Borsellino: contro Di Matteo e Scarpinato sconcertanti attacchi in Comm. Antimafia

Il fratello del giudice ascoltato assieme all’avvocato Repici. “Mafia e appalti non è punto di partenza su via d’Amelio”

Devo dire da parte mia che ho ascoltato con sconcerto le dichiarazioni fatte in questa sede nei confronti di due magistrati, o meglio di un magistrato e di un ex magistrato, oggi senatore della Repubblica. Mi riferisco a Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato ai quali mi sento invece di dover la mia stima e la mia gratitudine per avere in questi lunghi anni ricercato con tutte le loro forze quella verità e quella giustizia per le quali continuo a combattere in nome di quell’agenda rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta. Sono ben altri i magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito: per esempio Giovanni Tinebra, che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di aver avallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi, e quel Pietro Giammanco che ha ostacolato in ogni modo Paolo Borsellino, così come prima Giovanni Falcone, fino a concedergli la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo, che avrebbero dovuto ucciderlo, era già pronta davanti al portone di Via d’Amelio”. Sono state queste le parole di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo Borsellino ucciso in via d’Amelio il 19 luglio 1992, sentito ieri in commissione parlamentare antimafia assieme al suo legale Fabio Repici.

Per Borsellino le indagini sulla morte del fratello dovrebbero ricominciare dalla sparizione dell’agenda rossa, “la scatola nera della strage di via d’Amelio. Dal furto di quell’agenda, compiuto, ne sono certo, proprio da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello. Non sto parlando della mafia, ma di pezzi deviati dello Stato. Perché è certo che non siano stati mani di mafiosi a portare a compimento quel furto. E proprio da questo che si dovrebbe ripartire e non da un dossier ‘mafia e appalti’ che se può essere considerato una concausa non è sicuramente la vera causa dell’improvvisa accelerazione di una strage che a quel punto non poteva essere più rimandata. Occorreva eliminare e in fretta chi rappresentava un ostacolo insormontabile per un disegno criminoso, teso con l’ausilio anche dell’organizzazione mafiosa e dell’eversione nera a cambiare gli equilibri di questo nostro disgraziato paese, che da queste stragi che io ho chiamato e continuerò sempre a chiamare stragi di Stato, è stato sempre segnato”.

Ma – ha detto Salvatore – sulla sparizione di quell’agenda rossa non si è mai veramente indagato. Non c’è stato mai un vero processo, tranne quello in cui, in fase addirittura di udienza preliminare, e quindi senza alcun dibattimento è stato assolto dall’accusa di aver sottratto l’agenda quel capitano Arcangioli che è stato ripreso, fotografato, mentre si è allontanato dalla macchina di Paolo ancora in fiamme, portando in mano la borsa di Paolo, in cui sicuramente l’agenda era contenuta”.

© Imagoeconomica


Fabio Repici: in atto tentativi di revisionismo storico
La strage di via d’Amelio, ha detto il legale, “non va vista nei suoi dettagli di unicità ma va vista in un quadro più largo perché altrimenti la verità non si trova”. In questo senso Repici ha sottolineato che la fase dello stragismo iniziata con l’omicidio Lima “e poi proseguita a Capaci e Via d’Amelio si saldarono con l’intervento di soggetti che avevano tutt’altra provenienza”.

È il caso, per esempio, di Paolo Bellini, condannato in primo grado della Corte di Assise di Bologna per la strage del 2 agosto 1980.

L’ex primula nera è stato “protagonista attivo di relazioni con personaggi importantissimi di Cosa nostra in quel momento addirittura impegnati nella preparazione della strage di Capaci, faccio riferimento a Giovanni Brusca a Gioacchino La Barbera e soprattutto a Nino Gioè“.

Inoltre, è stato dimostrato che “che Paolo Bellini ha avuto una presenza quasi fissa in Sicilia a partire almeno dal dicembre del 1991 e fino a epoca successiva alla strage di Via d’Amelio“.

E sappiamo con certezza che il suggerimento a Cosa Nostra di colpire il patrimonio architettonico con delle stragi è provenuto proprio da Paolo Bellini”.

Tutti questi elementi però rischiano di essere adombrati.

È da qualche tempo – ha spiegato – che intorno alla strage di via d’Amelio in particolare ma anche intorno ad altri delitti ai quali ha partecipato in modo possente Cosa Nostra o altre organizzazioni criminali che si avverte la prativa di un pericolosissimo fenomeno a mezzali tra il negazionismo e revisionismo”. “È un tentativo di riscrivere la storia in un’ottica panmafiosa che vorrebbe portare alla conclusione per cui certi delitti e in particolare la strage di via d’Amelio siano frutto esclusivamente delle azioni poste da uomini d’onore di Cosa nostra.

Con la esclusione categorica di ogni apporto esterno a quella strage”.

“In questo scenario nel quale ci muoviamo io ritengo che sia importante allora evitare di introdurre nella ricerca parlamentare in questo caso elementi che creino confusione, piuttosto che utilità per l’accertamento della verità” ha detto Repici ricordando l’ultimo tentativo di depistaggio messo in atto dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola: le sue dichiarazioni, oggetto di attenzione da parte dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta, escludevano, per l’appunto, le “responsabilità di esponenti esterni a Cosa nostra”.

L’avvocato Fabio Repici © Imagoeconomica

Il caso Contrada
Il legale di Salvatore Borsellino ha ricostruito l’incontro di Paolo Borsellino al Viminale con lo 007 Bruno Contrada. Il 1° luglio 1992 il magistrato ucciso in via d’Amelio stava interrogando il neo-collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo quando con una telefonata venne convocato al Viminale dove si stava insediando il Ministro dell’Interno Nicola Mancino. Fu proprio in quell’occasione che Borsellino incontrò Contrada, che sapendo della collaborazione con Mutolo (anche se all’epoca era segreta) disse di essere a ‘disposizione’ in caso di bisogno.

L’uomo del Sisde era, a detta di Gaspare Mutolo, “uomo in relazioni con Cosa nostra”.

Ma questa cosa non impedì all’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra di affidargli “l’incarico di supportare le indagini sulla strage di via d’Amelio”. Un “cortocircuito” che “non ha precedenti nella storia”, ha continuato Repici.

La gravità della vicenda, ha sottolineato l’avvocato, è dimostrata da altri elementi: “Su mia sollecitazione la procura generale di Palermo nel processo sul duplice omicidio Agostino – Castelluccio ha acquisito le agende del dottor Bruno Contrada dal 1976 al 1992. Sono le agende che gli furono sequestrate al momento del suo arresto avvenuto il 24 dicembre 1992“. “Alla pagina del 27 luglio 1992 il dottor Bruno Contrada scrive di una cena a cui partecipò con il dottor A. De Luca (il dottor Antonio De Luca) come molti sanno in quel momento era un funzionario di polizia in servizio al SISDE e il dottor Angelo Sinesio (ufficio alto commissariato) e c’è una parentesi: ‘Discusso questione Mutolo’.

Quindi otto giorni dopo la strage di via d’Amelio già il dottor Contrada preparava la propria difesa dalle accuse di Gaspare Mutolo che ancora non avevano trovato verbalizzazione”. Infatti, le dichiarazioni di Gaspare Mutolo vennero messe a verbale solo il 23 ottobre del 1992, quindi oltre tre mesi dopo la strage”.

A sinistra, Bruno Contrada © Archivio Letizia Battaglia


Ma c’è una cosa che è ancora più impressionante. Se si va avanti (nella lettura dell’agenda Contrada ndr) si arriva al 31 luglio, quattro giorni dopo, e si legge ‘visita al dottor Di Signorino’. Ricorderete che il dottor Domenico Signorino”, il magistrato in forza alla procura generale di Palermo indicato da Gaspare Mutolo “come soggetto colluso con Cosa nostra”. “E nella pagina del 31 luglio si legge ‘visita al dottor Di Signorino a casa’, c’è l’indirizzo di casa, e fra parentesi ‘questione Mutolo’”.

Sempre parlando dell’ex 007 Repici ha citato un episodio apparentemente senza importanza: Diego Cavaliero, magistrato della procura di Marsala e molto amico di Paolo Borsellino, una sera si era trovato a pranzo da quest’ultimo, “la televisione era accesa” ed era “presente il figlio di Paolo, che all’epoca era minorenne e che aveva la curiosità di qualunque ragazzo tanto più in relazione al lavoro del padre, e poiché in quel momento il telegiornale stava parlando della strage dell’Addaura, dell’attentato fallito ai danni del dottor Falcone del giugno 1989 e parlando della strage all’Addaura il dottor Manfredi Borsellino chiese chi fosse questo Contrada; e il dottor Cavaliero ha riferito ai magistrati come la reazione del dottor Borsellino fu impressionante ai suoi occhi perché reagì con una brutalità che non gli aveva mai visto nel dire a suo figlio di evitare perfino di pronunciare quel nome. Si trattava di cose così pericolose delle quali non si doveva minimamente parlare”.

E fu sempre in relazione alla fallita strage dell’Addaura che Giovanni Falcone, il 10 giungo 1992, in un’intervista al giornalista e scrittore Saverio Lodato su L’Unità parlò di ‘menti raffinatissime’ “che sono in grado di indirizzare le azioni di Cosa nostra“. “In anni recenti – ha continuato Repici – il giornalista che intervistò Giovanni Falcone ha testimoniato pubblicamente, ma in realtà lo ha fatto sotto giuramento anche al processo per il duplice omicidio Agostino – Castelluccio, su mia espressa domanda, che il dottor Falcone nell’occasione gli fece il nome del dottor Bruno Contrada e gli chiese di evitare la pubblicazione di quel nome per la delicatezza della circostanza“.


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Giovanni Falcone © Archivio Letizia Battaglia


L’informativa di Rino Germanà
Il legale di Salvatore Borsellino ha ricordato che “Diego Cavaliero in più occasioni, quando gli è stato chiesto chi fossero gli ufficiali di polizia giudiziaria in assoluto più vicini a Paolo Borsellino ha fatto sempre ed esclusivamente due nomi. Per intenderci nessun ufficiale del Ros. Ma un carabiniere che era in quel momento il comandante della sezione di polizia giudiziaria della procura di Marsala, il maresciallo Carmelo Canale che accompagnò il dottor Borsellino fino agli ultimi giorni di vita, il secondo era un funzionario di polizia, il dottor Rino Germanà“. Nel giugno 1992 (un mese dopo l’attentato che uccise Falcone) venne incaricato di indagare su alcune pressioni denunciate da due magistrati di Palermo in merito al processo per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. I due magistrati denunciarono il tentativo di pilotare il verdetto del processo, un tentativo – scoprì lo stesso Germanà – condotto dal notaio Pietro Ferraro a nome di Vincenzo Inzerillo (nato a Palermo il 24 luglio 1947 e senatore Dc eletto nel collegio di Brancaccio a Palermo e poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa).

Anni dopo abbiamo scoperto che Vincenzo Inzerillo, come da condanna irrevocabile per concorso esterno in associazione mafiosa” era persona “a disposizione di Giuseppe Graviano. Cioè proprio l’uomo che ha gestito la fase esecutiva della strage di via d’Amelio“. Germanà, titolare delle indagini per l’individuazione del mandante del notaio Ferraro scisse un’informativa in cui vi scrisse anche il nome di Luigi Savona“.

Quest’ultimo, come risulta dai processi denominati “Grande Oriente”, era stato indicato dall’infiltrato Luigi Ilardo “come il soggetto originario della Sicilia ma trapiantato a Torino che aveva curato l’ingresso della massoneria in Cosa Nostra”. Inoltre, sempre in base alle confidenze di Luigi Ilardo, sarebbe stato “il soggetto che aveva avviato l’indirizzo di Cosa Nostra verso una strategia stragista in contatto con esponenti di apparati istituzionali e esponenti del mondo massonico”.

Come risultato Germanà venne trasferito nuovamente a Mazara del Vallo per dirigere il commissariato come già otto anni prima. In pratica una retrocessione.


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Salvatore Borsellino © Imagoeconomica


Audizione di Borsellino conferma necessità comitato stragi
L’audizione di “Salvatore Borsellino e dell’avvocato Fabio Repici in commissione parlamentare Antimafia ha esposto con chiarezza qual è il lavoro che la commissione dovrà svolgere: indagare a tutto tondo e in maniera unitaria sulla stagione delle stragi del 1992 e 1993. I fatti drammatici di quel biennio hanno un’unica matrice terroristica ed eversiva, Cosa Nostra non ha agito da sola“. Lo affermano in una nota i componenti del Movimento 5 Stelle in commissione Antimafia Stefania Ascari, Federico Cafiero de Raho, Francesco Castiello, Michele Gubitosa, Luigi Nave e Roberto Scarpinato. “Bisogna capire una volta per tutte – aggiungono – chi ha manomesso i files nel computer di Falcone al Ministero della Giustizia, chi ha preso l’agenda rossa di Borsellino, perché si impedì alla magistratura di venire in possesso dei documenti custoditi nella casa di Riina. Bisogna fare luce sulla presenza di terroristi neofascisti in Sicilia nel periodo delle stragi e su quei settori dello Stato e dell’establishment che prima delegittimarono Falcone e Borsellino e poi, in collaborazione con i corleonesi, ebbero un ruolo di primo piano nella realizzazione degli attentati del 92-94 e nel depistaggio delle indagini. La stessa Dia scrisse che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa“. “Per fare questo enorme lavoro c’è una sola strada da seguire: istituire nella commissione un apposito comitato sulla stagione delle Stragi. Lo ribadiamo perché, come ha evidenziato oggi l’avvocato Repici, è in corso un processo di negazionismo e revisionismo, nel tentativo di scrivere una ricostruzione riduttiva e di comodo di quella stagione“, ha concluso.

fonte: antimafiaduemila.com