Antonio Ingroia: punito dallo Stato, magistrato nel nome del popolo italiano

di Giorgio Bongiovanni – 16 luglio 2013
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Messo spalle al muro, costretto a compiere quel passo che non avrebbe mai voluto fare, dimettersi dalla magistratura, in un gesto che sa di sconfitta. E’ questa la storia di Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo, che per oltre vent’anni si è impegnato in prima linea nella lotta alla mafia raccogliendo, assieme ad altri valorosi colleghi, il “testimone” che i suoi maestri, Falcone e Borsellino, avevano dovuto cedere a causa della loro morte. Sulle loro bare quei “magistrati valorosi” avevano compiuto un giuramento per “scoprire gli altarini” ed arrivare alla verità sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nel corso degli ultimi anni le Procure ed i magistrati che indagavano su quei fatti hanno subito una serie di attacchi non solo dal fronte politico (che rappresenta quella parte di Stato che non vuole la verità), ma addirittura dagli stessi organi interni della magistratura, con il Csm che in più occasioni ha avviato provvedimenti disciplinari.
Singolare che il numero di attacchi, spesso scesi anche sul personale con l’accusa di uso politico della giustizia, di follia, e di finalità eversive, siano diventati sempre più forti con l’avvicinarsi della richiesta di rinvio a giudizio per la trattativa stato-mafia, finalmente commutatosi in un processo che vede alla sbarra tutti insieme mafiosi, figli di mafiosi (Ciancimino, nello stesso tempo testimone oculare dell’accusa e imputato), pentiti (Brusca), ex politici ed ex funzionari dello stato, in cui verranno sentiti oltre 170 testimoni, tra cui i collaboratori di giustizia Gaspare Spatuzza, Antonino Giuffré, e Gaspare Mutolo.

Per difendersi dagli attacchi Antonio Ingroia, tra i più sovraesposti anche per l’importanza delle indagini da lui condotte durante la carriera, ha scelto in passato di autodifendersi pubblicamente con interviste, scritti, partecipazioni a manifestazioni, programmi tv e radio, dibattiti anche di partito. E in quelle sedi ha avuto sempre l’accortezza di non entrare nel merito dei contenuti delle inchieste, ma fornendo spunti importanti di ragionamento su quel che è accaduto e sul perché è importante non fermarsi di fronte nell’accertamento della verità dei fatti-reato, anche quando investono persone che occupano cariche pubbliche di grande rilievo.
E di fronte alla “minaccia” il fuoco dei nemici si è fatto più forte. Ancor più grave è però stato il fuoco “amico” proveniente dalle sedi del Csm e dell’Anm, colpevoli in passato di aver isolato magistrati come Falcone e Borsellino, colpevoli oggi di non aver avuto il coraggio di schierarsi accanto a chi avrebbero dovuto difendere.
Il primo fascicolo aperto contro Ingroia da parte del Consiglio Superiore della Magistratura riguardava la sua partecipazione nell’ottobre 2011, come ospite, al congresso del Partito dei Comunisti Italiani, dove si definiva “partigiano della Costituzione”. Ma è nell’ultimo anno che i contrasti si sono fatti sentire in tutta la loro veemenza.
E ciò è avvenuto con il caso dell’intercettazione tra Mancino ed il Presidente della Repubblica Napolitano. Una telefonata ritenuta irrilevante ai fini processuali del dibattimento (pertanto non inserita nel fascicolo della richiesta di rinvio a giudizio), la cui esistenza ha generato un’inaudita rivolta degli ambienti politici nei confronti della Procura di Palermo. Ancora una volta il Csm si è fatto “bastone” per colpire i magistrati aprendo un fascicolo nei confronti di Antonino Di Matteo e di Francesco Messineo, mentre l’Associazione nazionale magistrati, per bocca del presidente Rodolfo Sabelli, ha criticato pubblicamente sia Di Matteo che Ingroia per non essersi dissociati dal dissenso espresso alla festa del “Fatto quotidiano” nei confronti del Capo dello Stato. E nei confronti di Ingroia la critica fu anche maggiore in quanto nelle sue esternazioni aveva tenuto dei “comportamenti politici”. Non una parola espressa di fronte alle pesanti ingerenze del Presidente della Repubblica nei confronti della Procura di Palermo attraverso il conflitto di attribuzione (sollevato dal Quirinale in merito alle telefonate tra il Colle e Nicola Mancino). Ingerenze che hanno rappresentato il punto più alto di un attacco mirato a bloccare il delicato lavoro investigativo sulla trattativa Stato-mafia intrapreso da Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Lia Sava e Roberto Tartaglia.
Ma ad ostacolare il lavoro di Ingroia è intervenuta persino la corrente “Magistratura Democratica”, di cui l’ex magistrato era tra i principali membri, capace di stilare un documento decisamente anti Ingroia con palesi riferimenti alla gravità di una “esposizione mediatica”.
Con “il tiro all’Ingroia” su più fronti a questi non è rimasto altro che in un primo momento accettare l’incarico Onu in Guatemala, per poi scegliere di spostare il fronte dello scontro su un altro piano, dalle sedi giudiziarie a quelle del parlamento, abbracciando il progetto “Rivoluzione Civile” in vista delle politiche del febbraio 2013.
L’andamento delle elezioni è noto a tutti, Ingroia non viene eletto in Parlamento è a questo punto però che il Csm ha perpetrato un nuovo accanimento contro il magistrato Ingroia.
Dapprima attraverso il diktat per l’assegnazione di un nuovo incarico alla Procura di Aosta con un ruolo inferiore a quello ricoperto a Palermo.
Una vera e propria punizione così come tale appare il respingimento, sempre da parte del Consiglio Superiore della magistratura, della richiesta per diventare presidente della società di riscossione dei tributi della Regione Sicilia alle dipendenze del Presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta. Lo stesso Ingroia aveva spiegato che lavorare alla Serit non sarebbe stato “un compito da burocrate di Stato” in quanto la gestione e la riscossione dei tributi nell’isola “è sempre stata nelle mani della mafia”, un settore “che vive ancora oggi di anomalie e opacità, fra consulenze milionarie ed operazioni sospette”. L’incarico a Ingroia avrebbe quindi minacciato determinati centri di potere e avrebbe altresì rappresentato un’inversione di rotta consentendo all’ex magistrato di proseguire il suo percorso, in continuità con la sua esperienza, facendo rispettare la legge e colpendo in maniera durissima i grandi evasori, spesso legati alla mafia.
Ma evidentemente è proprio questa “attitudine” a far timore. Nel frattempo il Consiglio superiore della magistratura aveva già acquisito in febbraio gli atti del procedimento di incolpazione aperto dal procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, a carico di Antonio Ingroia, ritenuto responsabile di avere offeso la Corte Costituzionale, accusata di avere emesso una sentenza politica sul conflitto di attribuzione tra il Quirinale e la Procura di Palermo.
Infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso con il nuovo procedimento disciplinare aperto su segnalazione del procuratore di Aosta, con l’accusa di aver “continuato a fare politica anche dopo il suo rientro in magistratura” che di fatto ha fatto maturare la decisione di dimettersi.
Un atto che lascia un’amara sensazione di sconfitta con la mafia ed il potere che ottengono la vittoria di una battaglia ma non della guerra.
Come se non bastasse, di recente addirittura l’illustre giurista, e maestro di diritto penale di Ingroia, Giovanni Fiandaca, in un saggio ha lanciato strali sia contro l’ex magistrato palermitano che contro l’inchiesta sulla trattativa stato-mafia da lui definita “presunta”. Una sorta di “tradimento” di fronte all’allievo che fino a qualche anno fa ha avuto al suo fianco all’interno della “Commissione Fiandaca” (dal nome del suo presidente) nata per armonizzare la normativa antimafia durante il primo governo Prodi. Nel saggio Fiandaca parla di “presunta” trattativa persino giustificandola: “Ai pm – scrive – sfugge… la divisione dei poteri: la tutela della sicurezza collettiva… spetta al potere esecutivo e l’eventuale scelta politica di fare qualche concessione ai poteri criminali non è sindacabile giudiziariamente”.
Nella sua esposizione evidentemente Fiandaca tralascia alcuni aspetti. In primo luogo che la trattativa è confermata da sentenze definitive della Cassazione sulle stragi del 1992-‘93, ed anche gli stessi Mori e De Donno (tra gli imputati al processo) in un verbale ne parlano apertamente. Inoltre non capisce, o fa finta di non capire, che il capo d’imputazione contestato non è quello di aver trattato ma l’art.338 Cp, riguardante la “violenza o minaccia a corpo politico”, ovvero che la mafia, tramite il delitto Lima e le stragi, ricatta i governi in combutta con alcuni servitori dello Stato veri o presunti, per estorcere scelte politiche e normative.
E nelle sue conclusioni di fatto arriva persino a dire che processare politici sospettati di delinquere significa “processare la politica”, con la “tendenza populistico-giustizialista” che innesca “quel conflitto fra politica e giustizia che nell’ultimo ventennio ha disturbato il funzionamento della democrazia”.
Affermazioni gravi, pesanti, ingiustificabili che fanno sorgere un dubbio, ovvero che il “tiro all’Ingroia” ed i continui attacchi verso certe inchieste siano parte di un “progetto” che, magari, porti ad un posto alla Consulta.
La migliore riprova della veridicità delle inchieste di Ingroia sta nell’analisi dei loro esiti.
Entrato in magistratura a 28 anni al fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha seguito quest’ultimo alla procura di Marsala. Nel 1992 era diventato sostituto procuratore a Palermo nel pool coordinato da Giancarlo Caselli: aveva seguito, insieme a Roberto Scarpinato, indagini storiche, come quella sui “Sistemi criminali” – poi archiviata – , ma anche quelle sull’omicidio Rostagno, sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro.
E durante questo periodo non sono mancati i risultati che hanno prodotto giustizia e verità. Bruno Contrada (ex numero 3 del Sisde) è stato condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa; così anche il senatore Inzerillo. Marcello Dell’Utri, la cui inchiesta è stata condotta assieme al collega Domenico Gozzo, è stato condannato in appello per lo stesso reato dopo il giudizio di rinvio deciso dalla Cassazione, e siamo in attesa di leggere le motivazioni della sentenza oltre che del terzo grado di giudizio. L’esistenza della trattativa che si intravede sullo sfondo delle stragi del ’92 e del ’93, le cui indagini sono scaturite in un processo storico, è stata già confermata in una sentenza della Corte di Assise di Firenze. Mentre è stato aperto un procedimento penale contro gli ufficiali Mori ed Obinu per il mancato blitz a Mezzojuso dove si nascondeva Bernardo Provenzano nel 1995. Nel 2009 c’è stato il grande salto come procuratore aggiunto e coordinatore della Procura distrettuale antimafia firmando decine di inchieste e richieste d’arresto a danni di killer e boss di Cosa nostra.
Anche in quei processi dove, apparentemente, sembra esservi una sconfitta emergono elementi di novità che avvalorano la bontà delle indagini condotte e la necessità di un approfondimento. Come al processo De Mauro, attualmente in appello, dove pur non essendo stata riconosciuta la colpevolezza di Riina viene messo nero su bianco per la prima volta che la morte di Mattei è dovuta ad un attentato. Oppure quello nei confronti dell’allora direttore del Sisde, Mori, e del colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, il capitano ‘Ultimo’, imputati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, subito dopo l’arresto del boss il 15 gennaio del 1993. I due erano stati assolti dal Tribunale nel 2006 perché “il fatto non costituisce reato”. Tuttavia la sentenza, da sola, non riesce a fare luce su alcuni “buchi neri” della vicenda che di fatto rimarranno tali con gli stessi Pm dell’accusa, Antonio Ingroia e Michele Prestipino Giarritta, che avevano chiesto al Presidente della III sez. del Tribunale di Palermo Raimondo Lo Forti l’assoluzione di Mori e Ultimo “perché il fatto non sussiste” specificando che la condotta dei due imputati era stata dettata “da ragioni di Stato e non da altro”.
Tra le altre inchieste anche quella nei confronti del capogruppo del Pdl al Senato, Renato Schifani, su cui il gip è chiamato ad esprimersi in questo mese, oppure quella condotta assieme al pm Gaetano Paci, con cui si è recato in Thailandia per chiedere l’estradizione, nei confronti di Vito Roberto Palazzolo.
Il 24 luglio 2012, in merito all’indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, prima di trasferirsi in Guatemala, ha chiesto assieme agli altri pm del pool, il rinvio a giudizio di dodici indagati con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e violenza o minaccia a corpo politico dello Stato (art. 338 del codice penale) nei confronti degli ex politici Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri, gli ufficiali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, Massimo Ciancimino (quest’ultimo accusato anche di calunnia), il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, i boss Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Bernardo Provenzano; mentre l’accusa per l’ex ministro Nicola Mancino è di falsa testimonianza. E lo scorso marzo il gip Morosini ha rinviato a giudizio tutti gli imputati differenziando la posizione dell’ex ministro Mannino, che ha scelto di essere giudicato secondo il rito abbreviato; e del padrino corleonese Bernardo Provenzano, la cui posizione è stata stralciata a causa delle gravi condizioni di salute che gli rendono impossibile seguire il processo. E poi le innumerevoli richieste di arresto, avallate dai vari gip, che hanno portato in carcere decine e decine di capi mafia e colletti bianchi collegati con loro.
Insomma possiamo dire che, alla luce dei fatti, Ingroia è stato un bravo magistrato che non muove ipotesi accusatorie campate in aria, ma che anzi si basa su un complesso probatorio valido, al punto da dovere essere sottoposta all’esame dei giudici. I quali spesso, come abbiamo visto, hanno emesso durissime sentenze di condanna agli iportainnestoportainnesto alla sbarra da Antonio Ingroia ed i suoi colleghi.
Di fronte a certi risultati cosa farebbe un Paese civile democratico e avanzato? Negli Stati Uniti, che vanno condannati per la loro politica estera imperialistica e guerrafondaia, agiscono in maniera diversa rispetto ai propri servitori dello Stato. Prendiamo l’esempio di Louis Freeh, collaboratore di Falcone in quanto procuratore distrettuale a New York, insieme a Rudolph Giuliani, ai tempi della “Pizza Connection”, l’operazione in cui vennero arrestati ed accusati mafiosi, imprenditori e politici, è stato avanzato di carriera fino ad essere scelto come capo dell’Fbi, l’agenzia investigativa più nota e potente al mondo.
Lo Stato italiano e i suoi poteri cosa hanno fatto, invece, di fronte alle qualità di un magistrato come Ingroia? Hanno deciso per l’esilio, con un’azione da parte del Csm ai limiti dell’illegalità se si considera che il collegio della Procura di Aosta fa parte di quello di Torino e, pertanto, non poteva essere assegnato lì. Tuttavia c’era un ruolo di prestigio che, per meriti ottenuti sul campo, avrebbe potuto ottenere, quello di sostituto procuratore alla Procura Nazionale antimafia. Un ruolo di prestigio e coordinamento che Ingroia avrebbe saputo condurre nel modo migliore, con competenza e serietà. Ma il Csm ha deciso di non avvalersi delle competenze di uno dei migliori giudici italiani, così come venne riconosciuto dallo stesso Onu che gli conferì l’incarico in Guatemala. Come abbiamo già detto e scritto lo Stato-mafia corrotto, e in parte complice di stragi mafiose, politiche e terroristiche, ha scelto di perseguitare con punizioni ed ammonizioni continue i propri rappresentanti, partigiani della costituzione e servitori dello Stato-Stato. E’ la storia che si ripete, così come era avvenuto per Falcone, Borsellino e prima ancora il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri martiri d’Italia e la sensazione che resta è quella di uno Stato che non vuole dominare le organizzazioni criminali ma vuole essere, e lo diviene, una sola cosa con gli assassini dei nostri eroi.

Foto © AGF

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Fonte:Antimafiaduemila