Il ministro dell’Ambiente italiano, prima pro-nucleare e ora a favore delle trivelle petrolifere

Gian Luca Galletti: «Se andrò a votare, al referendum voterò no». Il Wwf: «Davvero grave»

Galletti Cop21All’epoca della nomina a ministro dell’Ambiente di Gian Luca Galletti fece scalpore il clamore con il quale “Circoli dell’ambiente” accolse la notizia: «Grazie a Galletti e Guidi si potrà riaprire anche nel nostro Paese la stagione del nucleare». Una volta insediato, il ministro Galletti si affrettò a precisare che le sue posizioni filo-nucleari erano ormai acqua passata: «Sul nucleare c’è stato un referendum. Gli italiani non lo hanno voluto. Il tema è chiuso. Bene così!». Il referendum del 2011 era tornato a sbarrare una strategia energetica che sarebbe stata disastrosa per il Paese. Ma oggi il ministro, con un altro referendum alle porte – quello sulle piattaforme petrolifere offshore – sembra non guardare con altrettanto favore alle urne. Anzi.

Su #Corrierelive, come sottolinea oggi la versione cartacea del quotidiano, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha espresso per la prima volta e con chiarezza la sua posizione sul referendum del 17 aprile: «Se andrò a votare, al referendum voterò no». Questo perché, secondo Galletti, «se vogliamo evitare di trivellare dobbiamo puntare sull’economia sostenibile. Ma fino a che abbiamo un’economia che va ancora con il petrolio, è ipocrita: se non lo estraiamo noi quel petrolio, dobbiamo comprarlo all’estero. E forse è più pericolosa la petroliera che attraversa i nostri mari». Anziché accelerare la corsa verso un futuro a energia rinnovabile, dunque, il ministro dell’Ambiente pensa sia più utile allungare a dismisura i termini per le trivellazioni offshore a caccia di gas e petrolio. Prima che il governo Renzi cambiasse le carte in tavola la durata delle concessioni, conferma Galletti, «era di 30 anni, estendibili fino a 50». Evidentemente, per il governo non abbastanza. Secondo il ministro, inoltre, se al referendum vincesse il sì «non è che dal giorno dopo scatterebbero i licenziamenti. Ma in prospettiva si perderebbero diecimila posti di lavoro».

A rispondere al ministro è il Wwf Italia, che sottolinea come sia «davvero grave che un ministro strizzi l’occhio all’astensione a un referendum popolare; lo è ancora di più il fatto che il ministro dell’Ambiente strizzi l’occhio all’astensione ad un referendum popolare a difesa dei mari italiani. Il richiamo ai posti di lavoro è contestabile perché punta a fare presa sulla vita di chi vive momenti di grande difficoltà perché opera nel settore degli idrocarburi che è già in crisi da tempo: se il ministro ha veramente a cuore le sorti di queste persone pensi ad avviare processi di riconversione di certi settori produttivi […] Del resto nessun posto di lavoro viene messo in crisi dal referendum, perché la vittoria del sì farà semplicemente rivivere una norma che era vigente fino a pochi mesi fa e sulla quale le compagnie petrolifere avrebbero già dovuto fare i propri conti nel momento in cui hanno chiesto ed ottenuto la concessione estrattiva».

Come spiega infatti anche su La nuova ecologia Katiuscia Eroe, responsabile energia di Legambiente, «non sarà il referendum a mettere a rischio i posti di lavoro, ma una politica cieca che non sa guardare al futuro. Basta dare un’occhiata sui giornali per scoprire che secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie petrolifere a causa del prezzo del petrolio è ad alto rischio di fallimento nel 2016, con un debito accumulato complessivamente di 150 miliardi di dollari […] Tutto questo mentre in Europa i posti di lavoro nel settore delle rinnovabili sono oltre 1 milione, in Italia nonostante il blocco delle rinnovabili e la perdita di oltre 10mila di lavoro, oggi gli addetti al settore sono 70mila , e negli Stati Uniti gli impiegati nel solare sono di più di quelli delle compagnie petrolifere. In un Paese, dove il calo dei consumi di gas nei soli ultimi 10 anni è stato del 22% e del 33% per il petrolio, mentre le fonti rinnovabili hanno raggiunto nel 2014 il 40% di copertura elettrica del nostro fabbisogno nazionale e il 17% di quello primario».

La tesi della perdita di posti di lavoro a causa del referendum non regge al confronto con i dati. Come non regge quella che vede le estrazioni di gas e petrolio dai mari italiani come determinanti per l’approvvigionamento energetico del Paese. «Il petrolio nei mari italiani è presente in quantità talmente ridotte che – ricorda il Wwf – anche se si riuscisse a estrarlo tutto, coprirebbe il fabbisogno energetico nazionale solo per 7 settimane. E le piattaforme a mare che sono nella fascia di interdizione delle 12 miglia dalla costa, che sarebbero interessate dal referendum, producono solo l’1,9% del fabbisogno nazionale di gas».

Già oggi il 40% dei consumi elettrici del nostro Paese vengono dalle rinnovabili e, come evidenziano anche i dettagliati rapporti elaborati dal Wwf, «entro il 2050 saremo capaci di produrre tutta l’energia che ci serve con le energie rinnovabili». La speranza è che anche il ministro dell’Ambiente italiano – che alla Cop21 di Parigi magnificava l’impegno italiano per il clima – come già accaduto con il nucleare inizi a guardare il lato giusto della storia: verso il futuro.

fonte: greenreport.it