Il Quirinale contro la Procura di Palermo: ecco le carte

di Aaron Pettinari – 5 settembre 2012

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Questa mattina Il Fatto Quotidiano ha pubblicato i documenti con i quali il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sollevato il conflitto di attribuzioni, con decreto del 16 luglio 2012, davanti alla Corte costituzionale contro la Procura di Palermo tramite dell’Avvocatura dello Stato. Secondo i colleghi, Marco Travaglio e Beatrice Borromeo, i documenti dimostrerebbero come, alla notizia, il Presidente abbia sferrato un vero e proprio attacco contro l’azione della magistratura che si trova ad indagare sulla Trattativa Stato-mafia.

Tutto ha avuto inizio quando sul finire di giugno la rivista Panorama ha rivelato l’esistenza di telefonate intercettate casualmente tra l’ex senatore Mancino ed il capo dello Stato. Due giorni dopo (il 22 giugno) in un’intervista sul quotidiano “La Repubblica”, il pm di Palermo Nino Di Matteo ne aveva confermato l’esistenza dichiarando però che non erano rilevanti, tanto da non essere inserite tra le carte dell’inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia. E sull’eventuale distruzione delle intercettazioni  non inserite nell’inchiesta aveva aggiunto: “Applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al Gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti”. Ed è da quel momento che il Quirinale si è attivato presso la procura di Palermo con la prima lettera al procuratore di Palermo Messineo, datata 27 giugno. Una prima missiva cui Messineo ha risposto, allegando anche una lettera dello stesso Di Matteo, in cui si specifica che “la Procura, avendo già valutato come irrilevanti ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge”.
Formalità di legge che prevede la possibilità di ascolto delle stesse sia da parte dell’accusa che dalla difesa. E qualora queste non si ritenessero rilevanti per il procedimento allora si procederebbe alla richiesta distruzione davanti ad un Gip. Ed è proprio questo il “quid” che “scatena” il Quirinale. Il 16 luglio, quasi alla vigilia delle commemorazioni della strage di via d’Amelio, Napolitano firma il decreto che solleva il conflitto di attribuzioni contro la Procura. Il Fatto Quotidiano, venuto in possesso delle 18 pagine depositate dall’Avvocatura dello Stato in Consulta, ne ha quindi pubblicato alcuni passaggi. “Il Presidente della Repubblica – è scritto –  non ritiene di poter condividere la tesi del Procuratore della Repubblica, in quanto, a norma dell’art. 90 della Costituzione e dell’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219, salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione e secondo il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento d’accusa, le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette e occasionali, sono, invece, da considerarsi assolutamente vietate e non possono, quindi, essere in alcun modo valutate utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione. Comportano, quindi, lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione, l’avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione (investigativa o processuale), la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento e l’intento di attivare una procedura camerale che – anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto – aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte”.
Come è stato già dimostrato in passato però gli articoli citati dall’Avvocatura a difesa della propria tesi (l’ “art. 90 della Costituzione” e “l’art. 7 comma 3 della legge 219/1989” ndr) non hanno a che fare con il caso delle intercettazioni Napolitano-Mancino. Infatti il Capo dello Stato non è mai stato messo in stato d’accusa e poiché si tratta di intercettazioni indirette, ecco che queste sono sempre legittime.
Inoltre l’Avvocatura insiste per cercare di dimostrare come la telefonata tra Napolitano e Mancino, privato cittadino, sia inserita in un contesto istituzionale con il primo che quindi stava esercitando le proprie funzioni di Capo dello Stato.
“Le prerogative che la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato sono strettamente funzionali agli altissimi compiti che è chiamato a sostenere nell’espletamento della citata funzione di garanzia complessiva del corretto andamento del sistema che egli esercita, mantenendo, appunto, l’unità della Nazione. É del tutto evidente che, nell’espletamento di questi compiti, al Presidente della Repubblica deve essere assicurato il massimo di libertà di azione e di riservatezza, appunto perché alcune attività che egli pone in essere, e certamente non poco significative, non hanno un carattere formalizzato. Il proseguimento delle finalità costituzionali caratterizza, dunque, l’attività, sia formalizzata sia non formalizzata, del Presidente della Repubblica connotandola in senso funzionale, così che la protezione derivante dall’immunità prevista dall’art. 90 della Costituzione ricomprende tutti gli atti presidenziali, nei quali siano appunto rinvenibili quelle finalità”. Ma come fare a capire se in quella telefonata il presidente della Repubblica sta svolgendo o meno la propria funzione? Per decidere è necessario l’ascolto ed è proprio questo, secondo i due giornalisti del Fatto, uno degli “autogol” messi a segno dall’Avvocatura in quanto non si tiene conto della Costituzione che delimita l’immunità del Presidente proprio nell’esercizio delle proprie funzioni.
Tuttavia, gli avvocati del Quirinale proseguono spiegando la propria  idea di “immunità totale” del Capo dello Stato: “Quello che si desume con assoluta chiarezza dal combinato disposto dell’art. 90 della Costituzione e … della legge del 1989 è l’impossibilità di intercettare e anche, se del caso, di utilizzare il testo di quelle intercettazioni, proprio perché il Presidente della Repubblica, anche se messo in stato d’accusa non può, fino a quando è in carica, subire alcuna limitazione nelle sue comunicazioni, dato che altrimenti risulterebbe lesa la sua sfera di immunità… Lo stesso divieto di uso e utilizzazione dei medesimi mezzi di prova… non può logicamente, anche nel silenzio della legge, non estendersi ad altre fattispecie di reato che possano a diverso titolo coinvolgere il Presidente”. Anche in questo caso Travaglio e Borromeo mettono in evidenza la contraddizione clamorosa citando nuovamente la Costituzione ed una sentenza della Corte costituzionale (la n154 del 2004, estensore Valerio Onida, presidente Gustavo Zagrebelsky). Quest’ultima riguarda un conflitto di attribuzioni sollevato nel 1991 dal presidente Francesco Cossiga contro i giudici che lo processavano per diffamazione nei confronti del senatore Sergio Flamigni, i quali l’avevano denunciato per alcuni suoi pesanti apprezzamenti pronunciati davanti ai giornalisti durante un viaggio aereo. In quell’occasione la Consulta dichiarò inammissibile il suo conflitto e spiegò: “Spetta all’Autorità giudiziaria, investita di controversie sulla responsabilità del Presidente della Repubblica in relazione a dichiarazioni da lui rese durante il mandato, accertare se le dichiarazioni medesime costituiscano esercizio delle funzioni o siano strumentali ed accessorie ad una funzione presidenziale. E solo in caso di accertamento positivo ritenerle coperte dall’immunità del Presidente della Repubblica, di cui all’art. 90 della Costituzione”.
Ma “il colmo dei colmi” si manifesta in altre due occasioni da parte dell’Avvocatura. La prima quando parla del “divieto di intercettare” anche indirettamente o casualmente “mentre il Presidente della Repubblica è in carica”. La seconda quando chiede la “distruzione immediata del testo intercettato, ai sensi dell’art. 271 Cpp” pur consapevole che la decisione di distruggere delle intercettazioni non può essere mai presa dai pm ma che passa comunque dal giudizio di un giudice.
Se i procuratori di Palermo avessero preso questa iniziativa, allora sì che avrebbero commesso un reato penale che avrebbe potuto davvero compromettere ogni indagine eliminando dalla scena Ingroia, Di Matteo e gli altri magistrati che hanno condotto l’inchiesta sulla Trattativa. Che fosse proprio questo il desiderio del Quirinale?

Fonte:Antimafiaduemila