Il paese meno eguale

di Nicola Tranfaglia
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Dobbiamo a uno dei maggiori istituti di ricerca, il CENSIS di Giuseppe De Rita e Giuseppe Roma, un ritratto realistico e molto recente (gli inizi dell’agosto del 2013) del nostro difficile Paese che si tende a torto a dimenticare, soprattutto ora che siamo vicini alle elezioni per il rinnovamento del parlamento dell’Unione europea.
Incominciamo dall’enorme disuguaglianza dei patrimoni personali che affligge gli italiani e che rischia di non avere paragoni rispetto a tutta la parte meglio sviluppata del pianeta (da noi questa si determina soprattutto per l’evasione fiscale e  per la corruzione, mali antichi della nostra storia nazionale, prima e dopo l’Unità).
Nel nostro Paese i dieci uomini più ricchi (tra i quali si trovano imprenditori, donne e uomini di affari e anche un politico che, per la sua grande notorietà, non è il caso di nominare) dispongono di un patrimonio di circa settantacinque miliardi di euro, pari a quello di quasi cinquecentomila famiglie operaie messe insieme. Insomma, poco meno di duemila italiani ricchissimi che sono membri del club mondiale degli ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a cento sessantanove miliardi di euro (senza contare il valore degli immobili): cioè lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella del 4,5% della popolazione totale. In piena crisi economica, oggi il patrimonio di un dirigente è pari a 5,6 per cento volte quello di un operaio mentre vent’anni fa era pari a circa tre volte. Ecco plasticamente le disuguaglianze che caratterizzano oggi il nostro Paese.

Se analizziamo le disuguaglianze dei redditi, scopriamo subito che, rispetto a dodici anni fa, i redditi familiari annui degli operai sono diminuiti, in termini reali, del 17,9 per cento, quelli degli impiegati del 12 per cento, quelli degli imprenditori del 3,7 per cento, mentre i redditi dei dirigenti in ogni settore, pubblico o privato, sono cresciuti dell’uno e cinque per cento. L’uno per cento dei più alti contribuenti si è diviso un reddito annuo netto di oltre quarantadue milioni di euro con redditi netti individuali che volano mediamente sopra i centoventimila euro, mentre il valore medio dei redditi netti dichiarati dai contribuenti italiani non raggiunge i quindicimila euro. Inoltre, negli anni  della crisi (tra il 2006 e il 2012), i consumi annui degli operai si sono ridotti, in termini reali, del dieci e cinque per cento, quelli degli imprenditori del cinque e nove per cento, quelli degli impiegati del quattro e cinque per cento, mentre i consumi dei dirigenti hanno registrato una diminuzione di solo il due e quattro per cento. Il ceto medio piomba in una crisi inedita per gli ultimi decenni e gli operai sono ancora più di una volta al fondo della piramide e così aumentano i pericoli di un nuovo, aspro conflitto sociale.
Per quanto riguarda la misura di cui il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha parlato in lungo e in largo in tutte le occasioni come in tutti i canali televisivi a disposizione, il Censis  ha calcolato i diversi effetti se sono stati una tantum o, invece, come ora sostiene il capo del governo, saranno permanenti. L’Istituto ritiene che, nel primo caso, due milioni e due di beneficiari impiegheranno tutti gli ottanta euro mensili in consumi per una spesa pari a un miliardo e cinque di euro nei primi otto mesi. Altri due milioni e settecentomila di beneficiari useranno il bonus esclusivamente per impieghi diversi dai consumi (pagheranno debiti o risparmieranno) per un ammontare di tre miliardi e trecento milioni di euro. Se invece il bonus sarà permanente, il CENSIS ritiene che l’incremento della stima per consumi nei prossimi otto mesi sarà superiore a tre miliardi e cento milioni nel prossimo anno.
Ci sono due altri aspetti importanti che emergono dall’ultima ricerca del CENSIS: le differenze territoriali nel Paese e la differenza di dimensioni delle famiglie italiane. Avere o non avere figli crea di questi tempi un’immediata disuguaglianza perché la nascita del primo figlio fa aumentare di poco il rischio di finire in povertà (undici per cento nel primo caso, il tredici per cento nel secondo). Ma la nascita del secondo figlio fa quasi raddoppiare il rischio di finire in povertà (ventisei per cento) e la nascita del terzo figlio triplica questo rischio (trentadue e trecentomila per cento). Inoltre avere figli raddoppia il rischio di finire indebitati per mutuo, affitti o bollette o altro rispetto alle coppie senza figli.
Infine se ci spostiamo da un punto all’altro nella penisola, le cose cambiano. Per i residenti nel Sud il rischio di finire in povertà è del trentatré per cento, triplo rispetto a quelli del Nord (dieci e sette per cento) e doppio rispetto a quelli del centro.
Un ritratto impietoso, cari lettori, e non molto diverso da quello non molto ottimistico che ha tracciato di recente Ilvo Diamanti nel suo Un salto nel vuoto. Ritratto politico dell’Italia di oggi, appena uscito da Laterza.

Fonte:Antimafiaduemila