Il pentito Galatolo: volevamo uccidere anche il pm Padova

di Miriam Cuccu
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Nella lista nera di Cosa nostra non c’era solo il pm Nino Di Matteo, ma anche un altro magistrato che i boss erano intenzionati ad eliminare. La collaborazione di Vito Galatolo, scrive Repubblica, prosegue davanti agli inquirenti di Palermo e Caltanissetta e svela nuovi dettagli sui piani della mafia palermitana. L’altro obiettivo da colpire era Pierangelo Padova: la famiglia dell’Acquasanta era intenzionata a pianificarne l’omicidio, poi il progetto era stato messo da parte. Padova è il pubblico ministero che insieme a Dario Scaletta rappresenta l’accusa al processo contro i Galatolo. Alla sbarra Angelo, cugino di Vito (ritenuto coinvolto nel fallito attentato all’Addaura, nell’ambito di un altro processo, ndr) e Franco Mineo, ex deputato regionale di Grande Sud e accusato di intestazione fittizia di beni aggravata, peculato, malversazione ed usura.

Secondo i pm Mineo avrebbe fatto da prestanome ad Angelo Galatolo, al quale avrebbe versato degli affitti ricavati da alcuni locali adibiti ad uso commerciale. Nel processo sono entrate le dichiarazioni della sorella di Vito, Giovanna Galatolo, che prima di lui ha deciso di parlare con i magistrati rivelando gli assetti criminali del clan e le attività illecite coperte da prestanome. Ora un altro membro della famiglia sta aprendo squarci nella storia criminale dell’Acquasanta. Anche su fatti accaduti più di trent’anni fa, come l’omicidio di Lia Pipitone, che negli anni Ottanta si era ribellata al padre, boss dell’Arenella. Vito Galatolo accusa direttamente suo padre, don Enzo (anche lui al 41bis) per aver autorizzato l’omicidio della giovane venticinquenne uccisa a colpi di arma da fuoco in una sanitaria dove i due killer inscenarono la rapina. Galatolo chiama in causa anche i sicari, e il padre stesso di Lia (oggi deceduto, ndr) che fu il mandante dell’omicidio. Passa poi a parlare di omicidi più recenti, come quello di Giuseppe Di Giacomo avvenuto lo scorso marzo. Un delitto mafioso vecchio stampo che, spiega il boss dell’Acquasanta, sarebbe stata la conclusione di vendette e ritorsioni nel mandamento di Porta Nuova scattate – è quanto si sentì riferire, pur non sapendo l’identità del gruppo di fuoco – per l’egemonia degli affari illeciti a Palermo a seguito della scarcerazione di Tommaso Lo Presti.
Di suo padre Vincenzo, Galatolo asserisce che aveva contatti con esponenti delle istituzioni. Poi fa il nome di Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 ed ex capo della Squadra Mobile a Palermo. Sostiene che era “a libro paga” del clan di Resuttana. Oggi La Barbera è sospettato di aver orchestrato il depistaggio sulla strage di via D’Amelio attraverso falsi pentiti da lui pilotati. “Era in mano ai Madonia”, aveva detto il pentito Francesco Onorato deponendo al Borsellino quater, facendo riferimento alla famiglia di Resuttana. Di La Barbera, aveva proseguito Onorato, i boss ne parlavano anche all’Ucciardone. Commentavano le primissime indagini sull’uccisione di Borsellino, c’era anche Pino Galatolo, fratello di Vincenzo. Galatolo riporta in auge la posizione del Castello Utveggio, da cui si poteva comodamente osservare qualsiasi movimento in via D’Amelio: dal boss Gaetano Scotto seppe che lì c’era una base dei servizi segreti.
Il boss dell’Acquasanta continua poi a raccontare le dinamiche del piano di morte per Di Matteo: ci si incontrava in vicolo Pipitone, usato per le riunioni anche ai tempi di Totò Riina, di cui i Galatolo erano fedelissimi. Al summit prese parte anche Alessandro D’Ambrogio, boss di Porta Nuova poi arrestato a luglio 2013. Galatolo racconta che lui e D’Ambrogio non erano d’accordo sull’organizzazione di una nuova strage, nonostante l’ordine di Matteo Messina Denaro riportato da Girolamo Biondino, capomandamento di San Lorenzo-Tommaso Natale. Anche Biondino, insieme a Galatolo, venne arrestato nel blitz “Apocalisse” lo scorso giugno. Fino a quel momento, il piano era in piena fase operativa.

fonte: antimafiaduemila.com