”Era Galatolo a pressare per colpire Di Matteo a Roma”

di Aaron Pettinari
galatolo vito eff

Al processo Apocalisse le conferme di un imputato sul progetto d’attentato
“E’ stato Vito Galatolo ad impormi di contattare un pentito che avrebbe dovuto fare da esca”. A confermare il progetto di attentato nei confronti del pm palermitano Nino Di Matteo non è un pentito ma uno degli imputati al processo Apocalisse, Camillo Graziano (classe 1967, per distinguerlo da un parente omonimo). Lo ha fatto con dichiarazioni spontanee immediatamente successive alla testimonianza in aula del collaboratore di giustizia Vito Galatolo (in foto), l’ex boss dell’Acquasanta che per primo ha svelato i piani di morte di Cosa nostra nei confronti del magistrato titolare dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. “La richiesta – ha detto Graziano durante l’udienza in trasferta a Torino – parte da lì, perché quella è la verità. La richiesta parte solo ed esclusivamente da lui. E purtroppo non potevo, per paura e per timore, esimermi dal farlo. Quella è la verità”. La richiesta a cui fa riferimento è quella di contattate un collaboratore di giustizia, Salvatore Cucuzza (nel 2014 deceduto a causa di una grave malattia), che avrebbe dovuto “attirare” Di Matteo a Roma, con la scusa di nuove rivelazioni utili all’inchiesta sulla trattativa, e dare così ai mafiosi la possibilità di colpire.
Anche di questo progetto aveva parlato agli inquirenti Vito Galatolo, spiegando che l’idea di utilizzare Cucuzza, ex boss di Porta Nuova, era stata proprio di Camillo Graziano. Quest’ultimo è nipote di quel Vincenzo Graziano accusato di aver prima reperito e poi nascosto l’esplosivo necessario per l’attentato. “Le armi con cui colpire nella Capitale – ha ribadito in aula il pentito rispondendo alle domande dei pm Dario Scaletta e Amelia Luisele possedevano i Graziano che le avevano portate dalla Slovenia e dalla Croazia, che tutto oggi là, ne è in possesso Camillo Graziano del ’67”. Secondo la ricostruzione di Galatolo l’ordine di morte nei confronti del magistrato era giunto direttamente dal superlatitante Matteo Messina Denaro che avrebbe inviato alcune missive al capomafia di San Lorenzo, Girolamo Biondino. “Bisognava fermare questo signor Di Matteo – ha spiegato il collaboratore di giustizia – nelle lettere si diceva ‘perché sta andando troppo avanti, si è spinto troppo oltre, dobbiamo dimostrare che noi siamo ancora vivi, Cosa nostra è viva’”. Così come ha ribadito in altre occasioni Galatolo ha spiegato che per compiere quell’attentato vi erano tre possibilità. La prima era al palazzo di giustizia, la seconda nel luogo di villeggiatura frequentato dal pm, la terza era nella Capitale, approfittando proprio dell’aiuto di Cucuzza, che con il clan dei Graziano era legato per affari. I progetti di morte dei boss, inoltre, riguardavano anche altri pentiti come Antonino Giuffré, Gaspare Spatuzza, Giovanna Galatolo e Francesco Onorato.
Camillo Graziano, però, in aula ha negato la versione data dal pentito dicendo di essersi sentito intimorito dall’allora boss dell’Acquasanta. “Dei rapporti con Cucuzza – ha detto di fronte alla Corte presieduta da Vittorio Alcamonella mia famiglia, intendo famiglia allargata, nel senso i familiari anche di mio papà, sapevano tutti da anni, per cui non era assolutamente una novità. Né tantomeno è una verità, è inverosimile che io abbia mai proposto al Galatolo di metterlo in contatto con i Cucuzza. A quale scopo? Se non all’inverso la richiesta parte da lui, perché quella è la verità. La richiesta parte solo ed esclusivamente da lui”. Una sorta di “autogol” da parte di Graziano, che con le sue parole conferma l’esistenza del piano di morte. Un pò come accadde ai tempi del maxi processo quando Luciano Leggio, durante l’interrogatorio, parlò del Golpe Borghese. Affermò che Buscetta nel 1970 era stato contattato da Junio Valerio Borghese, a capo della Decima Mas, per ottenere l’appoggio di Cosa nostra al golpe militare. Egli si sarebbe invece opposto all’appoggio della mafia, impedendo di fatto il colpo di stato. Leggio sperava riferire un fatto di cui Buscetta non aveva parlato, per poterlo così delegittimare. Ma in realtà Buscetta aveva parlato approfonditamente in istruttoria della vicenda e con quelle parole il boss corleonese, di fatto, ammetteva l’esistenza di Cosa nostra stessa.
Tra le altre cose, nel suo “flusso di coscenza”, l’imputato Camillo Graziano avrebbe anche detto di aver riferito tutto questo ai pm di Caltanissetta, titolari dell’indagine sul progetto di attentato nei confronti di Di Matteo. Un riscontro importante che si aggiunge a quello di altri pentiti come Francesco Chiarello e Carmelo D’Amico. Il primo aveva confermato la presenza del tritolo a Palermo, il secondo aveva raccontato che alcuni boss siciliani rinchiusi nel carcere milanese di Opera si aspettavano “da un momento all’altro” la notizia del nuovo attentato.

Fonte:Antimafiaduemila