La mia lettera al Consiglio Superiore della Magistratura

di Antonio Ingroia – 23 luglio 2013
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Ritengo doveroso, per ragioni di trasparenza e per rispetto della mia stessa biografia professionale, rendere noti i motivi che, al termine di una travagliata e scrupolosa riflessione, mi hanno indotto a non ripresentarmi nella sede assegnatami da codesto Consiglio al fine di riprendere servizio dopo un periodo di congedo ordinario.
Chiarisco subito di essere ben consapevole della serietà delle conseguenze per la mia carriera derivanti da questa scelta e che, nonostante ciò, resto persuaso della sua inevitabilità nelle condizioni date.
Non è certo venuto meno l’amore per la Magistratura né per l’attività che per oltre un quarto di secolo, sotto la guida di eroici Maestri ed altri stimati Colleghi, ho svolto. Egualmente rimane vivo in me il senso di servizio alla collettività ed alla vita democratica dell’Italia che questi lunghi anni mi hanno consentito di realizzare: spero di esservi riuscito. Nulla poteva darmi maggiore orgogliosa soddisfazione, che trasmetto in eredità morale alla mia famiglia, che adempiere da Magistrato il dovere di impegno civile a favore del rinato senso di legalità e della libertà dai vincoli della criminalità organizzata e delle sue propaggini anche nelle istituzioni.
Non posso rimproverarmi difetto di entusiasmo o esiguità di dedizione a questa causa. Ho fiducia che non mi si addebiti il sospetto che questo impegno fosse strumentale al conseguimento di vantaggi personali o nascondesse intenti persecutori. Sono confortato in questa speranza dagli apprezzamenti e dalla considerazione, pubblica e privata, di cui ho goduto fino a pochi mesi fa nell’Ordine Giudiziario e presso suoi autorevoli appartenenti.

Questi apprezzamenti sono sempre stati motivo di incoraggiamento a proseguire lungo la strada del perseguimento dei valori in me inculcati da Chi mi ha insegnato che certi momenti e talune circostanze sociali esigono atti di abnegazione e sacrificio che lambiscono, per superare, nel caso di Paolo Borsellino, i confini della vita.
Dall’anno scorso, ho purtroppo notato, con amarezza e dispiacere, che un senso di crescente insofferenza nei confronti della mia attività giudiziaria e delle stesse manifestazioni della fondamentale libertà di espressione pubblica del mio pensiero – nel tempo sempre garantitemi senza contestazioni o dubbi – gravava sulla mia persona, fino a divenire corale critica anche da parte di chi aveva in passato mostrato sentimenti di stima.
Qualunque mia scelta, professionale o di partecipazione alla vita pubblica, lungi dall’essere tranquillamente tollerata, come accade per molti altri Magistrati, è gradualmente divenuta fonte di denigrazione, screditamento, delegittimazione della mia storia professionale. Da mesi avverto di essere divenuto un ghiotto bersaglio per detrattori non solo della mia persona, ma anche delle azioni – alcune ancora in corso di svolgimento nella competente sede giurisdizionale – poste in essere dal mio precedente Ufficio di appartenenza, la Procura della Repubblica di Palermo.
Mi sono in tal modo trovato caricato anche del fardello di una colpa collettiva, quasi avessi, anche solo con le mie idee, contaminato un’intera attività istituzionale.
Questo senso di straniamento, che non ha mai, però, portato in me affievolimento dell’affezione verso la funzione giudiziaria, si è di recente acuito, fino a diventare intollerabile ed umiliante peso allorché, dopo una legittima partecipazione (insieme a non pochi altri Magistrati, molti dei quali ormai siedono in Parlamento da più legislature) alle elezioni politiche, mi è stata assegnata d’ufficio una sede per il ricollocamento in ruolo diversa da quella che l’ordinamento avrebbe consentito. Una sede che, per le sue caratteristiche geografiche ed ambientali, è stata unanimemente avvertita come punitiva e diminutiva della mia condizione professionale da parte dell’opinione pubblica, ai cui salaci commenti sono stato così esposto, trovando ben poche voci memori del mio precedente impegno.
All’improvviso, ho avvertito la dolorosa certezza che il Potere dello Stato di cui mi vantavo di far parte, attraverso gli atti dei suoi organi e le parole di suoi esponenti, forniva un inequivocabile segnale di sfiducia nei miei confronti e di totale disinteresse per la mia permanenza nei suoi ranghi. Non ho dubbi che chiunque saprà farsi una ragione della mia possibile cessazione dall’Ordine Giudiziario. Sono io a non sapere trovare una ragione sufficiente per questo.
Ma il senso della dignità della funzione ed il decoro personale non mi consentivano più di rimanere in Magistratura a queste condizioni e con la ricorrente accusa, proveniente non solo da politici e giornalisti ma anche da Colleghi, che la mia persona poneva a repentaglio (perché? in che modo? da quando?) il prestigio della Magistratura italiana.
Questa sensazione di venire senza troppi riguardi spinto fuori dalla porta mi ha, infine, convinto, con indicibile tristezza e con la delusione di aver lasciato un’opera incompiuta, dell’impossibilità di riprendere servizio: ma i miei ideali rimarranno intatti, come anche il mio amore per la Magistratura e la devozione per chi, facendone parte, si è immolato per il bene comune.

Tratto da: azionecivile.net