Perché il Pnrr non piace agli ambientalisti?

I giudizi sulla “transizione ecologica” contenuta nel Piano approvato dal Governo Draghi sono tendenzialmente negativi

di
Luca Aterini

Sebbene non sia scritto sulla pietra – attualmente è anzi in corso di valutazione da parte della Commissione europea –, è indubbio che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) abbia raggiunto un punto fermo: elaborato da Governo Draghi sulla base del lavoro realizzato dal precedente esecutivo, il Pnrr è stato approvato dal Parlamento e inviato a Bruxelles entro la deadline del 30 aprile.

In attesa che si esprima la Commissione Ue, e a dispetto delle intenzioni manifestate dal premier Draghi – «vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta», dichiarò al Senato in fase d’insediamento – il Pnrr non è stato accolto con favore dalle principali associazioni ambientaliste italiane. I gradi di sfumatura nei giudizi sono molti ma nessuno arriva a livelli d’eccellenza e la maggior parte resta sotto la sufficienza, come del resto avvenne quando a presentare la sua bozza di Piano fu Giuseppe Conte.

Entrambi i documenti mostrano infatti forti analogie in merito alla distribuzione delle risorse da destinare al vasto mondo della green economy e della tutela ambientale. Il vecchio Piano allocava 68,9 miliardi di euro alla missione “rivoluzione verde e transizione ecologica” contando anche le risorse provenienti da React-Eu, mentre il nuovo arriva a 69,96 (ma 9,32 miliardi di euro provengono da risorse nazionali in deficit); anche sulla missione “infrastrutture per una mobilità sostenibile” Conte puntava complessivamente 31,98 miliardi di euro, Draghi 31,46.

Più marcate le differenze sul piano delle riforme, sulle quali la vecchia bozza di Pnrr non forniva molte indicazioni mentre nel nuovo esecutivo una transizione burocratica è sempre stata individuata come elemento necessario benché non sufficiente all’auspicata transizione ecologica.

Il moderato ottimismo riservato alle riforme previste dal Pnrr – naturalmente ancora tutte da sviluppare, con la buona dose d’incertezza politica che questo comporta soprattutto in un Paese dai delicati equilibri parlamentari come il nostro – rappresenta però una mosca bianca tra i giudizi tendenzialmente negativi in arrivo dagli ecologisti italiani sul Piano a firma Draghi. Anche da parte di quelle associazioni ambientaliste – Greenpeace, Legambiente e Wwf – che erano state audite a febbraio dall’allora premier in pectore Mario Draghi durante la fase di ascolto aperta alle parti sociali.

Durante la presentazione del Piano alla Camera, Greenpeace parlava ad esempio di «mezza svolta verde. Con uno spazio davvero troppo esiguo per un serio dibattito pubblico e senza le schede progettuali da cui si potrebbe capire di più, il Pnrr presenta qualche novità di rilievo ma ancora diversi limiti». Nel giro di qualche giorno la posizione però si è fatta più dura: «Quanto contenuto nel Pnrr non è transizione ecologica ma finzione. Doveva essere la svolta verde di un governo che si era impegnato a lasciare un buon pianeta e non solo una buona moneta. Ma dalla nostra analisi quel futuro diventa solo un miraggio».

Secondo l’associazione ambientalista ad eccezione di alcuni passi apprezzabili – dalle smart grid, agli accumuli per le rinnovabili, al solare agrivoltaico – il Piano presentato dal premier Draghi è deludente e non fa intravedere una decisa strategia per quella transizione ecologica urgente e necessaria per permettere al Paese di dare il proprio contributo nel contrasto all’emergenza climatica in corso.

Il Piano, infatti, non punta quanto dovrebbe sullo sviluppo delle rinnovabili, lascia poco più che briciole alla mobilità urbana e sostenibile e alla protezione della biodiversità. Dimentica, inoltre, le necessarie misure per la promozione dell’agroecologia e la riconversione degli allevamenti intensivi e declassa l’economia circolare a una mera questione di gestione dei rifiuti (solo gli urbani peraltro, essenzialmente).

Per il Wwf invece il Pnrr trasmesso è «un passo significativo ma non basta per una la rivoluzione verde che ha bisogno di una spinta ulteriore sull’energia, sulla biodiversità, sul territorio, l’economia circolare e l’agricoltura biologica». Partendo da questo stato dell’arte, il Panda nazionale avanza molteplici proposte di investimenti aggiuntivi. Tra le più significative: 1,8 miliardi di euro per realizzare interventi di riqualificazione in 5 “Aree vaste prioritarie per la connettività ecologica” (Corridoio Alpi Appennino, l’Appennino umbro-marchigiano, l’Appennino campano centrale, la Valle del Crati – Presila Cosentina); 1 miliardo di euro per creare  meccanismi, anche attraverso i crediti di imposta, che favoriscano contratti di lungo periodo tra produttori e grandi consumatori di energia (Ppa) e altri 3 miliardi di euro a integrazione della voce “Rinnovabili e batterie” del Pnrr; 1 miliardo di euro per finanziare l’introduzione di un sistema di deposito cauzionale per gli imballaggi; 650 milioni di euro destinati allo sviluppo dei sistemi agroalimentari del biologico.

Una posizione che resta comunque di apertura, almeno rispetto a quella lapidaria e contraria assunta dalla Lipu che parla di «natura dimenticata e in balia delle opere». Secondo l’associazione ambientalista, storicamente impostata su posizioni conservazioniste più che di sostenibilità dello sviluppo, «la più grande occasione per cambiare strada, portando al centro la natura e un modello economico realmente sostenibile, sta per trasformarsi nell’assedio finale al territorio italiano, tra grandi opere, semplificazioni normative e biodiversità sacrificata. Da un lato, c’è la completa assenza di programmi complessivi per ripristinare la biodiversità italiana, fatta eccezione per un progetto sul fiume Po e azioni sui parchi nazionali. Dall’altro lato, c’è l’assalto che si prepara al territorio naturale nazionale con una moltitudine di opere favorite da un programma di semplificazione delle normative ambientali».

Ma la posizione più rappresentativa del mondo ambientalista italiano rispetto al Pnrr resta quella condivisa all’unanimità da Greenpeace, Kyoto club, Legambiente, Transport & Environment e Wwf: «Non è un piano significativo per il clima» né risulta incisivo «nell’allocazione delle risorse e nelle riforme per innovare i settori pilastro della decarbonizzazione».

Secondo il pool di associazioni ambientaliste a difettare non è l’ammontare delle risorse destinate alla rivoluzione verde – definito anzi una «spesa significativa» – ma la loro allocazione inefficiente e il fatto che una «strategia opaca e ampi margini di discrezionalità rendono difficile perseguire con decisione il percorso verso l’azzeramento delle emissioni (nette, ndr) di carbonio», fissato dall’Ue al 2050 con un target intermedio di riduzione al 2030: -55% sul 1990. Il fatto che invece il Pnrr indichi «un obiettivo di decarbonizzazione per l’Italia al 2030 del 51% senza che questo appartenga in alcun modo a strategie o policy nazionali pubbliche e concordate a livello europeo o internazionale», è già assai indicativo.

«Le risorse classificabili come ‘verdi’ appaiono marginali nella transizione energetica e scollegate da una strategia climatica. Quando si valuta un piano da quasi 250 miliardi non ha solo valore quello che c’è, ma anche – argomentano gli ambientalisti – quello che manca e che faticherà a trovare uno spazio nei bilanci e nelle riforme dei prossimi anni. Rischiamo di rimanere fuori dalla grande trasformazione in atto e diventare un Paese irrilevante dal punto di vista industriale».

Tra le principali lacune del Piano, gli ambientalisti annoverano «la mancanza di una governance che metta in relazione le misure con gli obiettivi climatici, in termini di spesa, impatto e monitoraggio»; la «mancanza di una proposta per la finanza verde come leva per lo sviluppo del Paese»; la «mancanza di una proposta di riforma della fiscalità che assicuri l’eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi alle fonti fossili e contestualmente identifichi nei principi di fiscalità ambientale i pilastri per la riforma fiscale da inserire nella legge delega prevista per luglio».

Nel frattempo resta tutto da capire come gestire concretamente la transizione ecologica sui territori locali, ormai puntellati di sindromi Nimby e Nimto, mentre si prospetta un inevitabile incremento nell’installazione degli impianti industriali necessari a sostenere la transizione energetica come l’economia circolare: come sottolineato dal presidente di Legambiente Stefano Ciafani, in occasione dell’incontro Presto e bene. La transizione ecologica dai progetti ai cantieri cui hanno partecipato anche il ministro Cingolani, i vertici di Ispra, Iss e Confindustria, «dobbiamo fare in modo che con le migliaia di nuovi cantieri non si inauguri una stagione di guerre civili per le contestazioni sul territorio».

Quest’articolo è stato realizzato in collaborazione con RiEnergia, il portale d’informazione ideato da Rie-Ricerche Industriali ed Energetiche in collaborazione con Staffetta Quotidiana, dov’è stato pubblicato con il titolo: Perché il Piano di Ripresa non piace agli ambientalisti?

fonte: greenreport.it