'Ndrangheta: anatomia di un potere

ANTEPRIMA
di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
Intervista al pm Giuseppe Lombardo
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Giuseppe Lombardo è il pm titolare di alcune delle inchieste più delicate condotte contro le cosche di Reggio Calabria, considerate le più potenti dell’intera regione. Al processo “Meta” ha fatto condannare boss del calibro di Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello, Giovanni Tegano e Pasquale Libri. Ma le sue indagini affondano le radici anche nei rapporti tra l’organizzazione criminale calabrese e le istituzioni, tra la ‘Ndrangheta e la Massoneria, la politica e l’imprenditoria. Un coacervo di poteri più o meno occulti all’interno di un sistema criminale integrato. Il magistrato, minacciato di morte dalla ‘Ndrangheta, ha istruito altresì il filone calabrese dell’inchiesta sulla Lega nord che ha visto coinvolto l’ex tesoriere Francesco  Belsito, ed è tra i titolari dell’inchiesta che ha portato all’arresto dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola.

La prima domanda è necessaria, anche se può sembrare banale. Che significa oggi fare il magistrato antimafia in Calabria?
Per risponderle devo partire dalla storia della mia famiglia: sono nato a Reggio Calabria ma ho vissuto sempre nella Locride, fino a quando non ho deciso di andare a studiare fuori sede. Da adolescente ho vissuto la stagione dei sequestri di persona perché mio padre era Procuratore della Repubblica a Locri in un periodo storico delicatissimo per la Calabria, per le attività della ‘Ndrangheta, già all’epoca molto presente, ma soprattutto per capire un fenomeno che ancora oggi, tra le mafie storiche, è quello che è riuscito a nascondersi meglio. Dal luglio del 1970 in città c’erano i carri armati per i moti di Reggio, successivamente ho chiesto ed approfondito, prima e dopo essere diventato magistrato: c’erano domande che non erano state fatte, risposte che non erano state date. Sono gli anni che portano alla prima guerra di mafia. Allora non capivo che senso potesse avere mantenere, parlando dei sequestri di persona, dei ragazzi in quello stato per anni. Ricordo che mio padre mi diceva: “Se deciderai di fare il mio lavoro, come io spero, sono sicuro che le troverai”.
Oggi penso che qualche risposta su quelle domande sia possibile. Quando sento parlare di trattativa tra apparati dello Stato e organizzazioni di tipo mafioso la mente va a quel momento storico, in cui in pochi avevano capito che la ‘Ndrangheta non consumava i sequestri di persona solo per profitto: secondo me ci fu già, per quanto riguarda la ‘Ndrangheta calabrese, un contatto importante. Mio padre distingueva tra sequestrati di serie A e di serie B perché aveva notato che c’era un diverso interesse, una differente velocità nella risposta. La ‘Ndrangheta aveva capito di poter trattare, che quella forma di pressione psicologica creava nell’immaginario collettivo l’impressione di uno Stato debole che non riusciva a fronteggiare quelle tipiche manifestazioni di barbarie. Ridurre in schiavitù una persona, privarla della propria libertà è quanto di peggio si possa immaginare in un ordinamento giuridico come il nostro in cui il principio di libertà va tutelato fino in fondo.

In che modo la‘Ndrangheta continua a conservare a livello nazionale e internazionale contatti importanti che accrescono il suo business miliardario soprattutto nel settore del narcotraffico? Come nel recente caso di Trimboli, latitante arrestato a Medellin, in Colombia, che vantava alleanze con Pablo Escobar e Cosa nostra.
Penso che da molti anni le mafie, soprattutto quelle che riescono ad amministrare enormi capitali, siano diventate, in un momento storico come questo in cui la liquidità legale è molto scarsa, interlocutori necessari nel sistema economico mondiale. Tale constatazione è particolarmente inquietante: avendo capitali pronti da investire, sono gli unici che riescono a garantire l’equilibrio tra domanda ed offerta di capitali. L’organizzazione criminale oggi non si propone più, ma viene individuata quale interlocutore privilegiato per investiementi che vengono occultati nell’ambito operativo delle economie legali.
All’interno di questo quadro dobbiamo parlare necessariamente di “capitalismo mafioso”, non perché il capitalismo mondiale sia tale ma per cercare di spiegare che una sensibile percentuale di quel sistema è interamente controllata dalle mafie. Le loro decisioni incidono su quelle di altri organismi, questa è una certezza. Sono numerosi gli studi che cercano di capire qual è la movimentazione complessiva di capitali delle organizzazione criminali di tipo mafioso, valutazioni che non tengono conto del fatto che, se l’economia sommersa è riferibile ai sistemi di tipo mafioso, qualsiasi ricostruzione è da considerare puramente indicativa. Gli accertamenti patrimoniali svolti dimostrano che i capitali che le mafie gestiscono sono enormemente più consistenti rispetto a quelli che finora siamo riusciti a tracciare.

Possiamo affermare che oggi la ‘Ndrangheta ha nel mondo occidentale il monopolio mondiale del traffico di cocaina?
In questo settore la ‘Ndrangheta è oggi l’interlocutore principale, il narcotraffico è una delle attività in cui si riesce a creare quella enorme provvista di capitali da mettere, poi, a disposizione del sistema capitalistico mondiale attraverso strumenti finanziari molto evoluti.

Un’organizzazione di tale peso tratta allo stesso modo con tutte le famiglie di narcotrafficanti, nonostante queste siano spesso in conflitto tra loro?
Tutte le famiglie dei narcos parlano con la ‘Ndrangheta. Alcune gestiscono direttamente questo tipo di contatti, sempre in collegamento con il contesto criminale in cui operano: sanno che questa forza che l’organizzazione può manifestare e garantire è vitale per gli incrementi patrimoniali futuri. Non tutte le grandi famiglie hanno fatto le stesse scelte: quelle reggine ad esempio hanno investito molto sui legami con ambiti istituzionali e politici, coltivando negli anni una serie di rapporti con vari apparati, movimenti extraparlamentari, l’eversione di destra, la massoneria. Questo ha generato notevoli opportunità di contatto anche con gli Stati esteri, nei quali sono state collocate fette rilevanti della loro ricchezza. Hanno intensificato le relazioni anche in ambito finanziario, inizialmente per superare i metodi tradizionali di riciclaggio: mentre in altri contesti si privilegiava la scelta diretta a sfruttare le opportunità dei piccoli territori, le cosche di Reggio Calabria avevano già capito che gli strumenti finanziari si stavano dematerializzando. Amministravano non solo le ricchezze della Lombardia, del Piemonte e di tutto il Centro-Nord, ma anche le potenzialità collegate ai contatti romani, alla Svizzera e ad altri Stati europei, specialmente quelli caratterizzati da sistemi normativi particolarmente vantaggiosi, parificabili a paradisi fiscali. Si pensi ai rapporti con la Francia meridionale, dove esiste un locale di ‘Ndrangheta da circa quarant’anni. La Spagna, invece, ha sempre rappresentato per le famiglie di origine calabrese un ponte verso i paesi del nord Africa, che sono divenuti territori da utilizzare unitamente alle coste che si affacciano sull’Oceano Atlantico. Nello stesso periodo hanno iniziato a comprendere che i sistemi bancari di origine anglosassone rendevano più difficili gli accertamenti patrimoniali. Vi è sempre stata poi la possibilità di sfruttare il bacino del Mediterraneo, dato geografico che non consente di escludere che anche il traffico di migranti sia gestito in modo “unitario” da associazioni criminali che si avvalgono di strutture particolarmente collaudate. Tutto questo trasforma l’organizzazione mafiosa di origine calabrese in una enorme holding mondiale, in una collaudata agenzia di servizi criminali. Per sintetizzare tale conclusione si può dire che per gestire qualsiasi affare si possono percorrere due strade: o si cerca direttamente l’interlocutore migliore, oppure ci si rivolge a quella struttura organizzata che è in grado, di volta in volta, di fornire l’interlocuzione necessaria per concludere l’affare.

Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello, Giovanni Tegano, Pasquale Libri… È cambiato qualcosa con la loro condanna al processo Meta, oppure i capi assoluti della ‘Ndrangheta continuano, grazie a importanti bracci destri, a controllare i loro affari dal carcere?
Stiamo parlando di soggetti catturati dopo essere rimasti latitanti per molti anni, a volte venti, collocati al vertice di famiglie potentissime che hanno subito, nell’ultimo periodo, seri scossoni in ambito processuale. Per comprendere chi siano, è importante ricordare che al termine della prima guerra di mafia i De Stefano sono diventati la famiglia di riferimento della ‘ndrangheta più evoluta, avendo dimostrato di aver capito molto prima e meglio di altri che l’organizzazione criminale per continuare ad avere un ruolo egemone, determinante, non solo in Calabria e in Italia, doveva operare in un modo nuovo. Sono loro che dettano la linea di evoluzione del fenomeno: capiscono che il necessario processo di sviluppo non può essere portato a buon fine senza condividere una serie di decisioni con tutti gli altri, soprattutto coloro che ricoprivano già ruoli di grande rilievo. I Condello, i Tegano, i Libri si evolvono all’ombra di Paolo De Stefano e, ancora prima, di Giorgio De Stefano, che poi verrà ucciso nel novembre del 1977. Pasquale Condello era da tempo il loro braccio operativo, Giovanni Tegano era uno dei grandi saggi con cui i fratelli De Stefano si consultavano da anni; lo stesso ruolo era riservato, ancor prima di Pasquale Libri, a Domenico Libri, persona particolarmente capace nella gestione degli affari, anche se priva di particolari strumenti culturali. Tale percorso ha portato alla figura di Giuseppe De Stefano, figlio di Paolo, che già da ragazzo aveva dimostrato di avere le medesime enormi capacità criminali del padre. Quando in città finisce la seconda guerra di mafia – che dal 1985 al 1991 provocherà una enorme mattanza di circa settecento omicidi – a seguito di una pace difficilissima siglata nel periodo successivo all’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, i grandi capi comprendono che è arrivato il momento di voltare pagina, che quei morti caduti nel corso del conflitto, dietro ai quali si sono registrate strategie molto più sofisticate, non erano serviti a nessuno. Nel corso della discussione del processo Meta ho messo in evidenza che questo percorso è il frutto di scelte ponderate che dovevano soddisfare principalmente un requisito fondamentale: la forma della manifestazione esterna dell’organizzazione criminale, che vive di autorevolezza e di consenso sociale. Per superare le difficoltà operative bisognava restituire il comando ad un discendente diretto della famiglia De Stefano. Ecco perché i grandi capi decidono di restituire a Giuseppe De Stefano, il figlio ormai adulto che aveva dimostrato particolari capacità criminali, il ruolo del padre, indicandolo quale vertice assoluto della componente “visibile” dell’organizzazione criminale. Perché la ‘Ndrangheta, per continuare a svolgere appieno il suo ruolo criminale, conservando anche un pericolosissimo peso sociale, doveva continuare a manifestarsi, ma allo stesso tempo doveva nascondere la sua vera natura di organizzazione segreta: una complessa opera di contemperamento delle diverse esigenze per risultare non troppo nascosta, risultando percepibile, ma non troppo manifesta, per rimanere difficilmente aggredibile nelle sue effettive componenti apicali. (segue)

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Fonte:Antimafiaduemila