Don Diana, il prete che per ”amore del suo popolo” denunciò la Camorra

di Davide de Bari – Documentario
Il prete di Casal di Principe: “Non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di avere paura, il coraggio di fare delle scelte, di denunciare”

E’ la mattina del 19 marzo 1994. Don Giuseppe Diana, per tutti “Peppe”, come ogni mattina inizia presto la sua giornata lavorativa. Alle ore 7.20 arriva in parrocchia, un po’ prima del solito. Dopo la messa delle 7.30 da appuntamento in un bar a diversi amici per un dolce e un caffè. Sulla porta il sagrestano lo saluta. In chiesa ci sono già alcune donne e le suore. C’è anche Augusto di Meo ad aspettarlo, il suo amico fotografo. Don Peppe si appresta a indossare gli abiti per celebrare la prima messa. Entra in chiesa un uomo che chiede: “Chi è don Peppino?”. “Sono io” risponde il parroco. Identificato il prete, il killer prende l’arma e spara in tutto cinque colpi di pistola contro il prete: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. Don Diana cade sul pavimento sporco di terriccio. Uditi gli spari, le persone presenti cercano di soccorrerlo, provando a rianimarlo, ma il prete è morto. A Casal di Principe tutti sanno il motivo del suo assassinio, ma nessuno ha il coraggio di dirlo anche davanti ai microfoni dei giornalisti. Ma qualcuno, davanti ai media, con le lacrime agli occhi denuncia quello che si vive in città. A parlare sono i giovani che il parroco aiuta, cercando di dare loro una speranza lontana dalla violenza e dalla mentalità mafiosa.

La forza della denuncia
Don Peppe Diana nacque a Casal di Principe, città dove la Camorra imponeva da sempre il proprio predomino, facendosi “organo di potere” riconosciuto dagli abitanti. Nel 1968, don Peppe entrò in seminario, si laureò in Filosofia e divenne capo scout e nel 1982 venne ordinato sacerdote. Per un periodo studiò a Roma, lontano dal suo Paese, ma Don Peppe decise di ritornare nella sua città, dove poi venne nominato parroco della parrocchia di San Nicola di Bari. E’ così che iniziò il suo lavoro di denuncia nei confronti della Camorra. Prima realizzò un centro di accoglienza per i primi immigranti africani per impedire che quelle persone diventino la manovalanza della criminalità organizzata. Don Peppe non era un prete come tanti, che ai funerali dei “morti ammazzati” dalla Camorra, si limitava a svolgere il sacramento, ma lo utilizzava per denunciare e dire le cose come stanno. Dunque, Don Diana tolse i sacramenti ai mafiosi, che venivano utilizzati come investitura o celebrazione del potere criminale. Poi il parroco volle rompere gli indugi e attaccò direttamente i mafiosi. Per questo fu autore di un documento rivoluzionario di protesta e soprattutto di denuncia, dove era racchiuso il suo fondamento pastorale con parole di estrema integrità morale, civile e di valori spirituali universali. Il titolo? “Per amore del mio popolo non tacerò”. Era uno spaccato che descriveva cos’è la Camorra, cosa causa e soprattutto un appello alle istituzioni e cittadini. “La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. – scriveva il prete nel documento pubblicato il natale del 1991 – È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale”. Don Diana si rivolgeva a tutti coloro i quali possono far qualcosa per combattere il potere mafioso: “Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo ‘profetico’ affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili”.

Parole e azioni che costarono a Don Peppe la vita. I Casalesi decisero di condannarlo a morte. E’ così che il progetto di morte venne messo in atto il 19 marzo 1994 quando un killer uccise il prete nella sua chiesa.

La diffamazione e la giustizia
Il giorno del funerale di Don Diana si mobilitarono ventimila persone che scelsero di scendere in piazza insieme agli scout. L’omicidio del prete fece tanto clamore, come quello di Oscar Romero e don Pino Puglisi. Da ogni balcone pendolavano lenzuola bianche in segno di lutto e di protesta. Dopo la mobilitazione, iniziarono a circolare strane voci tra la gente circa il movente dell’omicidio: Don Diana ucciso per una questione di donne. I carabinieri non presero in considerazione questa ipotesi in quanto poi si rivelò di natura denigratoria. Il movente dell’omicidio del prete venne fuori nel processo di secondo grado e confermato poi in Cassazione il 4 marzo 2004. I giudici ermellini condannarono Giuseppe Quadrano a soli 14 anni vista la collaborazione e all’ergastolo i coautori Mario Santoro e Francesco Piacenti e come mandante il boss Nunzio De Falco detto “o lupo”. Infatti, si cercò di far ricadere la colpa dell’omicidio sul rivale di De Falco, Francesco Schiavione, ma questo non avvenne grazie alle dichiarazioni di Quadrano. Molto importante anche la testimonianza di Augusto Di Meo. I giudici ribaltarono la sentenza di primo grado che fece scatenare la macchina del fango (con titoli di articoli sul Corriere di Caserta: “Don Diana era un camorrista” e “Don Diana a letto con due donne”).
Oggi ricorre il venticinquesimo anno da quel giorno che è morto, indossando le vesti da parroco e con le stesse si è reso autore di una denuncia e di una rivoluzione contro la Camorra, mai vista prima. Da quel giorno si è iniziato a parlare di Camorra, quella parola tanto temuta che inibisce ogni pensiero e parola di libertà. Se oggi possiamo sentirci un po’ più liberi di essere noi stessi e di poter continuare a combattere è grazie al sacrificio e all’impegno di persone come Don Diana, che non sono degli “eroi”, ma semplici uomini che vogliono vivere la propria vita ritrovando “il coraggio di avere paura, il coraggio di fare delle scelte, di denunciare”.

FONTE: antimafiaduemila.com