New York, tra mito e realtà. Un convegno sulle mafie

di Anna Petrozzi – 30 aprile 2014
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La mafia, nel bene e nel male, è tema di grande fascinazione. Da fenomeno locale, dai tratti folcloristici, a potenza economica internazionale capace di minacciare le democrazie di tutto il mondo: un’evoluzione mostruosa frutto dei geni del male e della debolezza dell’umana natura.
La mafia, nelle sue declinazioni territoriali, uguale e diversa per ogni nazione in cui ha proliferato e prolifera e persino nella sua dimensione fantastica è stata oggetto del convegno “Mafias, reality and representations of organized crime” organizzato dal John D. Calandra Italian American Institute e dal John Jay College of Criminal Justice che si è a New York tenuto il 25 e il 26 aprile scorsi.
Studiosi provenienti da tutto il mondo hanno condiviso i risultati delle proprie ricerche con un approccio prevalentemente accademico, con quel distacco “scientifico” che potrebbe essere un elemento di interesse anche per noi italiani.
Un evento davvero importante, organizzato con l’impeccabile efficienza americana, con un altissimo livello di relazioni che hanno affrontato la questione letteralmente da ogni lato.

mafias-usaDai racconti di Camilleri ai dialoghi del Padrino, dalle differenze di genere allo studio dei dialetti per comprendere le intercettazioni e poi le varie ramificazioni negli Usa: Las Vegas, Philadelphia, San Francisco… E in tutto il mondo: Polonia, Giappone, Cuba e persino Svezia.
Un vero peccato che le sessioni di lavoro fossero contemporanee, scegliere cosa ascoltare è stato tutt’altro che facile.
Partiamo dalle origini, quelle americane.
Ad esportare il sistema mafia, si sa, siamo stati noi italiani con le prime ondate migratorie.
Un virus che ha però attecchito in un terreno fertile già indebolito da forti conflitti tra gangs e corruzione come ha puntualmente spiegato nella sua analisi il giovane studioso inglese Simon May della Coventry University.
L’insediamento della mafia a New York, secondo il prof. Brian Ferguson della Rutgers UniversityNewark ha avuto molto a che fare con il controllo del territorio e la corruzione della polizia prima che questa venisse disciplinata nella famosa NYPD (New York Police Department).
Una nota a parte merita la relazione di Stefano Vaccara, giornalista, direttore del giornale on line “La voce di New York” (www.lavocedinewyork.com) sull’insediamento mafioso a New Orleans.
Qui, secondo il collega, la mafia siciliana ha da subito stabilito gli abituali legami con il potere ad un livello tale, non solo da ricevere la protezione tipica che consente ai boss mafiosi l’ascesa, ma 3anche da essere in grado di partecipare al complotto che ha portato all’omicidio del presidente Kennedy. Vaccara ha scritto un libro sull’argomento tradotto in italiano per Editori Riuniti “Il boss che odiava i Kennedy” (in inglese The man behind the JFK Assassination) nel quale teorizza la responsabilità del boss di New Orleans Carlos Marcello nell’omicidio del presidente prima e del fratello Robert poi.
Se è vero che è nostra l’esportazione del modello mafioso è altrettanto giusto sottolineare che non esiste in tutto il mondo un’azione antimafia cosi articolata e strutturata come quella italiana.
Un’intera sessione di studi è stata dedicata proprio ai movimenti antimafia. Una ricercatrice dell’Università di Uppsala (Svezia) Carina Gunnarson ha condotto una scrupolosa e corposa indagine su Addiopizzo intervistando non solo i membri del movimento ma anche gli imprenditori che hanno denunciato cercando di capirne le ragioni più profonde e le grandi difficoltà. Sorprendente davvero la capacità di questa giovane studiosa svedese di comprendere la complessità della realtà siciliana e di analizzarla con rigore e rispetto.4 Un doveroso spazio è stato dedicato alle origini della lotta antiracket grazie alla ricerca del prof. Gil Fagiani (Italian American Writers Association) relativa all’esperienza di Capo d’Orlando e all’attività di Tano Grasso.
George De Stefano, uno studioso indipendente, ha invece analizzato, oltre ad Addiopizzo, anche realtà di più lungo corso come Libera, e anche la nostra ANTIMAFIADuemila nella doppia veste di quotidiano on-line e come strumento di impegno sociale.
Grande protagonista della lotta antimafia ovviamente anche la fotografia con le splendide immagini di Letizia Battaglia e Franco Zecchin che dopo oltre vent’anni continuano ad essere un punto di riferimento sia per la rilevanza artistica che per il valore civile.
Le sessioni in plenaria, una per ogni giornata, hanno ospitato la brillante relazione della dottoressa Jane Schneider (Mafia Emergence: what kind of State?) del Graduate Center CUNY e un’intervista all’ex ministro Vincenzo Scotti sui temi del suo ultimo libro “Pax mafiosa o guerra?”.
La prof. Schneider ha condotto una comparazione storica, culturale e sociologica della mafia siciliana Cosa Nostra e della mafia giapponese, Yakuza. Gli aspetti in comune sono notevoli e molteplici, dalle profonde radici territoriali al controllo serrato del tessuto economico locale fino alla capacità di influire sui processi democratici e macro economici dell’intero Paese.4-jane-schneider Molto intrigante una delle questioni storiche sollevate dalla studiosa. L’Italia e il Giappone sono uscite entrambe sconfitte dalla seconda guerra mondiale, molto impoverite e con un tessuto economico e sociale disastrato. Eppure nel giro di pochissimi anni sono entrate nel G7 1976 tra i paesi più industrializzati e ricchi del mondo. Nello stesso arco di tempo le due strutture mafiose hanno raggiunto grazie ai loro traffici per lo più indisturbati una ricchezza fantasmagorica molta della quale a tutt’oggi, in questi tempi bui, disponibile in forma liquida.
Un ulteriore elemento a questa riflessione e forse una risposta anche se indiretta è stata fornita dal ricercatore tedesco Frank Jacob dell’Università Heirich Heine di Duesseldorf, da poco trasferito alla New York University.
Nella sua scrupolosa investigazione sulla mafia giapponese ha giustamente posto in risalto il legame che entrambe le mafie hanno avuto con gli Stati Uniti nel processo di ricostruzione dei due Paesi proprio nel dopoguerra soprattutto in funzione anticomunista. Non è una novità infatti che in Italia i fondi del piano Marshall fossero vincolati ad una fedeltà atlantica che ha pesantemente condizionato l’andamento politico e democratico dei governi italiani.
5-petrozzi-amEd è stato proprio seguendo questa linea della connaturata partecipazione della mafia siciliana alla costituzione della Repubblica che si è delineato l’intervento dell’ex ministro Enzo Scotti, al dicastero dell’Interno negli anni che hanno preceduto il biennio stragista del ’92 e del ’93.
Scotti, anche a seguito dell’intervento del collega Giacomo Di Girolamo, impegnato nell’arduo compito di spiegare la trasformazione della mafia da Cosa Nostra a Cosa Grigia e del nostro sulla trattativa stato-mafia, ha voluto ricostruire la condizione storico-politica in cui sono maturate le stragi e in particolare il piano d’azione progettato da Giovanni Falcone e appoggiato da lui stesso e dall’ex Ministro della Giustizia Claudio Martelli quale una delle maggiori componenti scatenanti la vendetta di Cosa Nostra.
Ripercorrendo quegli anni ha voluto spiegare alla gremita platea di studiosi che contro la mafia si possono perseguire due strategie: contenerla e trovare vie di convivenza o fare la guerra per distruggerla. Con Falcone nelle stanze dei bottoni fu subito chiaro quale sarebbe stata la scelta.
“Dopo la morte di Salvo Lima – ha raccontato Scotti – io sono andato in parlamento e ho chiesto ai miei colleghi cosa volevamo fare: la guerra o la pax mafiosa, la convivenza”.
8okLa risposta è arrivata chiara il 1° luglio 1992, Falcone appena assassinato, con l’improvvisa sostituzione di Scotti con Nicola Mancino al Ministero dell’Interno.
Il resto della storia – ha spiegato la sottoscritta per conto di ANTIMAFIADuemila – è oggetto del processo sulla cosiddetta trattativa “Stato-mafia”.
Non è stato affatto semplice cercare di spiegare ad una platea mista, composta da studiosi molto informati anche sull’attualità italiana e altri solo su alcuni aspetti del fenomeno mafioso, la complessità di tutti gli elementi che hanno portato alla sbarra mafiosi di primo rango come Riina e Provenzano, alti ufficiali dei carabinieri, uomini cerniera tra stato e mafia che sono stati anche senatori come Marcello DellUtri e persino un ex Ministro accusato di falsa testimonianza. Ma non tanto per la commistione tra poteri molto chiara e data quasi per scontata da tutti i presenti, quanto per la difficoltà di credere che “l’intreccio”, così come ha battezzato la dottoressa Schneider il rapporto della mafia con le varie istituzioni nella storia, possa essere portato a processo.
Scotti, pur rispettando e distinguendo il ruolo della magistratura, ha insistito sulla necessità di un giudizio anche e soprattutto politico.
6Concordiamo, ma a nostro avviso, questo sarebbe possibile solo se si conoscesse tutta la verità, l’unica imprescindibile condizione per avviare qualsiasi processo di riconciliazione nazionale che potrebbe portare dei veri cambiamenti.
Per raggiungerla però, ha ragione il collega Di Girolamo, ci vorrebbe un pentito vero, una volta tanto non dallo schieramento mafioso, ma quello dello Stato che abbia il coraggio di svelarci tutti i retroscena che hanno portato allo stragismo mafioso eversivo.
Sarebbe finalmente il superamento del paradosso italiano che stava tanto a cuore a Borsellino: la delega in bianco a pochi volenterosi magistrati che hanno il coraggio di percorrere ardimentose strade mai battute per poi farne il bersaglio di qualsivoglia attacco e/o teoria pur di nascondere il ritardo, l’inadeguatezza e la pavidità delle altre componenti sociali. E già che ci siamo costruirci su anche qualche carriera.
Una storia già vista di cui però non tutti gli italiani sono disposti ad accettare il solito epilogo. Mi è stato chiesto se c’è qualche segno di cambiamento in Italia rispetto ad un passato così pesante e gravoso.
10Ho risposto con le parole di Paolo Borsellino che oggi condivido profondamente per aver trascorso molto tempo nelle scuole con i bambini e i ragazzi di tante città di Italia.
“Io sono ottimista – scriveva il giudice la mattina presto del 19 luglio 1992, poche ore prima di essere ucciso – perché vedo che verso di essa (la mafia) i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”.
Aveva ragione e man mano che trascorre il tempo questa attenzione va sempre più aumentando fino a quando diventerà consapevolezza e non avremo più bisogno di tifo e di eroi, come qualsiasi Paese adulto, maturo e civile.

Foto © ACFB

Fonte:Antimafiaduemila