Rompere il silenzio sul trattato con gli Usa: ecco perché

Chi lo sostiene, promette che la disoccupazione calerà. Chi lo critica, mette in guardia: l’interesse delle multinazionali scavalcherà i diritti dei cittadini e la sovranità delle loro istituzioni. Nessuno quindi può negare che l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea è un tema rilevante per l’opinione pubblica. Eppure nell’autunno 2014, a settimo round negoziale da poco concluso, con un fronte europeo contro il Ttip che si è dato appuntamento l’11 ottobre (e in Italia anche il 14), il black out informativo rimane il peccato originale della trattativa che, in un verso o nell’altro, ci cambierà.

Un segnale di trasparenza è appena arrivato dal Consiglio dell’Unione europea, che ha reso pubblico il 9 ottobre, su pressione anche della presidenza italiana, il mandato con cui nel giugno 2013 i governi hanno dato il via ai negoziati. Ma la mossa arriva dopo mesi, anni, di opacità, e toglie segretezza formalmente a un dossier che era già stato reso pubblico con una fuga di notizie. Quelle venti pagine di direttiva “declassificata” rischiano di sembrare la foglia di fico, il cucchiaio di zucchero dato in pasto a un’opinione pubblica europea che cerca di mobilitarsi. Opinione per forza di cose largamente disunita e soprattutto disinformata: il dibattito sull’accordo che trasformerà le nostre vite fatica ancora a debuttare sulla scena pubblica. Pochi ne parlano, il mainstream difficilmente se ne occupa. Non perché il tema non sia fondamentale: un black out simile è avvenuto di recente in Italia con l’introduzione dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Era l’epoca del governo tecnico, e una maggioranza bipartisan modificò la Costituzione in piena era austerity. Oggi su scala europea la nuova Commissione può contare su un blocco pro Ttip e su un Presidente, Jean-Claude Juncker, che già in campagna elettorale sosteneva il trattato come terra promessa per l’occupazione. I Verdi si opponevano, come pure la sinistra europea e altri, ma allora come oggi la disinformazione è il primo serio ostacolo al dibattito. E il silenzio, a favore di chi gioca?

Il trattato ha un obiettivo ambizioso: non tanto e non solo l’abbattimento dei dazi, ma una armonizzazione normativa tra due continenti che hanno regole molto diverse. Nello specifico, per fare qualche esempio, nell’Unione vige il cosiddetto “principio di precauzione”: solo una volta accertata la sicurezza scientifica di un prodotto o di una pratica, può avvenire la sua introduzione sul mercato. Nel vecchio continente, tra i “rischi” si includono quelli relativi alla sicurezza dei lavoratori implicati nel processo produttivo. In America non è così, e vige il criterio opposto: un prodotto può stare sul mercato fino a che non c’è la prova del rischio. Omogeneizzare le regole significa in pratica un potenziale indebolimento delle garanzie di cui gli europei godono finora: vale per i farmaci, ma anche per gli alimenti, per gli Ogm (in America non è obbligatorio segnalarli nell’etichetta). E vale per i diritti dei lavoratori: il rischio per l’Europa è il gioco al ribasso, la globalizzazione del profitto a scapito di quella del diritto.

Gli effetti, inutile dirlo, si giocano anche nel settore dei diritti di internet, con un depotenziamento del diritto alla riservatezza e il ritorno in campo (sotto altro nome) di Acta, l’accordo anticontraffazione che riguarda la proprietà intellettuale. Ma c’è di più, e di più radicale: i negoziati si orientano verso una progressiva erosione dei servizi pubblici. Laddove un servizio non è esplicitamente regolamentato come pubblico, allora la norma è la sua privatizzazione.

Poi c’è l’elemento chiave, forse quello più contestato dal fronte no Ttip: la possibilità che – nell’aula di un tribunale – gli interessi delle corporation prevalgano su quelli dei cittadini e dei loro governi. La strada è quella già aperta dal capitolo 11 del Nafta (accordo di libero scambio Usa-Canada-Messico) e dalle trattative di libero scambio Ue-Canada: le società private possono portare i governi in tribunale se i loro interessi, tutelati dall’accordo di libero scambio, vengono intaccati. La multinazionale francese Veolia che fa causa all’Egitto perché ha aumentato il salario minimo, il gruppo svedese Vattenfall che fa causa al governo tedesco perché la Merkel ha annunciato l’uscita dal nucleare: sono solo assaggi, esperienze già vissute, di come sarebbe un mondo in cui il profitto può “chiamare in causa” la decisione pubblica. Sembrerebbe proprio che – in sintesi – gli Stati membri abbiano dato delega a Bruxelles perché questa concluda un accordo che li metterebbe sotto scacco, che ne depotenzierebbe la sovranità. Non tanto a vantaggio di un organismo sovranazionale di stampo istituzionale, quanto sancendo la priorità dell’interesse economico transnazionale sulla scelta politica. Se è così, o se c’è anche solo il dubbio che sia così, allora il silenzio delle istituzioni e soprattutto dell’informazione, della pubblica opinione, a favore di chi gioca?

Siamo nel 2013, il New York Times attraverso una fuga di notizie documenta una fitta consultazione tra negoziatori europei e business leaders. Intanto, il Washington Post conta che ben 480 su 556 “voci” con cui Obama si consulta per formulare la strategia commerciale vengono dal mondo dell’industria. Ciliegina sulla torta, il Corporate Europe Observatory denuncia l’attività di lobbying pro Ttip: tra il 2012 e il 2013, dice il dossier, la Direzione generale Commercio della Commissione ha consultato i portatori di interessi. La proporzione è: il 92% di lobbisti da aziende private, solo 40 su 560 rappresentanti di interessi pubblici. La fitta rete di interessi privati che “sostengono” e tentano di influenzare la trattativa mette in difficoltà lo stesso Parlamento europeo: una volta che i governi hanno approvato il quadro negoziale e dato mandato alla Commissione, le informazioni arrivano rade, l’accesso agli scambi tra le due parti è limitato persino per chi siede a Strasburgo. Come lo stesso negoziatore capo dell’Ue Ignacio Garcia Bercero conferma in una lettera al suo omologo statunitense Daniel Mullaney, la riservatezza è un elemento chiave delle trattative. Pressioni degli interessi privati, delega e riservatezza, silenzio mediatico sono le tre carte in un gioco che però, una volta giocato, ha effetti a cascata di grande importanza sull’altro gioco – quello democratico. E in democrazia, l’accountability, l’obbligo di render conto e di risalire alle responsabilità di una scelta politica, dovrebbe essere il punto di partenza. La regola vale ancora di più, se a esser messe in discussione sono proprio le regole del gioco..

fonte: MicroMega