Emmanuel, morto di razzismo. Cosa resta dell’accoglienza?

emmanuel chimiaryFuga da Boko Haram, poi ucciso a Fermo: la moglie racconta l’inferno sul barcone
di AMDuemila – Video e fotogallery all’interno!
Quanto è accaduto a Fermo chiama in causa tutti in prima persona. La tragica morte di Emmanuel Chidi Nnamdi, scampato alla violenza terroristica diBoko Haram insieme all’amata moglieChimiary, morto per mano di un ultrà fermano, non può che interrogarci su quale accoglienza siamo in grado, come comunità locale, di offrire a coloro che dai barconi approdano in terra marchigiana. Emmanuel e Chimiary dopo aver perso casa e famiglia in Nigeria volevano ricominciare un’altra vita in un’altra terra. Erano persino riusciti farsi sposare da don Vinicio Albanesi, che li ha accolti presso il seminario arcivescovile, nonostante ancora non disponessero di documenti regolari. Poi quell’incontro: “Scimmia africana” così la apostrofa uno dei due ultrà mentre Chimiary passeggiava in compagnia del marito. Dopo i diverbi, la colluttazione:Emmanuel (al di là delle dinamiche dell’accaduto che saranno chiarite dalle indagini) è in fin di vita ed entra in coma irreversibile. Il cuore batte, ma l’attività cerebrale non c’è più. E dopo le ore necessarie per attendere l’accertamento del coma si decreta ufficialmente la morte.

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Ora Chimiary a soli 24 anni è sola, in una terra straniera che non l’ha saputa accogliere. Dopo essere fuggita dalla sua Nigeria ha dovuto rinunciare agli studi in medicina pur di salvarsi la vita. Non è riuscita invece a salvare quella che portava in grembo, e che ha perso durante il terribile viaggio per mare dove in tanti non riescono a raggiungere la terraferma. Ora non c’è più neanche Emmanuel. “Non riesco a vivere senza mio marito” dice con voce strozzata, tra i singulti, alla fiaccolata organizzata ieri al seminario di Fermo. Un appello alla comunità locale per stringersi intorno al dolore di una giovane donna che tra queste colline sognava un futuro diverso. Ma in poche centinaia hanno risposto.“Immaginate se avessimo fatto prima questa riunione. – è uno degli interventi – Già c’era il martirio nelle loro vite, potevano raccontarcelo. Se la città si trova unita solo nella tragedia non è bene, lo è se ci si incontra nella festa, nell’accoglienza, solo così si esorcizzano le violenze. Purtroppo nemmeno stasera questa città è unita”.
Chi è presente si riunisce in cerchio mentre Chimiary si accasciava su una sedia, vestita interamente di bianco. Alla luce delle fiaccole intona un canto nella sua lingua per dare voce al dolore della sua perdita, ed è un lamento che fa tremare le vene e i cuori di chi ascolta. “Questa canzone dice: Dio dove sei? Perché mi hai lasciato in questo mondo cattivo senza Emmanuel? Per me è molto doloroso stare da sola, perché vivere da soli è uccidere la mente. Quindi sarebbe meglio per me perdere la vita piuttosto che non rimanere insieme”.

Rappresentanti delle istituzioni locali abbozzano interventi a caldo, messaggi di scuse che non basteranno se non verranno seguiti dai fatti. Il sindaco Calcinaro parla di “morte della comunità”: “Non posso che chiedere scusa a Chimiary, Emmanuel e a tutti gli ospiti della struttura. Dovevamo e dovremmo proteggerli da quello da cui sono fuggiti”. Molti tra i presenti sono ospiti della struttura, connazionali per lo più giovanissimi, e alcuni restano affacciati alle finestre dell’edificio. Abbiamo ancora molto da imparare quanto ad aprirci all’accoglienza e all’incontro. Dove nella relazione e nel dialogo ognuno diventa lo specchio dell’altro, e nell’incontro ci si conosce, ma soprattutto ci si riconosce in quanto profondamente esseri umani, così diversi ma così uguali e proprio per questo portatori di unicità e bellezza. Un muro invisibile di indifferenza e pregiudizio rischia di dividere chi ospita da chi è ospitato, che dobbiamo abbattere con le armi della solidarietà, della comprensione, del rispetto. Per evitare che violenza chiami altra violenza. “È un momento per noi molto doloroso. – dice uno dei ragazzi ospiti del seminario – Abbiamo detto tante volte che vogliamo collaborare con voi, non vogliamo più avere paura. Siamo scappati dalla guerra, dalla fame… purtroppo uno di loro ha incontrato qui la morte. Ma abbiamo visto anche la risposta, questo è molto importante. Ci deve essere giustizia, non si può prendere la vita così”.

Mai come ora abbiamo un disperato bisogno di giustizia per sanare questa ferita aperta. “C’è la giustizia divina, ma io sto attento anche a quella terrena – ammonisce don Vinicio Albanesiperché l’una e l’altra devono poter coincidere”. E poi la promessa: “Farò di tutto affinché Chimiary possa riprendere gli studi di medicina”. Ora lasciamo che siano le sue stesse parole, lette dalle suore durante la veglia, a narrare l’inferno patito in quell’interminabile viaggio affrontato con Emmanuel. Attorno al ricordo di lui e al dolore di lei si stringe in un ideale abbraccio la redazione di ANTIMAFIADuemila: nata per dare voce e contributo di verità alle ingiustizie perpetrate dalle mafie, non può rimanere sorda di fronte alla tragedia nata dalla violenza, dalla prevaricazione, dall’odio di cui la mentalità mafiosa si nutre (indipendentemente dalle differenze di cultura e religione) improvvisamente esplosi nel nostro territorio. Di fronte ai quali tutti sono chiamati a reagire, a restare umani per non diventare complici.
Il mio nome è Chimiary, ho 24 anni e mio marito Emmanuel ne ha 35. Siamo nigeriani, veniamo dal nord della Nigeria, nel mio Paese io ero una studentessa al secondo anno di medicina.
Io e mio marito abbiamo perso la nostra famiglia in un attacco terroristico kamikaze provocato da Boko Haram, nella mia chiesa.
Prima di questo episodio io e mio marito abitavamo insieme a mio suocero.
Quel giorno abbiamo lasciato a casa mio suocero insieme alla nostra bambina di due anni per andare a fare spesa e quando siamo rientrati dal negozio abbiamo visto una grande folla in strada che urlava. Molti piangevano. Ci siamo avvicinati ed abbiamo visto che nell’esplosione era stata colpita anche la nostra casa e altre case vicine. Ci siamo messi a cercare nostra figlia e mio suocero, ma loro non c’erano più.
Siamo rimasti così senza alcun familiare, parente o amico perché da quel momento in poi si è creato un clima di diffidenza tra la gente e si aveva paura gli uni degli altri. La Nigeria, infatti, è un Paese che da alcuni anni è sotto la morsa del terrore a causa di un gruppo estremista islamico, Boko Haram.
Così, non avendo più niente, cominciammo a dormire in case abbandonate facendo l’elemosina per le strade e a volte riuscivamo a sfamarci con un po’ di pane e di acqua.
Un giorno ho detto a mio marito che non potevamo più continuare a vivere in quel modo, così gli ho detto che sarebbe stato meglio per noi partire e andare in un altro Paese, perché oramai la situazione era diventata difficile e non volevo che ci accadesse qualcosa.
Quindi, lasciammo la Nigeria e impiegammo due giorni per arrivare in Niger. In Niger non conoscevamo nessuno e anche lì dormivamo per strada. Abbiamo trascorso lì un mese, mio marito a volte trovava qualche lavoretto ma dato che non era sufficiente decidemmo di raggiungere la Libia.
emmanuel chimiary matrimonio ansaLasciammo così il Niger e arrivammo in Libia. Anche in Libia non conoscevamo nessuno e quindi ci trovammo costretti a dormire sotto i ponti. Un giorno mio marito, uscito per andare a cercare un lavoro, incontrò un uomo al quale raccontò della nostra situazione che gli disse che potevamo andare a stare a casa sua. Ma non ci aveva detto che di lì a poco sarebbe partito. Infatti, poco dopo quell’uomo partì permettendoci di rimanere a casa sua.
In Libia siamo rimasti un mese e tre settimane e allora io ero incinta di tre mesi. Un giorno sentì bussare alla porta, pensai fosse mio marito dato che era uscito. Ma quando aprii la porta mi trovai di fronte cinque uomini armati con indosso un passamontagna nero, dal quale riuscivo a vedere solo i loro occhi. Entrarono in casa con la forza e cominciarono a buttare tutto per aria. Cercavano soldi e altre cose di valore. Poi mi chiesero se ero cristiana o musulmana, e io risposi che ero cristiana. Subito cominciarono a picchiarmi e a darmi calci sulla pancia. Caddi a terra.
Dopo un po’ arrivo mio marito e non appena vide ciò che stava accadendo e che mi stavano picchiando, si avventò sull’uomo che era sopra di me e quell’uomo lo colpì con la pistola sulla fronte e anche lui cadde a terra. Rimanemmo così stesi a terra non so per quanto tempo, piangendo e urlando, chiedendo aiuto.
Un ragazzo che viveva accanto a noi, sentendo le urla, uscì per venire a vedere cosa fosse accaduto e vedendoci uscì fuori a chiedere aiuto, ma quegli uomini vedendolo gli spararono. Quando riuscimmo a rialzarci l’unica cosa che vedemmo fu il corpo senza vita di quel ragazzo.
Uscimmo fuori e cominciammo a gridare aiuto e un uomo libico che viveva nella nostra stessa via ci disse che aveva visto gli uomini ma che non poteva darci una mano perché aveva paura di quegli uomini, perché sapeva che noi eravamo di colore e che quindi avrebbe rischiato la sua vita se ci avrebbe aiutato. L’unico aiuto che poteva darci era quello di metterci in contatto con suo fratello, il quale era uno di quelli che organizzavo le barche per raggiungere l’Italia.
Quella stessa notte ci accompagnò da suo fratello e mio marito gli disse che noi non avevamo i soldi perché quei pochi soldi che avevamo li avevamo lasciati in casa. E quell’uomo ci disse: perché parlate di soldi, la vostra vita è più importante dei soldi.
Quindi raggiungemmo la spiaggia e c’erano molte persone, noi capitammo in un gruppo che partiva quella stessa notte. Eravamo in 140 in un gommone e durante il viaggio io sentivo dolore alla pancia a causa del pestaggio che avevo subito. Mio marito era seduto lontano da me e io gridavo aiuto ma nessuno poteva aiutarmi. Trascorremmo tre giorni in mare senza cibo, acqua e senza dormire. Il quarto giorno fummo soccorsi da una nave italiana e portati a terra.
emmanuel chimiary matrimonio2 ansaIl dolore continuava e cominciai a sanguinare. Così, quando giunsero i volontari della Croce Rossa, si resero conto della gravità della mia condizione e mi portarono all’ospedale. Lì i medici mi dissero che avevo perso il mio bambino, poi fummo trasferiti in Sicilia dove restammo un mese e due settimane. Io continuavo a stare male e a perdere sangue.
Poi ci dissero che ci avrebbero trasferiti a Fermo. Quando arrivammo a Fermo ci dissero che avrebbero dovuto separarci perché nelle strutture alle quali eravamo destinati non potevano stare insieme donne e uomini. Ma una donna chiamò Suor Rita, lei capì la nostra situazione e disse che potevamo andare insieme perché lei ci avrebbe trovato un posto nel quale poter stare insieme.
Arrivati a Fermo, quello stesso giorno fui portata in ospedale e poi tornai in struttura, dove mi furono dati cibo e vestiti.
Ogni domenica, insieme a Suor Rita e alle altre sorelle che si occupano di noi, andavamo a messa e lì ebbi modo di incontrare Don Vinicio, al quale raccontammo la nostra storia spiegandogli che in Nigeria io e Emmanuel avevamo fatto solo il matrimonio tradizionale, ma non eravamo riusciti a sposarci in chiesa perché due settimane prima del matrimonio ci fu l’esplosione in chiesa. Così Don Vinicio ci ha permesso di fare una cerimonia di benedizione in chiesa il 6 gennaio.
Noi ringraziamo tutti gli italiani che ci hanno accolto e che ci hanno permesso di realizzare il nostro sogno e ringraziamo Suor Rita, Don Vinicio e Suor Filomena, nostra cara amica.
Noi vi auguriamo ogni bene, per voi e per le vostre famiglie. E vi diciamo di credere sempre che Dio può rendere possibile ciò che sembra impossibile e ci da la forza per superare ogni difficoltà. Per questo ringraziamo Dio per la nostra fede, perché ci ha fatti cristiani.
Vi chiediamo di pregare per l’Africa e per il nostro Paese, la Nigeria. Che Dio possa concedere a questi popoli la pace.
Quello che ci auguriamo per il nostro futuro è la possibilità di vivere in questo Paese e per me di continuare gli studi in Medicina con l’aiuto di Dio.
Grazie.
a cura di Miriam Cuccu

Foto del matrimonio © Ansa

fonte: AntimafiaDuemila