settimane lancia avvisaglie a sud del Paese, qualche razzo sul nord di Israele, un paio di piccole incursioni militari. Nulla più. E’ evidente che un intervento militare sul modello della guerra del 2006 non è nelle intenzioni dell’organizzazione sciita che dispone di un arsenale immenso fornito loro dagli amici di Teheran. Estremamente singolare, infatti, come segnalano i maggiori tabloid arabi, è il silenzio di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, sui fatti in corso a Gaza.
Questa calma relativa è probabilmente dovuta al fatto che dalla Repubblica Islamica non è partito ordine chiaro di scendere in guerra contro Israele. In questo momento l’Iran non ha, infatti, i mezzi economici per sostenere un conflitto di questo tipo e quindi rispondere a un contrattacco dello Stato ebraico. Teheran sta costruendo una super potenza economica con la Russia e la Cina e poi, eventualmente, scenderà in guerra in difesa dei palestinesi.


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Come avviare la pace e come sostenerla
In tutto questo contesto ciò che ora deve avvenire è la fine delle ostilità mediata dalla comunità internazionale. Seguita da una presa di posizione netta delle Nazioni Unite che devono condannare l’estrema destra israeliana al governo, che in questi giorni sta negando gli ingressi ai funzionari Onu per la presa di posizione del Segretario Generale Guterres sul conflitto. Gli israeliani in primis devono cacciare Netanyahu e il suo governo fascista costituito da ministri che pensano di aver il compito divino di liberare Israele dai non ebrei, cioè dai palestinesi.
Netanyahu e i vertici dell’esercito israeliano dovrebbero quindi essere arrestati, processati e condannati al Tribunale dell’Aja per genocidio, proprio come avvenuto contro l’ex capo militare dei serbi di Bosnia, Ratko Mladic, condannato all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica del 1995.
Dall’altra parte i palestinesi dovrebbero in qualche modo mettere freno al terrorismo di Hamas, alle violenze sui civili. Allo stesso tempo le Nazioni Unite dovrebbero garantire la creazione di uno Stato al popolo palestinese. Uno stato indipendente con il proprio esercito e la propria cultura. Israele deve accettare questo e poi deve consegnare tutto l’arsenale nucleare che possiede, così come l’Iran deve sospendere il programma nucleare che ha avviato e i paesi arabi rinunciare ad avviarne uno. Altrimenti la deterrenza tra potenze nel Vicino Oriente non cesserà. Israele giustificherà la necessità di armamenti nucleari sul fatto che l’Iran ne possegga uno e viceversa. La deterrenza nucleare è qualcosa da abolire ovunque, in Levante come in occidente. Le testate nucleari non devono infatti esistere in alcun modo nonostante, nel caso della Russia, secondo la visione di Vladimir Putin, sono state l’arma che ha permesso a Mosca di non essere invasa.
Ritornando al conflitto israelo-palestinese, rivolgiamo un appello all’Onu affinché prenda in considerazione la storia millenaria della Terra Santa. Ribadiamo la necessità della creazione di un vero Stato Palestina e non un’enclave dipendente e soggiogata da Israele. Al contempo sottolineiamo le necessità della fine dell’occupazione israeliana con il ritorno ai confini del 1967 sanciti dalle stesse Nazioni Unite e la fine del blocco a Gaza, area che la comunità internazionale deve iniziare a finanziare per la ricostruzione. Finiscano, infine, gli estremismi di ogni tipo e da ogni lato. Solo così si potrà andare verso quella pace e quella fratellanza che in Terra Santa manca da tremila anni.

Elaborazione grafica di copertina by Paolo Bassani

fonte: antimafiaduemila.com