Dai linciaggi mediatico-politici ai conflitti d'attribuzione: Caselli e Ingroia raccontano i loro “Vent'anni contro”

di Aaron Pettinari

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Oltre vent’anni sono passati dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Due ex magistrati, Gian Carlo Caselli ed Antonio Ingroia, nella loro ultima opera, curata da Maurizio De Lucia, tra aneddoti e considerazioni tracciano il filo di una lotta che li ha visti a lungo protagonisti in prima linea contro la mafia, e non solo. Un percorso tra inchieste, processi, imputati più e meno eccellenti, pentiti, che ripercorre la storia del nostro Paese, sempre più pervaso dai capitali mafiosi. E’ questo il contenuto di “Vent’anni Contro”, edito da Laterza, scritto a quattro mani dai due ex magistrati. Ieri sera alla Feltrinelli di Palermo si è tenuta la presentazione all’interno di una sala gremita. Tra il pubblico si scorgono i volti di Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992, ed il pm del pool “trattativa”, Francesco Del Bene. A moderare il dibattito, a cui hanno partecipato l’editrice e politica Gea Schirò e il giornalista Saverio Lodato, il curatore dell’opera, il cronista Maurizio De Luca.

Tra “ragione di Stato” e “ragione di legge”
E’ toccato a Lodato, firma storica del giornalismo antimafia, sintetizzare quanto avvenuto in tanti anni di indagini. “Nel libro di Ingroia e Caselli – dice – C’è una frase che fotografa esattamente il punto in cui siamo oggi. Quella in cui si parla del contrasto aperto tra ‘ragioni di Stato’ e ‘ragioni della legge’. Il problema per cui in Italia, dopo 150 anni, c’è ancora la mafia sta proprio in questa frase in quanto solo nel nostro Paese possono non coincidere. Altro aspetto da considerare è che, se mai ci fosse stata una partita contro la mafia questa non è mai stata a due, ma a tre. Da una parte c’era la mafia con alle spalle lo Stato. Dall’altra lo Stato con alle spalle la mafia. E nel mezzo rappresentanti dello Stato che individualmente, mettendosi spesso assieme, ritenevano che bisognasse rischiare in prima persona per mettere in discussione la partita truccata”. Nell’effettuare la sua analisi Lodato ha anche ricordato alcuni episodi avvenuti nel tempo come quando Emanuele De Francesco, all’inizio degli anni ’80 Alto commissario all’antimafia, disse che la mafia non sarebbe stata sconfitta prima del 2014, oppure a quella domanda che lo stesso Lodato, assieme a Francesco Viviano, fece ad Arnaldo La Barbera, appena atterrato a Punta Raisi. “La Barbera era uomo di Domenico Sica (Alto commissario a Palermo dall’agosto 1988, a sua volta mandato dall’allora ministro degli interni Gava, che disse di non sapere nulla della mafia). Noi chiedemmo una cosa semplice. ‘Lei cosa è venuto a fare?’. Lui rispose ‘Son qui per combattere gli intoccabili e non solo gli intoccabili di mafia ma anche gli intoccabili dell’antimafia’. A quel punto per noi fu chiaro il fatto che da una parte c’era la mafia con alle spalle lo Stato, che dall’altra c’era uno Stato con alle spalle la mafia ed in mezzo una parte della magistratura, della polizia, dei carabinieri, dei politici, degli imprenditori che decidono di unirsi per cercare di capovolgere l’andazzo di queste cose”.
Lodato ha poi diviso gli anni della lotta alla mafia in quattro fasi “la prima che va dall’inizio del novecento fino agli anni settanta dove si negava l’esistenza della mafia. Una seconda che dagli anni ’70 arriva alla prima vittoria contro la mafia militare, il maxi processo, gli anni del pool, di Falcone, Borsellino, Caponnetto, di tanti altri investigatori e magistrati che idealmente hanno fatto parte di quel pool, dicollaboratori di giustizia come Buscetta che hanno disegnato la

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mappa di quel mondo segreto che si basava sul principio dell’omertà. Poi ci sono state le stragi con Falcone e Borsellino che sono stati uccisi nel momento in cui l’isolamento nei loro confronti era al culmine. La terza fase è quella post stragi, con Caselli a capo della Procura di Palermo che ha portato ai processi contro la politica, su tutti il processo Andreotti. Una fase che si protrae fino a quando Caselli viene costretto a lasciare la Procura di Palermo senza permettergli di diventare procuratore nazionale antimafia tramite una legge contra personam. Quindi c’è la fase dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che arriva fino ai giorni nostri. Una fase che ha visto gli attacchi nei confronti dei magistrati che hanno condotto le indagini, tra cui lo stesso Antonio Ingroia. Oggi che il processo è iniziato c’è questo grave tentativo da parte di intellettuali i quali usano la propria professionalità per sostenere che la trattativa ci sia stata ma che sia giustificata, che non c’è niente di male a trattare con il nemico quando il Paese è in ginocchio. Quindi è entrato in campo anche un convitato di pietra, il Capo dello Stato, che ha cercato di porre una pietra tombale affinché non si vada oltre su questa indagine”.

Il conflitto d’attribuzione e lo stop alle indagini sulla trattativa
Senza dover più sottostare ai vincoli d’esposizione che il ruolo del pm determina, Antonio Ingroia ha ripercorso le fasi della vicenda trattativa Stato-mafia parlando anche delle difficoltà incontrate in fase d’indagine. “Non a caso il ventennio berlusconiano, coincide col ventennio raccontato nel libro – racconta l’ex pm – perché furono quelli gli anni dell’impunità e della pretesa di una classe dirigente di sottrarsi al principio di responsabilità. Berlusconi lo si trova sullo sfondo della vicenda della trattativa, che nasce nel 1992, nel pieno della stagione stragista, per poi svilupparsi fino alla conclusione nel 1994 con il patto di convivenza politico mafioso siglato con Silvio Berlusconi presidente del Consiglio. Un patto che ha contrassegnato anche il ventennio successivo su cui non si può gettare la croce sulle spalle del solo Berlusconi ma che vede anche altri politici coinvolti nel rinnovo della cambiale con la mafia”. Parlando dei tanti tentativi di contrastare le indagini Ingroia ha ricordato: “Durante le indagini la consapevolezza a cui siamo giunti è quella di trovarci di fronte a un ruolo organico del ruolo dello Stato con il potere criminale. Andreotti ne è stata la rappresentazione storica. La vicenda della trattativa ne è la rappresentazione corale. Quel che è più impressionante è che nessuno è senza colpa. Ci sono pezzi della politica, degli apparati istituzionali e nessuno l’ha fatto per infedeltà individuale. Noi capimmo che non avevamo di fronte delle collusioni su cui fare pulizia. Quello che abbiamo di fronte è una compenetrazione tra potere criminale e Stato che non consente alla magistratura di accertare la verità. Ci siamo trovati di fronte non solo delle mele marce in odore di collusione, ma proprio di fronte un più generale rapporto organico. Nella vicenda della trattativa Stato-mafia nessuno è esente da colpe e personalmente sono molto scettico che la classe politica in queste condizioni accetti e dica la verità. Il conflitto di attribuzione sollevato dal presidente Napolitano non è semplicemente una scelta infelice, ma ben mirata e non per motivi personali ma da uomo di stato fatta per proteggere lo stato. Difatti l’indagine ha avuto una significativa battuta di arresto. Ed è stata una scelta di un uomo di Stato che ritiene di dover difendere la verità dello Stato da una magistratura che va al di la dei limiti assegnati perché alla magistratura è consentito accertare la verità purché sia compatibile con il sistema. Se così non è ecco pressioni, provvedimenti disciplinari e quant’altro”.
Il conflitto davanti alla Corte costituzionale, secondo Ingroia, ha lasciato trasparire il messaggio che “il vento è cambiato”. “Gli uomini di Cosa nostra e gli uomini dello Stato – ha concluso Ingroia – lo hanno capito e non parlano più con la Procura di Palermo. E così la falla che si era aperta nel muro di gomma dell’omertà di mafia e Stato che si sono compenetrate si è subito richiusa e così restando le cose diviene difficile fare nuovi passi avanti. Con questo non dico che il processo avrà esito negativo come dice il professor Arlacchi. Ma mi riferisco alle altre

 

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verità che sono rimaste sottratte ancora. C’è uno sbarramento e o si crea una mobilitazione incisiva e collettiva che a spallate cambia la politica di oggi oppure dovremo aspettare un prossimo ciclo”.
E sul libro di Fiandaca e Lupo commenta: “Dire che la trattativa è legittima e avviare un dibattito sulla legittimità della trattativa a fin di bene è forviante e stravolge la realtà delle cose. Quella fu una trattativa a fin di casta che nasce su iniziativa di un uomo politico, di un ministro in carica, il ministro Mannino, che attiva per salvare la vita sua e quella dei politici che erano stati condannati a morte da Cosa nostra i servizi segreti, le forze dell’ordine, i carabinieri, che manda da Ciancimino in missione per sapere cosa voleva la mafia per risparmiare la vita ai politici. E poi, ammesso che questa sia stata fatta per salvare delle vite umane, si dimentica che risparmiando le vite umane la strategia stragista è stata deviata verso altre vittime con le stragi di via d’Amelio e le successive in continente in cui hanno perso la vita uomini, donne e bambini”.
Infine è intervenuto l’ex procuratore di Torino, Caselli il quale ha criticato il “linciaggio incivile” nei confronti dei magistrati impegnati nelle indagini sulle stragi di vent’anni fa, a partire dall’accusa di “fare politica”. L’ex magistrato, oggi in pensione, non ha parlato del tema trattativa ma ha comunque sottolineato il proprio elogio nei confronti dei magistrati dell’accusa i quali “sono andati avanti nella consapevolezza che quella strada intrapresa avrebbe sollevato problemi, ma l’hanno intrapresa per un servizio alla verità”. Caselli si è soffermato in altri temi inseriti all’interno del libro sottolineando la necessità di una riforma della giustizia complessiva. “Un gradone importante della lotta alla mafia si scalò dopo le stragi quando Buscetta sceglie di parlare di quelle cose che aveva solo accennato a Falcone. Partì per noi un ‘nuovo mondo’ che portò ad una serie di inchieste importanti con il rinvio a giudizio di Andreotti, Contrada, Mannino, Carnevale, Musotto e via seguitando. Anche nei casi di assoluzione le sentenze hanno dimostrato il riconoscimento dei fatti rappresentati dall’accusa. E nei nostri confronti ci fu un attacco specifico dicendo che Falcone e Borsellino certi processi non li avrebbero fatti. Io sono convinto che invece sarebbero andati anche loro a fondo su certe cose perché erano persone serie e che non temevano i rischi di certe indagini. E chi dice che Falcone non avrebbe portato a giudizio certe vicende, parla a vanvera”. Caselli ha poi manifestato come in quest’ultima fase, oltre al processo trattativa, vi sia un’impennata di inchieste sull’espansione delle mafie al nord e al centro Italia. Inchieste, in Lombardia, in Ligura ed in Piemonte arrivate anche a processo.

Le polemiche sulla trattativa come quelle per Andreotti e Dell’Utri
Gian Carlo Caselli ha poi sottolineato come la polemica che oggi vede sotto i riflettori i pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia non rappresenti nulla di nuovo rispetto al passato: “Ricordo le polemiche per i processi ad Andreotti o Dell’Utri. Su questi processi c’è stato e c’è ancora oggi il silenzio o peggio il ribaltamento e lo stravolgimento delle verità. Prendiamo Andreotti. La corte di Cassazione lo ha ritenuto colpevole fino al 1980 e non è condannabile in quanto il reato è prescritto. Anche Dell’Utri, condannato in appello ed ora in attesa del giudizio finale della cassazione, ha già riconosciuta dalla suprema corte la propria colpevolezza per i fatti fino al 1978. E’ scritto nella sentenza che ha annullato il primo giudizio in appello specificando che il rinnovamento doveva avvenire per i fatti, le vicende, i comportamenti successivi al 1978”. “Se non si parla di queste cose – ha concluso Caselli – è come non voler parlare dei rapporti mafia-politica.

 

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Non è possibile non parlare di Andreotti, punto centrale e nevralgico nella storia politica italiana, o di Dell’Utri, punto centrale dell’imprenditoria e poi della politica in quanto vicino a Silvio Berlusconi. Se non si parla di queste cose o si manifesta un’ostilità pregiudiziale nei confronti dei magistrati coraggiosi che fanno parte dell’accusa del processo trattativa si commette un errore. Se non parliamo delle stagioni torbide che hanno contrassegnato la nostra storia le cancello e al tempo stesso le legittimo. Ciò rappresenta un rischio per cui non arriveremo mai alla verità, e la nostra democrazia sarà debole o appannata”.

fonte da:antimafiaduemila.com