Nino Di Matteo non ci sta

Beffati i filomafiosi di Stato
di Saverio Lodato

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Gli imbroglioni sono stati serviti di barba e capelli. Speravano che il gonzo abboccasse. Che si togliesse da solo le castagne dal fuoco. Che decidesse la via della fuga, della resa, del disonore. Volevano farlo diventare una figurina insignificante in questo presepe diroccato dell’antimafia dove ormai si muovono a loro agio soltanto quelli che vanno alla ricerca di un tornaconto personale, politico, di carriera, di soldi, poco importa.
Poi, una volta che se ne fosse andato, togliendo il disturbo, ci avrebbero pensato loro al “trattamento” successivo: avrebbero detto e scritto che aveva “abbandonato” i colleghi; lasciato la nave in fiamme perché il processo sulla trattativa Stato-Mafia non porta da nessuna parte; scelto la sede di Roma per sete di inguaribile protagonismo.
Ma gli imbroglioni, gli esperti, in fatti di mafia e di antimafia, nel gioco delle tre carte, hanno preso una capocciata. Devono rifare i conti. Avendo le polveri bagnate, dovranno prendersi una pausa di riposo in quella campagna di odio che alimentano ininterrottamente da quasi quattro anni. Loro, uno scenario peggiore, non potevano immaginarlo. Neanche “Il Foglio”, che pure in queste cose è specializzato da tempo, e sin dai tempi del “pool” di Falcone e Borsellino, aveva messo in conto una simile cocente sconfitta. Speravano infatti, e qui ci riferiamo in particolare a certi ciarlatani di Sicilia, che richiamandosi al Leonardo Sciascia dei “professionisti dell’antimafia”, tutto si sarebbe messo a posto. Sventurati i nemici dell’antimafia di oggi che sanno solo rifarsi pappagallescamente allo Sciascia di trent’anni fa…
Nino Di Matteo resta a Palermo. Nino Di Matteo resta nel suo ufficio al secondo piano del Palazzo di Giustizia, che fu di Falcone e Borsellino. Nino Di Matteo resta pubblico ministero in questo maledetto processo sulla Trattativa che fa tremare istituzioni e poteri forti. Nino Di Matteo ha detto no, con tutto il rispetto del caso, alle sirene del Csm che lo invitavano pressantemente ad andar via. E le stesse sirene che oggi “vogliono salvargli la vita” sono le stesse che in questi due anni, per ben due volte, avevano cestinato le sue richieste di entrare in Procura Nazionale antimafia adducendo pretesti burocratici e scavalcando il suo curriculum d’eccellenza.
I giochi sono fatti.
Di Matteo non si è mosso e non si muove. Che accadrà adesso? Niente.
La terza commissione del Csm si augura che Di Matteo ci ripensi. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, sin qui non ha detto una parola. Parlerà adesso? Se dovesse parlare non saremo i soli ad ascoltarlo con interesse.
Solo in un Paese come il nostro si poteva far finta – e si può continuare a far finta – di non sapere perché uno dei magistrati più in vista d’Italia è minacciato di morte e condannato a morte. Tanto da chiedere a lui stesso di scappar via. Il motivo, per noi, è chiarissimo: lo Stato italiano non vuole essere processato per i suoi rapporti con la mafia. Gli imbroglioni del gioco delle tre carte e il presepe diroccato dell’antimafia lo hanno capito benissimo anche loro. Anche quelli del “Foglio” lo hanno capito benissimo. Ma tutti preferiscono far finta che Di Matteo sia un alieno del quale sarebbe meglio sbarazzarsi.
In un modo o nell’altro.
Come ai tempi di Falcone e Borsellino.

saverio.lodato@virgilio.it

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