Assoluzione Mori-Obinu: l'appello della Procura di Palermo / 2a parte

di Lorenzo Baldo
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In una sorta di “black-list” vengono focalizzate ulteriori note negative della motivazione della sentenza di assoluzione per Mario Mori e Mauro Obinu. Dai pregiudizi della Corte nei confronti dei collaboratori di giustizia come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Gaspare Spatuzza e Stefano Lo Verso, fino alle più improbabili interpretazioni del Collegio giudicante in merito a questioni delicatissime come la trattativa Stato-mafia e la stessa strage di Via D’Amelio. “Il Tribunale – scrive Di Matteo mentre cita l’incontro al Ministero tra Giuseppe De Donno e Liliana Ferraro – sembra inopinatamente giustificare la condotta del colonnello Mori e del capitano De Donno, anche prescindendo dalle rispettive specifiche connotazioni e peculiarità, solo in considerazione del ritenuto scopo di ‘evitare le stragi’. Come se tale finalizzazione potesse aprioristicamente far venir meno l’antigiuridicità dei comportamenti”. Di Matteo sottolinea in seguito la gravità delle affermazioni del Tribunale in merito alla presunta “tardività” delle dichiarazioni della signora Agnese Borsellino, relativamente alle gravissime confidenze che il marito Paolo Borsellino le aveva fatto sul conto del generale Subranni (“mi hanno detto che è punciutu”, ndr). “Il Tribunale – si legge nel documento – ha completamente omesso di valutare le ragioni di cautela e di protezione per sé stessa e per i suoi familiari che il teste (già profondamente provata dalla strage di via d’Amelio) ha inizialmente, comprensibilmente, privilegiato rispetto all’esigenza di riferire immediatamente il dato in questione”. “Alla stessa stregua non può condividersi quanto il Tribunale ha sostenuto sul ‘silenzio serbato dallo stesso dottor Borsellino, che avrebbe dovuto mettere immediatamente sull’avviso almeno i colleghi che gli erano più vicini, quanto meno per evitare che gli stessi facessero (erroneamente) affidamento sul generale Subranni’”. “In realtà – sottolinea Di Matteo – il brevissimo lasso di tempo (dal 15 luglio, giorno in cui riferì alla moglie le notizie appena apprese, al 19 luglio, quando si verificò la strage di via d’Amelio) priva di ogni fondamento il ragionamento del Tribunale e l’improprio significato che la sentenza vorrebbe attribuire al fatto che non risulta che in quei pochi e assai convulsi giorni il dottor Borsellino abbia rivelato anche ad altri colleghi le sue gravissime perplessità sul generale Subranni”. Un ulteriore affondo nei confronti della sentenza riguarda poi la questione della tempistica tra le stragi di Capaci e Via D’Amelio. “Il Tribunale – sottolinea il pm –, nel sostenere incidentalmente che non risultano fattori di ‘accelerazione’ del progetto di attentato nei confronti del dottor Borsellino, ignora clamorosamente che ‘tale improvvisa accelerazione’ è invece riconosciuta come provata, anche sulla base di precise dichiarazioni di collaboratori di giustizia autoaccusatisi della strage, in almeno due sentenze definitive che hanno rispettivamente riguardato i dibattimenti c.d. ‘Via D’Amelio bis’ e ‘Via D’Amelio ter’ già celebrati innanzi alle Corti di Assise di primo e secondo grado di Caltanissetta”.

Il pregiudizio su Massimo Ciancimino
Il sostituto procuratore di Palermo spiega successivamente che “per formulare in termini troppo drastici il suo giudizio di ‘precaria attendibilità’ di tutte le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il Tribunale enfatizza ogni divergenza, anche quelle minime e relative ad aspetti non fondamentali, tra le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e quelle rese nel lungo esame dibattimentale”. “Sul punto la sentenza non tiene conto né della possibile ‘buona fede’ del teste assistito (che peraltro per lo più riferisce fatti che gli sono stati narrati da altri e che non ha vissuto personalmente) né di un ulteriore dato che lo stesso Ciancimino ha più volte ribadito nel corso del dibattimento (e che ha indotto quest’Ufficio, per mera esigenza di chiarezza e lealtà nei confronti della difesa e del Tribunale, a proporre il realizzato accordo acquisitivo di tutte le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari)”. Di Matteo evidenzia quindi che Ciancimino jr  ha iniziato a rispondere alle domande dell’Autorità Giudiziaria nel 2008, “senza palesare una volontà pienamente collaborativa, evitando accuratamente, almeno inizialmente, di affrontare con le sue risposte determinati argomenti particolarmente delicati ed aprendosi solo gradualmente e parzialmente ad un’esigenza di maggiore chiarezza ed esaustività delle dichiarazioni. Con queste premesse l’evidenziazione in sentenza di ogni contraddizione o progressione investigativa del dichiarante appare eccessivamente indirizzata a rappresentare un quadro di totale inaffidabilità rispetto ad una situazione che merita di essere più analiticamente e ‘laicamente’ affrontata con riferimento all’acquisizione di riscontri, parziali ma significativi, almeno ad una parte delle dichiarazioni del Ciancimino”.

Discrasie, contraddizioni e incoerenza argomentativa
“Nella valutazione delle discrasie e delle contraddizioni anche interne delle versioni del colonnello Mori e del capitano De Donno – si legge ancora nel documento – in ordine alla genesi ed allo sviluppo dei loro contatti con Vito Ciancimino, il Tribunale finisce per dimostrare la sua incoerenza argomentativa”. “Ed infatti, rispetto ad accadimenti certamente importanti e non di ‘routine’ nell’attività di un ufficiale dei Carabinieri, il Tribunale si limita a sottolineare ‘la difficoltà di rammentare esattamente’ finendo per ritenere che ‘la presenza di discordanze di dettaglio tra le versioni del Mori e del De Donno possa essere apprezzata quale indice di genuinità’. Eppure analoghe considerazioni non vengono mai svolte in relazione alle eventuali divergenze di dettaglio che caratterizzano la versione di testi utili alla dimostrazione della tesi d’accusa”. Di fatto viene ulteriormente evidenziato come il Tribunale non abbia valorizzato i due manoscritti di Vito Ciancimino nei quali vi erano espliciti riferimenti agli imputati Mori e De Donno.
“I documenti in questione – specifica Di Matteo –, dei quali è stata accertata l’originalità, la mancanza di ogni sospetto di manomissione e la certa riconducibilità a Vito Ciancimino, comprovano due aspetti fondamentali: già Vito Ciancimino (ben prima che lo facesse il figlio Massimo con le dichiarazioni rese a partire del 2008) sottolineava che la versione di Mori e De Donno sull’epoca ed i contenuti dei loro incontri con l’ex sindaco non era veritiera”. “La seconda circostanza è ancora più significativa. Vito Ciancimino scrive che gli avvocati degli imputati di mafia – appunto perché informati dai loro clienti – lo avevano chiamato a deporre per dimostrare la falsità delle dichiarazioni di Mori e De Donno al processo per le stragi di Firenze. Ciò riveste particolare importanza ove si pensi che l’istruttoria dibattimentale ha consentito di accertare che effettivamente la testimonianza di Vito Ciancimino era stata sollecitata al processo per le stragi del 1993 dai difensori di Giuseppe Graviano e Salvatore Riina”. “Le riflessioni manoscritte  da Vito Ciancimino – sottolinea il pm – indirettamente indicavano la consapevolezza che Riina e Graviano evidentemente avevano del reale contenuto delle interlocuzioni con i Carabinieri, certamente non conforme a quello già all’epoca rappresentato da Mori e De Donno. Vito Ciancimino nella circostanza della sua deposizione innanzi alla Corte di Assise di Firenze all’udienza del 13 ottobre 1999 del processo nei confronti di Graviano Giuseppe + 3 si avvalse della facoltà di non rispondere perché, come egli stesso annotò nel manoscritto acquisito agli atti, ‘non era ancora maturato il tempo per dire la verità’”.

Papelli e contropapelli
Dopo aver sottolineato la grave svalutazione del Tribunale nei confronti dei riscontri effettivi sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino relative al mancato sequestro del “papello” nel 2005, Di Matteo rimarca la gravità di una “ingiustificata sottovalutazione” relativa alle dichiarazioni (su quello stesso argomento) rese del maresciallo dei carabinieri Saverio Masi. “In sentenza, in particolare, non si valorizza adeguatamente il parziale ma significativo riscontro che alle dichiarazioni di Masi forniscono le testimonianze del giornalista Saverio Lodato e del carabiniere Emanuele Lecca. Il Tribunale invece, del tutto irritualmente, recepisce pedissequamente la contrastante versione che il colonnello Sottili (oggetto delle accuse del teste Masi) ha fornito non in esito ad un regolare esame reso nel contraddittorio tra le parti (attività che non è stata oggetto di richiesta delle parti né tantomeno di decisione autonoma del Tribunale) bensì esclusivamente con una lettera indirizzata al Presidente del Tribunale, da questi inserita nel fascicolo per il dibattimento e successivamente ampiamente utilizzata per la decisione”.

Quel “sostegno politico”
In merito alle dichiarazioni rese in dibattimento da Liliana Ferraro “caratterizzate dal tentativo di sminuire ed attenuare la portata accusatoria di quelle precedentemente rese in fase di indagini preliminari a proposito della visita del capitano De Donno nel giugno del 1992”, Di Matteo specifica che la Corte “pur dovendo riconoscere ‘le oscillazioni e gli ondeggiamenti del teste’, li definisce comprensibili perché risalenti ‘a dettagli di una conversazione avvenuta parecchi anni prima’”. “La sentenza invece trascura del tutto l’aspetto più importante dell’incontro tra il De Donno e la Ferraro che avrebbe dovuto correttamente individuare nella richiesta di quel sostegno politico assolutamente incompatibile ed inspiegabile con un’attività di tipo investigativo ed invece certamente inquadrabile nell’ottica di una vera e propria trattativa così come descritta da Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino”. “Clamorosamente – sottolinea Di Matteo – la sentenza accredita la versione di De Donno sulla finalizzazione del suo contatto con la Ferraro ad una richiesta di sostegno economico. Versione assolutamente risibile”. Il pm successivamente “non ritiene giustificato” il giudizio “sostanzialmente negativo” del Tribunale nei confronti di Claudio Martelli. “Anche nella valutazione – si legge nel documento – delle importanti affermazioni di Giovanni Ciancimino (che costituiscono un importante riscontro a quelle del fratello Massimo sia sulla datazione esatta del dialogo tra i Carabinieri ed il padre Vito, che sul reale contenuto di quelle interlocuzioni consistenti in una vera e propria trattativa) il Tribunale erroneamente ipotizza una compiacenza del teste nei confronti del fratello Massimo. Atteggiamento che, nei fatti, non risulta ancorato ad alcun dato specifico, posto che i rapporti di Massimo Ciancimino con i fratelli appaiono semmai improntati ad astio e reciproca recriminazione”. “Non si capisce poi – si chiede Di Matteo – per quale ragione il Tribunale consideri non credibile il fatto che Giovanni Ciancimino avesse reagito rabbiosamente alle prime comunicazioni del padre nella sostanza ammissive dell’esistenza e della pregnanza dei suoi rapporti con Cosa Nostra”. Di fatto la Corte aveva già trascurato “la fondamentale importanza” della testimonianza di Luciano Violante ed in particolare “del suo preciso, benchè tardivo, ricordo dell’insistenza del colonnello Mori per organizzare per motivi politici un incontro riservato tra Vito Ciancimino e lo stesso Violante”.

La trattativa di Giovanni Brusca
“Il Tribunale – scrive ancora il pm –, nello svalutare il fondamentale contributo di Giovanni Brusca, trascura alcuni importanti riscontri alle sue dichiarazioni sull’esistenza, il contenuto, la datazione ed i destinatari politici delle richieste consacrate nel papello. Ci si riferisce alle, sostanzialmente corrispondenti, dichiarazioni di Salvatore Cancemi, a quelle di Massimo Ciancimino, nonché al contenuto di documentazione (il c.d. “contropapello”) di certa riferibilità a Vito Ciancimino e nella quale è indicato il Ministro Mancino come destinatario finale delle richieste nell’interesse di Cosa Nostra”. Secondo la ricostruzione del sostituto procuratore la Corte “minimizzando colpevolmente i dati emersi dal compendio probatorio, riconduce sostanzialmente i contatti di Mori  e De Donno con Vito Ciancimino al ‘semplice tentativo di ottenere qualche informazione utile alle investigazioni, profittando della sua personale posizione di debolezza determinata dall’incalzare dei processi in corso a suo carico’”. Per Di Matteo la suddetta considerazione “è clamorosamente smentita non solo dalle conclusioni, consacrate nella sentenza definitiva del processo di Firenze nei confronti di Bagarella + 25, ma ancor prima dalle stesse dichiarazioni dei predetti Mori e De Donno in quel contesto dibattimentale. Ed infatti, sentiti come testimoni innanzi alla Corte di Assise di Firenze, all’epoca gli ufficiali dei Carabinieri non solo utilizzarono più volte entrambi il termine ‘trattativa’ per descrivere i contenuti della loro interlocuzione con l’ex sindaco di Palermo ma, fatto ancora più significativo, descrissero quei dialoghi come estrinsecazione progressiva di proposte e controproposte reciproche per ‘cercare un dialogo con il vertice di Cosa Nostra per far venire meno il muro contro muro tra Stato e mafia’. Non si riesce allora proprio a comprendere come il Tribunale oggi arrivi a definire la condotta del colonnello Mori e del capitano De Donno come un semplice tentativo di acquisire utili informazioni investigative”.

41 bis e dintorni
Per il sostituto procuratore di Palermo la Corte “nel valutare l’asserita scarsa probabilità della datazione del ‘papello’ ad epoca antecedente la strage di via D’Amelio, valorizza eccessivamente la circostanza che le prime applicazioni del regime introdotto dall’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario si realizzarono immediatamente dopo il 19 luglio 1992”. “Tale argomentare – si legge ancora – trascura quanto risulta ampiamente dall’istruzione dibattimentale a proposito del fatto che già immediatamente dopo la previsione del regime differenziato (con il D.L. dell’8 giugno 1992) gli ambienti della criminalità organizzata avevano immediatamente percepito la gravità delle conseguenze di quella norma. In tal senso depongono inequivocabilmente le violente polemiche e proteste che sfociarono in iniziative particolarmente forti degli avvocati penalisti e dei detenuti all’interno delle carceri”. Ecco quindi che in merito alla famosa lettera dei familiari dei detenuti mafiosi a Pianosa e all’Asinara, il Tribunale “ingiustificatamente sminuisce, anzi finisce per escludere, la prospettazione di una minaccia che invece appare evidente e violenta nei confronti del Capo dello Stato e di altre autorità politiche ed ecclesiastiche”.

Il “torto” di Nicolò Amato
Il pm ribadisce quindi che a proposito delle vicende connesse all’applicazione del 41 bis ed, ancor prima, alla sostituzione al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Nicolò Amato con Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio, il Tribunale “incorre in alcuni fondamentali errori di valutazione”. “Ed infatti non può certo ritenersi (come invece si fa in sentenza) che il dottor Amato fosse favorevole all’abolizione o ad un ammorbidimento del 41 bis e che ciò fosse desumibile dalla nota a sua firma inviata al Gabinetto del Ministro il 6 marzo 1993. L’attenta lettura di quella relazione dimostra semmai il contrario”. “Amato (che ebbe il ‘torto’ di avere rappresentato per iscritto la contrarietà del Capo della Polizia e di ambienti del Ministero dell’Interno al mantenimento del regime detentivo differenziato) voleva rendere ancora più duro ed effettivo l’isolamento carcerario del boss mafiosi. Tanto da prospettare l’introduzione di due fondamentali regole che in effetti, solo molto tempo dopo, vennero introdotte per rendere più incisivo il 41 bis: la partecipazione ai processi mediante il sistema delle video conferenze (che avrebbe posto fine al c.d. ‘turismo giudiziario’ che inevitabilmente consentiva al detenuto al 41 bis di incontrare altri mafiosi in occasione delle traduzioni e della partecipazione ai processi) e l’obbligo della registrazione dei colloqui con i familiari. Altro che atteggiamento morbido sul 41 bis!”. Il pm evidenzia di seguito che lo stesso Amato “voleva effettivamente garantire l’interruzione di ogni possibilità dei capi mafia detenuti di continuare a comandare dal carcere. Poco tempo dopo però egli venne allontanato dall’incarico di direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che ricopriva da oltre 10 anni”. Conseguentemente Di Matteo sottolinea come “non appare condivisibile l’evidente minimizzazione che il Tribunale opera del significato probatorio del contenuto della nota del direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, diretta al Gabinetto del Ministro in data 26 giugno 1993”. “Quella stessa nota che si caratterizza per la proposta di non rinnovare ulteriormente i decreti di 41 bis emanati dal direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e di abbattere indiscriminatamente, nella misura del 10%, il numero dei detenuti già sottoposti al 41 bis in esito ad un decreto direttamente emanato dal Ministro”. Per Di Matteo quindi il Tribunale “sottovaluta e distorce il significato della finalizzazione di tali proposte a ‘lanciare un segnale di distensione’. In particolare non si condivide la tesi rappresentata in sentenza per la quale il segnale di distensione era rivolto a normalizzare una situazione carceraria che in realtà in quel momento (così come ha rappresentato il teste Ardita, già Capo dell’ufficio detenuti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) non presentava alcuna criticità né si caratterizzava per la presenza di focolai di protesta carceraria”.

La “solitudine” di Conso
“L’interpretazione del Tribunale – specifica ulteriormente Di Matteo – confligge con un’acquisizione probatoria ancor più decisiva consistente nelle dichiarazioni rese dallo stesso Ministro di Grazia e Giustizia professor Conso alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’esponente politico, assumendosi la piena ed esclusiva paternità della scelta di accogliere la proposta del segnale di distensione non prorogando 334 decreti di sottoposizione al 41 bis in scadenza dal 1° novembre 1993, ha espressamente ammesso che in tal modo si voleva dare un segnale all’esterno per indurre i capi mafia ancora in libertà, e tra questi in primis Bernardo Provenzano, ad abbandonare definitivamente la linea dello scontro con lo Stato”. “Non si condivide il giudizio del Tribunale – specifica il magistrato – per il quale ‘deve fortemente dubitarsi che quel parziale cedimento potesse acquietare le gerarchie mafiose e fosse, pertanto, il risultato di un accordo’. In realtà lo spessore criminale di molti dei detenuti per i quali venne meno il regime del carcere duro costituiva, agli occhi del vertice mafioso, un soddisfacente segnale di cedimento dello Stato e di corrispettivo incoraggiamento ad andare avanti con la strategia della minaccia e del ricatto”. “Non si dimentichi – viene ribadito nel documento – che in quel momento erano ancora liberi Provenzano, Brusca, Bagarella, Biondino, i fratelli Graviano, Pietro Aglieri, Raffaele Ganci e i suoi figli, nonché numerosi altri esponenti di vertice di Cosa Nostra, mentre Riina e Santapaola erano stati da poco arrestati ed un’eventuale revoca del 41 bis nei loro confronti sarebbe stata difficilmente sostenibile anche nei confronti dell’opinione pubblica”.

Il ruolo di Francesco Di Maggio
Il pm sottolinea successivamente che la Corte “erroneamente e colpevolmente, sminuisce il ruolo del dottor Di Maggio e conseguentemente la sua decisiva importanza nell’adozione del ‘segnale di distensione’”. “La sentenza – si legge ancora – non valorizza quanto indubitabilmente emerso dal compendio probatorio in ordine a diversi punti nevralgici della questione: il peso politico dell’influenza del Presidente Scalfaro e del Ministro Conso nella scelta di nominare il dottor Di Maggio Vice Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’anomalia di tale nomina realizzata in favore di un magistrato che non possedeva i requisiti prescritti dalla legge, il ruolo assolutamente preponderante che il Di Maggio di fatto assunse (anche nei confronti del dottor Capriotti) all’interno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con particolare riferimento alla tematica del 41 bis, il consolidato ed importante rapporto diretto e personale del dottor Di Maggio con esponenti apicali dei servizi di sicurezza e con l’odierno imputato Mori, le perplessità espresse da Di Maggio nei confronti dei suoi colleghi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che, poco prima della scadenza del primo blocco di decreti di 41 bis non prorogati, avevano comunque chiesto un parere alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo”. “Tutti elementi – specifica ulteriormente Di Matteo – che avrebbero dovuto indurre il Tribunale a considerare diversamente il ruolo del Di Maggio, e quindi indirettamente dell’odierno imputato Mori, nelle vicende del 1993 riguardanti l’applicazione del regime detentivo di carcere duro per i mafiosi”.

Conclusioni
“Anche le considerazioni sopra sinteticamente richiamate (concernenti il tema della trattativa e del coinvolgimento dell’imputato Mori in alcuni passaggi fondamentali della interlocuzione tra organismi istituzionali e vertici di Cosa Nostra) – conclude il pm – contribuiscono ulteriormente a delineare, indicandone i motivi, la condotta contestata agli imputati, come pienamente integrante (sia per l’aspetto oggettivo che per quello psicologico) il reato di favoreggiamento pluriaggravato ad entrambi contestato”. Queste conclusioni anticipano quello che sarà il processo di Appello nei confronti di Mori e Obinu nel quale lo stesso Di Matteo ha chiesto di poter essere applicato al fianco di un sostituto procuratore generale. Si apre quindi un nuovo capitolo di una saga degna di uno Stato-canaglia dove gli “intoccabili” imperversano e fanno carriera. A discapito della verità e della giustizia.

fonte:antimafiaduemila.com