Lancet, non è vero che nei Paesi ad alto reddito c’è la “crescita verde”

Per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi occorrono politiche climatiche “post-crescita”

Politici e media hanno celebrato come “crescita verde” i recenti risultati ottenuti nel disaccoppiamento emissioni – crescita economica dai Paesi ad alto reddito, sostenendo che questo potrebbe conciliare la crescita economica con gli obiettivi climatici, ma secondo lo studio “Is green growth happening? An empirical analysis of achieved versus Paris-compliant CO2–GDP decoupling in high-income countries”, pubblicato su The Lancet Planetary Health  da Jefim Vogel del Sustainability Research Institute dell’u niversità di Leeds e da Jason Hickel. Dell’Universitat Autònoma de Barcelona, «Le riduzioni delle emissioni negli 11 Paesi ad alto reddito che hanno “disaccoppiato” le emissioni di CO2 dal prodotto interno lordo (PIL) sono ben al di sotto delle riduzioni necessarie per limitare il riscaldamento globale a 1,5° C o anche solo a “ben al di sotto di 2°C” e per rispettare i principi di equità internazionale, come richiesto dall’Accordo di Parigi».

Il nuovo studio ha confrontato le riduzioni delle emissioni di carbonio in questi Paesi con le riduzioni richieste dall’Accordo di Parigi e Vogel evidenzia che «Non c’è nulla di verde nella crescita economica nei Paesi ad alto reddito. E’ una ricetta per il collasso climatico e un’ulteriore ingiustizia climatica. Chiamare “crescita verde” queste riduzioni fortemente insufficienti delle emissioni è fuorviante, si tratta essenzialmente di greenwashing. Affinché la crescita possa essere legittimamente considerata “verde”, deve essere coerente con gli obiettivi climatici e i principi di equità dell’Accordo di Parigi, ma i Paesi ad alto reddito non hanno ottenuto nulla di simile, ed è altamente improbabile che lo raggiungano in futuro. La continua crescita economica nei Paesi ad alto reddito è in contrasto con il duplice obiettivo di evitare un catastrofico collasso climatico e di sostenere principi di equità che proteggano le prospettive di sviluppo nei Paesi a basso reddito. In altre parole, un’ulteriore crescita economica nei paesi ad alto reddito è dannosa, pericolosa e ingiusta».

Una valutazione che fa a pezzi la narrazione in voga nell’Unione europea e che distrugge le politiche negazioniste della destra che partino dal presupposto che i Paesi ricchi hanno fatto già fin troppo per mitigare le loro emissioni, mentre i Paesi emergenti e in via di sviluppo ci farebbero concorrenza sleale.

Lo studio ha identificato 11 Paesi ad alto reddito – Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito – che ) tra il 2013 e il 2019 hanno raggiunto il “disaccoppiamento assoluto”, definito come diminuzione delle emissioni di CO2 insieme all’aumento del PIL. Per ciascun Paese, lo studio confronta i futuri tassi di riduzione delle emissioni “business as usual” con i tassi “conformi a Parigi” necessari per rispettare la “giusta quota” del Paese (o quota proporzionale alla popolazione) del rispettivo bilancio globale di carbonio che non deve essere superato se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5° C (l’obiettivo più ambizioso di Parigi) o anche solo a 1,7 °C (che riflette l’ambizione inferiore dell’obiettivo di Parigi di “ben al di sotto di 2°C”). ne viene fuori impietosamente che «Nessuno dei Paesi ad alto reddito che hanno “disaccoppiato” le emissioni dalla crescita è riuscito a ottenere riduzioni delle emissioni abbastanza velocemente da conformarsi all’Accordo Parigi. Ai ritmi attuali, questi paesi impiegherebbero in media più di 200 anni per portare le loro emissioni vicine allo zero, ed emetterebbero più di 27 volte la loro giusta quota del bilancio globale di carbonio per 1,5°C».

La portata del gap tra le riduzioni delle emissioni reali e quelle conformi all’Accordo di Parigi è drammatica: tra  gli 11 Paesi ad alto reddito esaminati, le riduzioni delle emissioni tra il 2013 e il 2019 sono state in media solo dell’1,6% all’anno. Invece, affinché i Paesi possano rispettare la loro giusta quota del budget globale di carbonio per 1,5° C, sono necessari tassi di riduzione del 30% all’anno entro il 2025.

Tutti i Paesi ricchi sono si sono risultati indietro rispetto alle riduzioni necessarie per rimanere entro la quota equa di 1,5 °C e anche il Paese con i migliori risultati, il Regno Unito, dovrebbe ridurre le sue emissioni 5 volte più velocemente entro il 202 5 (dalla media 2013-2019 del 3,1% annuo al 16% annuo entro il 2025 ). Altri paesi avrebbero bisogno di accelerazioni ancora maggiori nella riduzione delle emissioni: Belgio, Australia, Austria, Canada e Germania dovrebbero ridurre le loro emissioni più di 30 volte più velocemente di quanto hanno fatto tra il 2013 e il 2019 in regime di disaccoppiamento assoluto.

Con gli stessi requisiti di equità, anche l’obiettivo meno ambizioso e più pericoloso di limitare il riscaldamento globale a 1,7° C, richiederebbe che entro il 2025 le riduzioni medie annuali delle emissioni siano 8 volte più rapide di quelle ottenute tra il 2013 e il 2019.  Gli autori dello studio sostengono che «Pertanto, per la maggior parte dei Paesi ad alto reddito, anche questo obiettivo meno ambizioso sembra irraggiungibile nell’ambito di un approccio orientato alla crescita».

Alla luce dei loro risultati, Vogel e Hickel.affermano che «I tentativi di perseguire una “crescita verde” nei Paesi ad alto reddito non porteranno alle riduzioni delle emissioni necessarie per raggiungere gli obiettivi climatici e i principi di equità dell’Accordo di Parigi», e sostengono che «E’ invece necessario un approccio “post-crescita”».

Per Hickel, «Il perseguimento della crescita economica nei Paesi ad alto reddito rende praticamente impossibile ottenere le riduzioni delle emissioni richieste. Se vogliono rispettare gli obblighi di Parigi, i Paesi ad alto reddito dovrebbero perseguire approcci post-crescita: ridurre le forme di produzione ad alta intensità energetica e meno necessarie, ridurre i consumi dei ricchi, passare dalle auto private ai trasporti pubblici. Questo riduce la domanda di energia e ci consente di decarbonizzare molto più velocemente.  Dobbiamo anche accelerare la diffusione delle energie rinnovabili e il miglioramento dell’efficienza con finanziamenti pubblici. La post-crescita può aiutare liberando capacità produttive – fabbriche, manodopera, materiali – che possono essere rimobilizzate per raggiungere obiettivi sociali ed ecologici urgenti. A questo scopo possono essere utilizzate politiche come la garanzia del lavoro verde, ponendo fine alla disoccupazione e garantendo mezzi di sussistenza adeguati per tutti. Dovremmo concentrare l’economia su ciò che è necessario per il benessere, l’equità e la sostenibilità ecologica».

I due autori dello studio  suggeriscono una serie di misure che i politici possono intraprendere per accelerare la riduzione delle emissioni in modo giusto e socialmente vantaggioso: «Abbandonare la crescita economica come obiettivo principale e dare invece priorità alla sostenibilità ecologica, al benessere e all’equità come obiettivi di sviluppo. Riduzione delle forme di produzione e consumo non necessarie e ad alta intensità di carbonio (ad esempio SUV, viaggi aerei, carne e latticini industriali, fast fashion, crociere, ville, jet privati). Ridurre le disuguaglianze di reddito e ricchezza (ad esempio attraverso imposte sulla ricchezza e soglie massime di reddito). Isolamento degli edifici e riconversione degli edifici per ridurre al minimo le nuove costruzioni. Ridurre gli sprechi alimentari e passare a tecniche agricole agroecologiche e a diete prevalentemente a base vegetale. Introdurre leggi per allungare la durata di vita dei prodotti e garantire il diritto alla riparazione. Abbandonare le auto private e migliorare il trasporto pubblico, i sistemi ciclabili e la pedonabilità».

Vogel spiega a sua volta che «Il passaggio dalla crescita economica alla post-crescita è fondamentalmente diverso da una recessione, non comporta difficoltà o perdita di mezzi di sussistenza. La post-crescita può garantire e migliorare i mezzi di sussistenza e il benessere senza crescita economica, attraverso politiche come la garanzia di posti di lavoro pubblici, la riduzione dell’orario di lavoro, salari dignitosi, un reddito minimo garantito e l’accesso universale ad alloggi a prezzi accessibili e servizi pubblici di qualità».

Hickel aggiunge: «I devastanti estremi climatici di quest’anno sono un terribile avvertimento di dove siamo diretti. Se vogliamo prevenire un collasso climatico ancora più catastrofico, i Paesi ad alto reddito devono urgentemente perseguire approcci post-crescita che riducano le emissioni migliorando al tempo stesso il benessere e l’equità».

Gli autori dello studio fanno notare che «A differenza dei Paesi ad alto reddito, le nazioni a basso reddito hanno emissioni pro capite inferiori, il che rende più fattibile per loro rimanere entro le quote eque del budget di carbonio, anche aumentando la produzione e il consumo per obiettivi di sviluppo umano. Paesi come l’Uruguay e il Messico stanno già facendo passi avanti in questa direzione. Con un accesso sufficiente alla finanza e alla tecnologia e una strategia di sviluppo incentrata sui bisogni umani, i Paesi a basso reddito dovrebbero essere in grado di rimanere entro le quote eque dei loro bilanci di carbonio, aumentando al contempo la produzione e il consumo ai livelli necessari per raggiungere standard di vita dignitosi per tutti».

Vogel e Hickel ammettono che il oro studio ha alcune limitazioni: «I dati non includono le emissioni derivanti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dall’uso del territorio, né le emissioni derivanti dal trasporto aereo e marittimo internazionale. Se inclusi, i Paesi ad alto reddito dovrebbero ridurre le proprie emissioni ancora più velocemente per rispettare l’Accordo di Parigi. Inoltre il nostro approccio di distribuzione di “quote eque” del restante bilancio globale di carbonio ai Paesi in proporzione alla loro popolazione dovrebbe essere considerato un’interpretazione minima dei principi di equità stabiliti nell’Accordo di Parigi, perché questo approccio non influisce direttamente nel tenere conto della disuguaglianza storica nelle emissioni che deve essere compensata in altri modi. Interpretazioni più forti dell’equità comporterebbero tuttavia quote inferiori del bilancio del carbonio per i Paesi ad alto reddito».

fonte. greenreport.it