La giustizia ferita

di Lorenzo Baldo – 18 luglio 2013
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Palermo. A poche ore dalla sentenza di assoluzione per Mori e Obinu Vittorio Teresi prende la parola alla XIX edizione di “Legami di Memoria” organizzato dall’Arci. “Questa terra diventerà bellissima” recita il titolo dell’incontro, poco più in basso il sottotitolo è ancora più esplicito: “Palermo: ferite, contraddizioni, sorprese”. Ed è proprio partendo dalle tante ferite e dalle molteplici contraddizioni che il procuratore aggiunto racconta l’attesa di quella sentenza nell’ufficio che fu di Paolo Borsellino e che ora è suo.

“In quella stanza – esordisce Teresi – io e i miei colleghi abbiamo aspettato con trepidazione una sentenza; dopo che se ne sono andati mi sono chiesto perché bisogna amare questa città, come la si può amare, dopo tutto quello che è successo… Una città indifferente, connivente, intrisa di illegalità, una città dove trovo difficile continuare a sopportare che per fare il proprio lavoro molti colleghi (io in minima parte) debbano rinunciare alla propria vita privata, continuando a fare i conti con sinistre e volgari minacce, pressioni e introduzioni nelle case. Ho superato il problema e mi sono detto che al di là dell’amore della città bisogna continuare…”. L’atrio “Paolo Borsellino” è affollatissimo, luci ambrate illuminano gli archi, mentre la gente ascolta in assoluto silenzio. “Posso amare meno questa città – continua il magistrato –, ma non c’è stato neanche un attimo in cui ho pensato di mollare quel legame forte che mi riporta a 21 anni fa e quindi a quel bisogno, a quella seria intenzione di cercare la verità. Quella verità che si nasconde dietro fatti complessi, difficili da individuare, e che non necessariamente si può trovare per via giudiziaria”. “La via giudiziaria è una strada – sottolinea –, ma ce ne sono delle altre. Oggi abbiamo avuto la testimonianza della caducità della via giudiziaria (ovviamente nulla di definitivo), molto tecnicamente abbiamo riletto quel dispositivo di sentenza che è drammatico nella sua essenzialità: un’assoluzione perché il fatto non costituisce reato tecnicamente vuol dire molto, è incoraggiante, perché il fatto c’è, ma non c’è il dolo, ma questo è un fatto troppo tecnico. Allo stesso modo ho avuto anche un attimo di grande soddisfazione perché quella sentenza, quel giudizio, è arrivato dopo un processo, cioè è arrivato dopo una via di regole democraticamente poste: l’accusa e la difesa in 5 anni di dibattimento hanno avuto ampia possibilità di spiegare le proprie ragioni al giudice che poi ha deciso.  Così si cerca la verità e così si fanno i processi”. Le persone applaudono convintamente mentre Teresi spiega che “c’è qualcuno invece che la verità non la vuole neanche cercare e che non vuole fare neanche i processi, perché ha già capito tutto e perché ha già detto che quei processi già nelle intenzioni della pubblica accusa sono delle banali invenzioni. Comincio a detestare il termine ‘trattativa’ lo odio proprio”. Ecco allora che tra le pieghe del ragionamento del procuratore aggiunto di Palermo si materializza il saggio di Giovanni Fiandaca e il convegno, tenuto allo Steri in una data cruciale, finalizzato a stroncare alle fondamenta il processo sulla trattativa Stato-mafia. “Alla vigilia di una importante udienza di quel processo – sottolinea Teresi – si è tenuta una manifestazione con un parterre di primissimo piano formato da professori universitari (tra questi c’erano anche l’ex pm Giuseppe Di Lello e l’ex dirigente del Pci Emanuele Macaluso, ndr) che discettavano, così come avevano fatto qualche settimana prima su un saggio pubblicato da un quotidiano, se la trattativa possa considerarsi reato o no, e cioè se trattare con lo Stato rientra nella discrezionalità politica del governo o se invece è da considerare un comportamento penalmente rilevante. Chi ha detto è scritto quelle cose o è in mala fede, o è disinformato. Si tratta di giuristi, di persone che dovrebbero avere una grande capacità di analizzare e di conoscere  prima di giudicare”. “Quel giurista – ha rimarcato il pm – non ha capito che l’articolo 338 del codice penale (che si chiama ‘violenza o minaccia a un corpo politico’) che noi abbiamo contestato agli imputati di quel processo non traduce in sintesi il  concetto di trattativa. Niente affatto. Traduce in sintesi il concetto di ricatto. Se di fronte a questa evidenza ‘solare’, di fronte al semplice titolo del reato contestato giuristi, professori, giornalisti perdono il loro tempo per dire che quel processo è inutile siamo veramente messi male. Io i processi li voglio (anche come quello che si è concluso oggi), ma li voglio nelle aule di giustizia, non li voglio nelle aule delle università, soprattutto se il giudice di quei processi è chi non ha capito nulla, chi non ha capito che il processo non è il processo della trattativa, ma bensì del ricatto allo Stato da parte di alcuni rappresentanti di quello stesso Stato. Se non fosse così gli imputati di quel processo sarebbero membri del governo, ma i membri del governo in quel processo sono parte lesa”.  Un lungo applauso restituisce il sostegno e la solidarietà ad un magistrato che in quel momento rappresenta il pool di Palermo, mai come in questo momento sotto il tiro incrociato di uno Stato colluso. “Grazie, Vittorio – esordisce Rita Borsellino dal palco –, volevo ringraziarti per queste tue parole così sofferte e così vere. Noi ci siamo tutti, ci siamo a soffrire con voi per questo percorso così difficile e tormentato della giustizia. In questa società che ha imparato a ‘digerire’ tutto;  gli unici giudici credibili sono quelli che muoiono, fino a quando sono vivi sono un’altra cosa, non hanno diritto di esercitare la loro professione con la libertà e l’equilibrio necessari… Quando si muore vengono cancellati tutti i ‘peccati’ e diventano gli ‘eroi’ di tutti. Questo non mi sta bene. In questi 21 anni ho sempre contestato il titolo di ‘eroe’ attribuito a Paolo perché mi sembra una diminutio. Paolo non era un ‘eroe’, Paolo era un uomo come tutti gli altri e non aveva poteri speciali. Era un uomo che ha vissuto, ha sofferto, ha gioito, ha fatto delle scelte difficili, ha avuto dubbi che ha dovuto risolvere e ha dovuto affrontare situazioni alle quali forse non era neanche preparato. Lo ha fatto da uomo coerente che ha saputo tenere dritta la barra del timone navigando in questo mare sempre più tempestoso. E ha navigato spesso in grande solitudine”. Ed è ricordando quella solitudine vissuta fino all’ultimo giorno, dal 23 maggio al 19 luglio ’92, che la sorella del giudice ribadisce l’importanza di non mollare mai di fronte alla stanchezza o alla rassegnazione a fronte di un debito morale che ci appartiene. “Se ognuno farà la sua parte – sottolinea Rita –  davvero questa terra diventerà bellissima”. Le parole del giudice Borsellino tornano quindi a vibrare nell’atrio intitolato a suo nome. “Certo che ho paura – diceva Borsellino rispondendo ad una domanda –  io so i rischi che corro, l’importante è trovare ogni giorno il coraggio per superarla per restare liberi”. “Questa frase di Paolo – ribadisce infine Rita – dovremmo farla nostra. Le nostre paure, il nostro scoraggiamento, la nostra mancanza di speranza devono trovare questo contrappeso; ogni giorno bisogna trovare il coraggio per affrontare la realtà, per rimanere liberi. Credo che questo sia un debito che noi abbiamo, prima di tutto verso noi stessi, poi verso coloro che ci hanno tracciato la strada e infine per questa città che è la nostra città,  per questa terra che è la nostra terra, che è già bellissima ma alla quale dobbiamo restituire sicuramente la dignità. E questo lo possiamo farle soltanto con il nostro impegno personale e collettivo. Da domani si continua a percorrere questa strada difficile, irta, sicuramente segnata da grandi ostacoli e grandi difficoltà, ma è una strada che sappiamo dove ci porta e noi è là che vogliamo arrivare…”.

Fonte:antimafiaduemila