Coronavirus e mafia, ecco i boss stragisti che usciranno dal carcere (?)
Nota del Dap per segnalare i “detenuti con più di 70 anni e con malattie”
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
“Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Correva l’anno 2002 quando, con queste parole, il boss corleonese Leoluca Bagarella, cognato del capo dei capiTotò Riina,
interveniva in videoconferenza dal carcere de L’Aquila, durante un
processo sulla faida di Alcamo, annunciando lo sciopero della fame per
protestare contro il 41 bis (il regime carcerario cui sono sottoposti
gli imputati di mafia).
Da quando, a seguito della strage di Capaci, alla legge Gozzini dell’ordinamento penitenziario fu introdotto il secondo comma, per i boss mafiosi quello del 41 bis è stato un chiodo fisso.
A
quasi diciotto anni di distanza da quella “lettera-proclama” il
capomafia, sanguinario stragista, potrebbe davvero vedere esauditi i
propri desideri di “libertà”, anche fosse per un breve periodo, fuori
dal carcere.
Per assurdo la “soluzione” potrebbe venire dall’emergenza sanitaria del Coronavirus.
L’allarme
è scattato nel momento in cui è emersa l’esistenza di una circolare,
trasmessa per conto del Direttore generale del Dap Giulio Romano,
inviata a tutti i penitenziari italiani, con un oggetto generico
“Segnalazione all’autorità giudiziaria”, invitando a comunicare “con solerzia alla Autorità giudiziaria, per le eventuali determinazioni di competenza”, il nominativo di quei detenuti che hanno più di 70 anni e sono affetti da determinate patologie.
Quel
che salta immediatamente all’occhio è la data, quella del 21 marzo,
ovvero quattro giorni dopo l’approvazione del decreto Cura Italia con
cui il governo affrontava il problema del sovraffollamento, prevedendo
gli arresti domiciliari per i detenuti che abbiano una condanna “non superiore a 18 mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena”.
Quel
provvedimento, interveniva specificatamente per quelle posizioni già in
“esecuzione di pena” e non potevano rientrare nella casistica tutti
quei soggetti che avevano commesso reati gravi (come ad esempio quelli
richiamati dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario,
maltrattamenti in famiglia o stalking).
Boss a rischio libertà
Il
documento del Dap, però, non fa alcun richiamo al cura Italia e non fa
distinzione tra detenuti. Ed è proprio quella mancata distinzione che ha
fatto scattare l’allarme negli ambienti giudiziari perché così si
includono anche quei soggetti sottoposti al regime carcerario del 41
bis. Si parla di una “popolazione” di 74 boss al carcere duro, a cui si
aggiungono le diverse centinaia di detenuti in Alta sicurezza, che
potenzialmente rientrerebbero nella “casistica” dei soggetti a rischio.
E l’elenco dei nomi, al netto del “peso” e della “storia” criminale, è di quelli “eccellenti” e fa rabbrividire: dallo stesso Leoluca Bagarella, al cassiere della mafia Pippo Calò, al boss Nitto Santapaola fino ad arrivare al camorrista Raffaele Cutolo, o gli ‘ndranghetisti Pasquale Condello, Giuseppe Piromalli e Umberto Bellocco. L’elenco, stilato nei giorni scorsi da L’Espresso, è ancor più grande se si guarda a Benedetto Capizzi, Antonino Cinà, Carmine Fasciani, Vincenzo Galatolo, Teresa Gallico, Raffaele Ganci, Tommaso Inzerillo, Salvatore Lo Piccolo, Piddu Madonia, Nino Rotolo e Benedetto Spera.
Nomi di primissimo piano che hanno gestito il potere di Cosa nostra,
alcuni dei quali hanno fatto parte della cosiddetta Cupola, ‘Ndrangheta e
Camorra negli anni prima e dopo le stragi.
Un segnale di distensione
Quando
fu emesso il “Cura Italia” il Consiglio superiore della magistratura
intervenne, spaccandosi sul parere da dare sul decreto. Da una parte chi
riteneva la misura troppo blanda, dall’altra si erano espressi in
maniera forte magistrati come Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, arrivando a definirlo come un “indulto mascherato” e un “pericoloso segnale di distensione”.
Per
assurdo quello che sta accadendo attorno alle carceri in queste
settimane presenta un quadro più allarmante che addirittura va anche
oltre a quelle indicazioni di Governo, che comunque avevano circoscritto
la casistica dei soggetti che potevano ottenere un regime di detenzione
alternativo.
E’ accaduto, infatti, che anche i detenuti per mafia in
attesa di giudizio definitivo, abbiano ottenuto la concessione dei
domiciliari. Il caso recente più eclatante è stato quello di Rocco Santo Filippone imputato nel processo ‘Ndrangheta stragista dove, assieme al capomafia palermitano Giuseppe Graviano,
è accusato di essere il mandante degli attentati contro i carabinieri
(in cui morirono anche i brigadieri Fava e Garofalo), avvenuti tra il
1993 ed il 1994.
Ma ancor prima provvedimenti analoghi erano stati presi nei confronti del boss di Lamezia Terme Vincenzino Iannazzo, condannato in appello a 14 anni e mezzo e in attesa di sentenza definitiva; o quello per l’ergastolano di origini siciliane, Antonio Sudato, 67 anni, che si trovava rinchiuso nel carcere di Sulmona.
E
come nella circolare del Dap anche quelle decisioni prese da Gip, Gup e
Presidenti delle Corti, non facevano riferimento al decreto del
governo.
Quell’indicazione, infatti, veniva in qualche maniera
“superata” da un’altra, trasmessa i primi di aprile dal procuratore
generale della Cassazione Giovanni Salvi a tutte le
Procure generali d’Italia. Un documento in cui si suggeriva di
considerare il carcere come “extrema ratio”. Caso vuole che proprio in
quelle date sono iniziate le scarcerazioni.
Scelte condizionate
Se
si mettono assieme il documento del Dap del 21 marzo e i suggerimenti
del Procuratore generale della Cassazione, ci si accorge che in entrambi
i casi non si parla di provvedimenti vincolanti, ma la “patata
bollente” viene lasciata nelle mani del singolo giudice chiamato ad
assumere le proprie “determinazioni di competenza”, assumendosi di fatto
ogni responsabilità qualora accada qualcosa al detenuto che ha
presentato l’istanza tramite il proprio legale. E dal momento che già i
primi provvedimenti sono stati presi in questa direzione cosa impedisce
alla “Bagarella&co” di sperare nella “nuova visione” generata
dall’emergenza sanitaria mondiale?
Probabilmente c’è chi dirà che i
soggetti sottoposti al “carcere duro” non rientrano in alcun modo nella
categoria di coloro che potevano sperare nelle scarcerazioni, ma lo
stesso si diceva per i detenuti al 41bis. E abbiamo visto come è andata a
finire.
Proteste carceri
Certo è che il
momento che si sta attraversando non è dei migliori. Il clima che dai
primi di marzo si registra dentro e fuori le carceri è agitato. Gli
scontri che, da nord a sud, si sono sviluppati contemporaneamente in più
parti d’Italia, lo testimoniano.
Anche in questo caso la tempistica
salta all’occhio. E fa riflettere che provvedimenti e circolari siano
arrivati poche settimane dopo gli scontri all’interno delle carceri,
addirittura con tanto di evasioni, dietro cui – secondo ipotesi
investigative a cui varie procure stanno lavorando – ci sarebbe la
criminalità organizzata.
Rivolte che richiamano alla memoria i tempi
in cui dalle carceri si protestava proprio per condizionare le scelte
della politica o le decisioni del Dap.
Un modus operandi che
ciclicamente sembra ripresentarsi nel corso del tempo. E ancora una
volta tornano in mente le parole di Bagarella nel suo “editto”: “Abbiamo
iniziato una protesta civile e pacifica… Tutto ciò cesserà nel momento
in cui le autorità preposte in modo attento e serio dedicheranno una più
approfondita attenzione alle problematiche che questo regime carcerario
impone”. Correva l’anno 2002.
Oggi, come allora, i capimafia tornano a parlare di incostituzionalità del 41 bis (vedi Graviano al processo ‘Ndrangheta stragista).
Anche
la “rivolta interna” sembra aver portato i suoi primi frutti mentre
dall’esterno, associazioni per i diritti dei detenuti, penalisti,
prelati, segmenti del mondo della politica e dell’informazione, hanno
avviato un vero e proprio “tam-tam” chiedendo a gran voce, senza fare
distinzione, amnistie e indulti senza maschere.
Fermo restando che la
salute dei detenuti è fondamentale, uno Stato serio che non voglia
essere prono o complice, non può permettere che gli stupratori della
nostra democrazia, che hanno commesso omicidi, estorsioni, corruzioni,
traffico di stupefacenti e stragi, possano ottenere anche un solo
beneficio. Quando vennero uccisi Falcone e Borsellino i mafiosi
brindarono sulle loro morti. Qualora venissero aperte le porte del
carcere per gli autori delle stragi di Capaci e via d’Amelio la
trattativa Stato-mafia “finalmente” andrebbe in porto con il trionfo dei
boss. I ministri della Giustizia e degli Interni, Bonafede e Lamorgese,
prendano nota.
In foto da sinistra dall’alto: Raffaele Cutolo, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola e Pasquale Condello
fonte: antimafiaduemila.com