Di Matteo: ”Riforma giustizia rischia di favorire l’impunità per i colletti bianchi’

Il sostituto procuratore nazionale antimafia presenta “Il patto sporco e il silenzio” al Festival “I Pirati della Bellezza”

Un caloroso e lungo applauso ha accolto, nella giornata di ieri, il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, che dall’auditorium di Unindustria a Viterbo ha presentato l’ultima edizione del libro scritto assieme al giornalista Saverio Lodato “Il patto sporco e il silenzio” (edito da Chiarelettere). Un libro che si configura, senza dubbio alcuno, come una lettura scomoda, soprattutto per gli uomini di Potere, dal momento che ripercorre gli anni delle stragi e della discussa trattativa tra lo Stato e la mafia, il cui esito è stato fondamentale per aumentare in modo esponenziale l’arroganza sanguinaria di Cosa nostra, determinando per questo altri spargimenti di sangue. Così, durante il secondo appuntamento del festival “I Pirati della Bellezza”, quest’anno giunto alla sua terza edizione, il magistrato ha spiegato, dopo una breve e interessante premessa sull’imparzialità dei magistrati, i motivi che impongono la necessità di utilizzare il termine ‘trattativa’ per indicare il momento in cui alcuni uomini dello Stato hanno dialogato con altri della mafia. “Reputo pericolose le limitazioni al diritto di cronaca e al dovere che hanno in certi casi i magistrati e gli uomini delle istituzioni, di esternare e spiegare, nei limiti consentiti, il proprio lavoro. Non credo alla figura del magistrato che non può parlare mai, che non può confrontarsi con i cittadini, non può partecipare ai dibattiti pubblici, ma che deve parlare soltanto attraverso le sentenze. Ciò che fa venire meno l’imparzialità dei magistrati – ha proseguito – non sono le idee, ma l’appartenere a qualcuno, oppure a qualcosa. L’appartenenza è decisamente più pericolosa dell’idealità”.


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Una strategia vincente
Subito dopo, Di Matteo ha proseguito il suo intervento illustrando un aspetto unico nella storia del nostro Paese: qualcosa che potrebbe essere definito, senza il timore di sbagliarsi, come un evento senza precedenti in tutto il mondo. In nessun altro Paese, infatti, un capo mafia come Totò Riina ha osato dire: “Al governo gli dobbiamo vendere i morti”, per questo motivo “dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace”. Una strategia sanguinaria mai osata prima, che nel tempo si è dimostrata utile e ha permesso di piegare lo Stato al proprio volere. “Noi abbiamo ritenuto che alcuni uomini delle istituzioni e alcuni esponenti politici – ha spiegato Di Matteo – abbiano fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e i tre governi che si sono succeduti in quel periodo: il governo Amato, il governo Ciampi e il governo Berlusconi. Di conseguenza, in primo grado, dopo 5 anni di dibattimento, 400 testimoni e ore di intercettazioni telefoniche esaminate”, le persone ritenute responsabili, “sono state tutte condannate. In secondo grado sono stati condannati i mafiosi, mentre sono stati assolti gli uomini delle istituzioni. Si tratta di una sentenza assolutoria, enunciata con la formula: ‘il fatto non costituisce reato’, pertanto, ha confermato le dinamiche da noi accertate”. La trattativa dunque, c’è stata, e come ha ricordato il magistrato Di Matteo, “furono gli uomini dello Stato a cercare Riina, e non viceversa”.


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Un incontro tra le parti che ha favorito il “mantenimento della latitanza di Bernardo Provenzano, grazie ad alcuni esponenti delle istituzioni, perché in quel momento conveniva consacrare la leadership moderata di Cosa nostra, rispetto alla fazione che voleva, invece, continuare con le stragi”. Fatti e circostanze che sono emersi durante i processi, ma che i “media continuano a ignorare, mentre sostengono che la trattativa non sia mai avvenuta”. Questo, nonostante le parole pronunciate dal Generale Mario Mori, che nel ‘97, in qualità di testimone nel processo per la strage di via dei Georgofili, a Firenze, disse: “Dopo la strage di Capaci contattammo Vito Ciancimino, che sapevamo essere in contatto diretto con Riina e Provenzano. Lo andammo a trovare a casa e gli dissi: ‘Signor Ciancimino, cos’è questo muro contro muro tra lo Stato e la mafia. Cosa vogliono questi signori per far cessare le stragi? Veda di capire cosa vogliono’. Diversi incontri dopo – ha sottolineato Di Matteo – Ciancimino diede la sua risposta e rivolgendosi a Mori, disse: ‘Hanno accettato il dialogo’”. Inoltre, una sentenza definitiva sulle stragi del ‘93 ha stabilito che quella stessa iniziativa intrapresa dal Ros dei carabinieri, difatti, “ha provocato in Riina il convincimento che si dovesse continuare con le stragi, in modo da poter ottenere ancora di più”. Oltre a ciò, Di Matteo ha confermato che sono stati inflitti colpi pesanti all’ala militare di Cosa nostra, tuttavia, anche “se in questo momento la mafia preferisce la strategia della sommersione”, non sussistono elementi che dimostrano l’intenzione di voler abbandonare la strategia stragista. In effetti, il progetto di morte che ancora minaccia la vita del sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, ne è la prova diretta.


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Quando le riforme vanno nella direzione sbagliata
La riforma della giustizia Cartabia prima, e la riforma della giustizia firmata dal ministro Carlo Nordio poi, sembrano procedere entrambe verso la stessa direzione, “quella di un sistema penale che si configurerà a due velocità: forte con i deboli e debole con i forti”. Una giustizia  che potrebbe, da una parte, mostrare tutto il suo vigore agli ultimi della società, mentre rischia di favorire l’impunità dei crimini molto più complessi, “come quelli dei colletti bianchi, i delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione e la corruzione”. E ancora: “Nelle strutture penitenziarie italiane pochissimi stanno scontando pene per corruzione. Di conseguenza, i casi sono due: o il nostro Paese risulta essere pressoché immune da reati corruttivi come chi trucca gli appalti e turba le aste pubbliche, oppure, se volessimo seguire una logica elementare, tutte queste manifestazioni criminali restano sostanzialmente impunite”. Senza dimenticare i rischi dovuti alle limitazioni delle intercettazioni ambientali, alla prescrizione più breve, oppure all’abrogazione dell’abuso di ufficio, Di Matteo ha ribadito un altro aspetto importante e quasi sempre ignorato: “La richiesta da parte dell’Europa di velocizzare i processi e non di mandarli in fumo”. Ma all’interno della riforma voluta dal guardasigilli Carlo Nordio, “non c’è una sola norma che affronta il vero problema: la lentezza dei processi”. Infine, Di Matteo ha sottolineato il rischio che potrebbe annidarsi nelle intenzioni di chi, approfittando del momento di particolare debolezza della magistratura, “vorrebbe perseguire scopi di vendetta nei confronti di quella magistratura che ha osato alzare il tiro verso le manifestazioni criminose dei potenti, ed evitare che la magistratura possa, in futuro, celebrare processi di questo tipo”. Rischi che potrebbero aumentare in modo esponenziale “con un sistema che spinge i magistrati ad archiviare preventivamente per evitare la probabilità di ‘sporcare’ le statistiche dei processi. Quella stessa logica che Rocco Chinnici e Giovanni Falcone chiamavano la logica delle ‘carte apposto’. Noi non dobbiamo entrare in questa logica – ha concluso – perché il magistrato non può vedere ancorate le valutazioni che si fanno di lui ai numeri e alle statistiche”.

Foto © ACFB


fonte: antimafiaduemila.com