CHI HA UCCISO PAOLO BORSELLINO? Intervista esclusiva a Salvatore Borsellino

di Giuseppe Campisi e Luca Bardaro – 6 ottobre 2011
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19 luglio 1992. Ore 16.58. Un’esplosione scuote via D’Amelio. Vengono assassinati Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina ed Agostino Catalano. Sparisce la sua agenda rossa e con essa tante scomode verità.

 

A quasi vent’anni dall’accaduto, un uomo, più di tutti, non si rassegna di fronte a quanto ci è stato raccontato riguardo uno degli avvenimenti più tragici della storia del nostro Paese. Quest’uomo è Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, che in questa intervista racconta luci e ombre sulla strage di via D’Amelio, da lui definita una Strage di Stato.

Quando e con quale motivazione hai sentito l’esigenza di dar vita ad un movimento come quello del Popolo delle Agende Rosse?

Dopo la strage di via D’Amelio, per cinque anni mi sono mosso per fare in modo che si venisse a conoscenza della verità: vedevo una certa coscienza civile che spingeva per far sì che si facesse luce su questa tragedia. Mi sono però reso conto di come tutto, in verità, si fosse rivelato un fuoco fatuo, e per dieci anni sono stato in silenzio. Nel 2007 ho ricominciato a parlare, soprattutto per rabbia; da un lato mi sono reso conto che molti avevano dimenticato, e che era necessario ricordare, dall’altro ho visto come molti giovani volessero verità e giustizia. Proprio questi giovani sono i veri fondatori del movimento, che è nato più da loro e dalla loro partecipazione spontanea ai miei incontri che non da me.


Gli aspetti inquietanti riguardanti la strage del 19 luglio 1992 sono tanti e poco noti ai più. Cosa ti fa pensare ad una strage di Stato? Pensi ci sia un collegamento tra certi fatti che possono apparentemente sembrare frutto di coincidenza? Cosa ti porta a pensare a dei cosiddetti “poteri occulti” dietro quest’attentato?

Quando ho ripreso a parlare, l’ho fatto anche perché era maturata in me sempre più la convinzione che questa non fosse stata una strage di mafia, ma una strage di Stato, così come, proprio nel 2007, avevo esternato in una lettera (chiamata, appunto, “19 luglio 1992: strage di Stato”) diffusissima in rete ma poco considerata dagli altri media. In questa lettera esponevo, appunto, la mia convinzione riguardo la natura di questa tragedia, e il fatto che probabilmente la morte di mio fratello sia stata causata dal suo opporsi ad una trattativa tra Stato e mafia. Dopo l’attacco frontale di Capaci da parte della mafia, la lotta contro la stessa non fu condotta in maniera decisa come doveva essere, ma anzi alcuni esponenti della politica, pezzi deviati dello Stato, decisero di scendere a patti con essa. Questa trattativa ritengo sia stata comunicata a Paolo il 1 luglio 1992 nello studio di Nicola Mancino, allora Ministro dell’Interno. Potete immaginare la reazione di Paolo di fronte alla richiesta, anzi, quasi all’ordine, di non proseguire con le indagini sulla vicenda che gli aveva sottratto l’amico fraterno, il giudice Giovanni Falcone. Penso che tale reazione sia stata così violenta e decisa tanto da minacciare di rivelare tutto all’opinione pubblica, e penso che questo non abbia fatto altro che accelerare i tempi del suo assassinio; assassinio che, come fu detto da alcuni esponenti della cupola a Riina, e come apprendiamo da alcune rivelazioni di pentiti, era comunque stato programmato dalla mafia, ma che probabilmente sarebbe stato compiuto in un secondo momento. La scelta di anticipare i tempi fu assecondata da Riina, che sosteneva che sarebbe stato un bene per tutti, e che comunque lo doveva a qualcuno. La strage fu ben congeniata, tutto fu calcolato in maniera accurata: dal divieto di sosta che non era stato posto come era giusto che fosse (e che dunque ha consentito la presenza della 126 carica di esplosivo – esplosivo, tra l’altro, dello stesso tipo utilizzato dai militari, altro indizio sul fatto che fu una strage di Stato), ai telefoni intercettati, alle abitudini di Paolo che venivano controllate, come quella di recarsi dalla madre per portarla dal cardiologo, elemento determinante che ha fatto sì che lui lasciasse la sua borsa nella macchina, e che ha quindi favorito la scomparsa della sua agenda rossa, in cui teneva tutti i suoi appunti. Ci sono delle prove fotografiche e video del furto (in cui vediamo il capitano Arcangioli), in cui vediamo come la borsa di Paolo sia stata prelevata dalla macchina e poi vi sia stata riposta nuovamente. Al termine di quest’operazione, l’agenda rossa è sparita. I successivi depistaggi delle indagini, che avvengono puntualmente quando si parla di strage di Stato (basti ricordare Portella della Ginestra) che stanno venendo solo ora alla luce con la riapertura del caso da parte della procura di Caltanissetta, confermano la mia ipotesi.


Il capitano Arcangioli è stato prosciolto. Puoi parlarci nel dettaglio di questa vicenda?

 Nella sua celebre agenda rossa, Paolo Borsellino ha cominciato ad annotare, dopo il 23 maggio (data dall’assassinio di Falcone) tutti i suoi appunti, tra cui le rivelazioni di alcuni pentiti di rilievo, come Gaspare Mutolo, riguardanti l’infiltrazione, all’interno delle istituzioni e delle forze dell’ordine, di elementi mafiosi; rivelazioni che non erano mai arrivate a tale livello, come il tradimento di Bruno Contrada, ad esempio, o il fatto che il giudice Signorino fosse venduto alla mafia. Sette anni dopo l’assassinio, alcuni giornalisti di Antimafia2000 portarono alla luce una foto che ritraeva il capitano Arcangioli con in mano la borsa di Paolo (avvenimento confermato anche da alcune prove video). Partì dunque un’istruttoria sul caso che prese un iter tormentato, con diverse sospette richieste di archiviazione, fino ad arrivare al proscioglimento dello stesso Arcangioli. Addirittura il GUP sostenne che forse l’agenda rossa non sarebbe stata neanche presente nella borsa di Paolo, o, addirittura, che non sarebbe mai esistita (cosa impossibile data l’esistenza di alcune prove fotografiche che lo ritraggono con l’agenda). A confutare quest’ultima ipotesi vi è invece la testimonianza della moglie e della figlia di mio fratello, certe del fatto che quel giorno l’avesse con sé.

Io ho rispetto per la sentenza, anche se trovo che ci siano delle falle abnormi. Purtroppo Arcangioli non può più essere processato nuovamente perché la cassazione si è oramai espressa, anche se comunque tra le tante incongruenze sostengo che di certo se la testimonianza della moglie e della figlia di Paolo non sono state date per buone, allora si sarebbe dovuto procedere con un processo nei loro confronti per falsa testimonianza. In ogni caso, ho molta fiducia nella magistratura di Caltanissetta che ha ripreso il caso e analizzerà le prove che ritraggono Arcangioli con certi personaggi, e che potrà fare luce finalmente su questa vicenda, dal momento che credo che chi tiene in mano quest’agenda rossa ha la possibilità di tessere una rete di ricatti incrociati che ritengo reggano gli equilibri di questa nostra disgraziata seconda repubblica.

Vincenzo Scarantino. Solo oggi, dopo 19 anni, tre gradi di giudizio e le dichiarazioni di Spatuzza, si scopre in realtà che si trattava di un “colossale depistaggio” delle indagini. Pensi tutto questo sia dovuto ad una cattiva gestione del caso o c’è di più?

 Sicuramente questo è un depistaggio fatto a regola d’arte da qualcuno che aveva interesse a sviare le indagini dalla famiglia Graviano che ha organizzato la strage, piuttosto che dalla famiglia Acquasanta accusata nel primo processo. Questo non è stato sicuramente un abbaglio, dal momento che Scarantino ha rivelato diversi particolari (risultati veri) riguardanti la 126, particolari su cui sicuramente è stato istruito da qualcuno. In verità, Scarantino non era neanche un mafioso, dal momento che per la propria condotta morale (per il fatto che frequentasse dei transessuali) non era conforme a quel codice etico che regola la vita degli uomini d’onore; non era un affiliato, un cosiddetto “punciutu”, ma un semplice balordo. Mentre dalla procura di Palermo la testimonianza di Scarantino non era ritenuta credibile, la procura di Caltanissetta, retta allora da Tinebra, la tenne per buona. Diciamo che Scarantino fu gettato nella mischia per proteggere gli effettivi responsabili della strage, i Graviano, uno dei quali pare sia stato proprio colui che ha premuto il telecomando nei pressi di via D’Amelio, e non dal castello Utveggio, come si ipotizzava. Comunque, nel castello Utveggio era presente un centro d’ascolto dei servizi segreti. La famiglia Graviano doveva essere tenuta lontana dalle indagini, per i contatti con tali servizi e con alcuni personaggi come quel Marcello Dell’Utri condannato poi a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, e, attraverso quest’ultimo, con quello che è, purtroppo per noi, fino ad oggi, il nostro Presidente del Consiglio. Anzi, il Presidente del Consiglio, non “il nostro”.

Parliamo della presunta trattativa tra Stato e mafia. Hai sempre sostenuto che questa sia stata causa diretta ed abbia accelerato la morte di tuo fratello; il generale Mori, invece, sostiene che quegli incontri con Ciancimino padre non fossero altro che un tentativo per far sì che collaborasse con la giustizia. Cosa ti fa pensare che si trattasse di una vera e propria trattativa, e che la mafia abbia agito da braccio armato dello Stato?

Mori sostiene questo perché è sotto processo a Palermo, e questo prevede la sua linea di difesa, però io ho piena fiducia nella magistratura e aspetto le conclusioni di questo processo. Io so che ci sono altre rivelazioni come quelle di collaboratori come Spatuzza e Ciancimino che confermano l’esistenza di questa trattativa, che si presenta quasi come un diktat della mafia allo Stato, come scritto nel famoso papello. Lo stesso Riina premeva per sapere quali fossero i terminali istituzionali con cui trattare, non fidandosi dei semplici ufficiali dei carabinieri. Sempre secondo queste testimonianze, ancora da vagliare, la mafia avrebbe trovato in quel ministro Nicola Mancino che l’1 luglio 1992 incontrò mio fratello presso il suo ufficio al Viminale, incontro da lui, oggi, rinnegato, mentendo spudoratamente. Tale incontro fu appuntato per quella data da Paolo nella sua agenda grigia, che si salvò trovandosi a casa, ed è confermato anche dal pentito Mutolo, che proprio quell’1 luglio era interrogato e che ricorda una telefonata a mio fratello dal ministro (e non, più genericamente, dal ministero).  Dopo la telefonata, Paolo si allontanò e al suo ritorno risultava essere sconvolto, come solo la notizia di una trattativa tra Stato e mafia avrebbe potuto sconvolgerlo. Per quale motivo Mancino mente così, adducendo peraltro delle scuse assolutamente incredibili, come il fatto che non conoscesse fisicamente la figura di mio fratello, quando dopo la strage di Capaci la fisionomia di Falcone e Borsellino era nota a tutti gli italiani? Probabilmente perché ha qualcosa di molto grosso da coprire e di cui è il responsabile diretto, e spero anche per questo che Mancino venga chiamato a rispondere davanti alla magistratura.

Luci e ombre del personaggio di Massimo Ciancimino. La tua opinione?

Massimo Ciancimino è una persona che collabora con la giustizia e che sicuramente ha introdotto degli elementi di verità, essendo però contemporaneamente figlio di un mafioso di un certo spessore, oltre ad avere un passato particolare: basti pensare che il padre, per fargli evitare le sue scorribande (tra donne e macchine costosissime), a volte lo incatenava al letto. È chiaro che non stiamo parlando di uno che dall’oggi al domani diventa un santo. Sì, sta collaborando con la giustizia, ma magari anche per salvare parte del tesoro di suo padre che sarà imboscato da qualche parte. Nonostante ciò, sicuramente ha fornito diverse informazioni importanti, magari con l’intento di barattarle per ottenere benefici, un po’ come fanno anche diversi collaboratori di giustizia (d’altra parte, i veri pentiti sono veramente pochi, uno su tutti Vincenzo Calcara, destinato ad uccidere mio fratello, ma che ha ribaltato la sua scala di valori grazie all’incontro con Paolo). Dunque, nonostante Ciancimino abbia fornito informazioni col contagocce e si sia comportato da millantatore – in alcune intercettazioni in cui parla con dei personaggi poco affidabili egli si vanta di poter fare ciò che voleva all’interno della procura di Palermo, affermazione alla quale i magistrati hanno reagito con gli arresti domiciliari – molte delle sue rivelazioni, su tutte quella del papello di Riina, hanno fatto ritrovare la memoria, dopo quasi un ventennio, a personaggi insospettabili come Martelli, Violante, Conso e altri, togliendo quel tappo sulla trattativa, di cui solo Mancino continua a negare l’esistenza, forse perché ne era a conoscenza diretta o perché ne era implicato. Concludendo, le rivelazioni di Ciancimino vanno vagliate attentamente dalla magistratura: si devono prendere per buone quelle la cui attendibilità è confermata, scartando il resto.

Il procuratore Vigna sostiene che non ci sono mandanti occulti dietro le stragi, o che quanto meno non è stato possibile dimostrarlo, il procuratore Scarpinato sostiene invece il contrario, e che dietro lo stragismo ci sia parte della classe dirigente italiana. Qual è il tuo pensiero a riguardo?

Sono rimasto molto sorpreso dalle dichiarazioni del procuratore Vigna, e pur nutrendo un grande rispetto per la magistratura, mi hanno fatto perdere la stima nei suoi confronti. Come può Vigna sostenere questa tesi quando ci sono magistrati, come quelli di Caltanissetta e Palermo, che dopo aver riaperto le indagini rischiano la loro stessa vita, come io penso, per cercare delle prove riguardo i mandanti occulti? La sua affermazione è fuorviante e fuori luogo: se non sono ancora state trovate le prove, forse è perché chi doveva cercarle non ha voluto trovarle oppure non ne è stato in grado, e questo non dimostra che non esistano i mandanti occulti. O forse è talmente preso dal suo ego che crede che se non c’è riuscito lui, non possano riuscirci gli altri; è meglio che lasci in pace i magistrati che stanno indagando e li lasci lavorare.

Spesso sentiamo parlare di persecuzione nei confronti dei politici da parte di una presunta magistratura politicizzata. Ma, se andiamo a vedere alcuni famosi processi, tra cui quelli di Dell’Utri, condannato in secondo grado, di Cuffaro, con condanna definitiva, e dello stesso Andreotti, non assolto, ma che ha usufruito di una prescrizione, verrebbe da pensare il contrario. Come giudichi questo vittimismo che cerca in qualche modo di screditare il lavoro della magistratura?

Credo che questa tendenza perversa nasca dall’atteggiamento del nostro Presidente del Consiglio, che preferisce, piuttosto che difendersi nei processi, difendersi dai processi. Il suo atteggiamento mira a delegittimare l’operato della magistratura, sfruttando anche le leggi ad personam appositamente scritte per lui, ma che, ovviamente, entrano in vigore per tutti, danneggiando ed ostacolando il corso della giustizia, come nel caso in cui si tenta di impedire le intercettazioni, strumento fondamentale per perseguire il crimine. Lo stesso accade per il cosiddetto processo breve, che in realtà dovrebbe chiamarsi prescrizione breve, causando una dilatazione dei tempi dei processi, con operazioni come quella che impedisce al collegio giudicante di avere la discrezionalità sui testimoni. Se uno come lui porta come testimoni tutti i presenti nell’elenco telefonico di Milano, i giudici non possono scegliere chi ascoltare e chi no, causando così la morte del processo, che diventerebbe eterno, non breve, come si fa credere all’opinione pubblica.

Se uno gode di un gruppo di avvocati come il suo (che grazie a questa legge elettorale, che impedisce ai cittadini di decidere, lui può far diventare deputati o ministri) può fare diventare il processo eterno e la prescrizione breve. Oltre tutto ciò, non capisco perché non si sia ancora arrivati ad una fase processuale in cui si discute dei mandanti occulti di questa strage, a meno che sotto non ci sia qualche altra cosa. Io ho dei validi elementi per sostenere che tra i mandanti occulti di questa strage ci sia in qualche modo quello che è il nostro Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che credo che oltre a difendersi dai processi attualmente in corso voglia difendersi soprattutto da quelli che non sono neanche potuti cominciare. Ci sono stati dei processi sui mandanti occulti, come quello di Tescaroli presso la procura di Caltanissetta, dove gli indagati si chiamavano alpha e beta oppure autore uno e autore due; beta ed autore due erano quel Marcello Dell’Utri condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, mentre invece alpha o autore uno erano lo stesso Silvio Berlusconi. La sentenza di archiviazione di Tescaroli, che non disponeva dei tempi tecnici per concludere l’istruttoria ma che ha lasciato diversi elementi validi, puntava alla riapertura del processo in futuro, come spesso fanno i pubblici ministeri. Il procedimento di archiviazione così concepito fu stravolto nelle motivazioni da Tinebra, cosa che portò Tescaroli a lasciare la procura di Caltanissetta e trasferirsi a Roma. Se questo non è un depistaggio, sicuramente è un altro ostacolo al corso della giustizia, che mi fa credere ancora di più che quella di via D’Amelio fu una strage di Stato.

La giustizia in Italia sembra avere due volti: da un lato, la procura di Caltanissetta riapre l’inchiesta su via D’Amelio; dall’altro, vediamo come troppo spesso le inchieste che includono nomi scomodi, come quelli degli alti ufficiali delle forze dell’ordine, scompaiono senza lasciar traccia. Come spieghi tutto ciò?

Così come accadeva ai tempi di Falcone e Borsellino che ci fossero dei giudici che li ostacolavano, anche oggi abbiamo dei coraggiosi magistrati che svolgono bene il proprio lavoro e che si contrappongono ad altri che lo svolgono in maniera poco trasparente, come accadeva d’altra parte anche col CSM retto da Mancino, e per ciò che ho detto riguardo quest’ultimo credo si capisca come abbia potuto influenzare gli indirizzi di quest’organo. Lo stesso Paolo Borsellino fu sottoposto ad un procedimento disciplinare per aver rilasciato un’intervista in cui denunciava la dissoluzione del pool di Palermo; non dimentichiamo che quando Caponnetto si dimise fu lo stesso CSM a volere come suo successore Meli piuttosto che Falcone, che rappresentava in qualche modo il suo erede naturale a capo del pool. Meli stesso, che affidava a Falcone casi di poco conto, ne causò l’allontanamento a Roma, dove, grazie all’influenza su Martelli, poté continuare la sua lotta. Purtroppo non esistono solo i Falcone o i Borsellino, ma anche gente come Signorino, che si suicidò dopo che Mutolo rivelò a Paolo che era venduto alla mafia, come Achille Toro, che complottò contro De Magistris, che si dimise dalla magistratura, e contro lo stesso Genchi.

La magistratura è un organo indipendente dallo Stato, ma come per tutte le istituzioni non tutte le persone sono degne del giuramento che hanno fatto alle stesse; come può succedere per la presidenza del consiglio o per altre istituzioni, può succedere anche per la magistratura.

Viene concessa la protezione al pentito Gaspare Spatuzza, si riapre il filone d’indagine su via D’Amelio e cominciano subito gli attacchi alla procura di Palermo e Caltanissetta, ed in particolare al dottor Ingroia, il tutto in un clima politico molto particolare. Si tratta della solita macchina del fango, o pensi a qualche strano meccanismo che possa dar vita ad un nuovo periodo stragista?

Più volte ho ripetuto questa cosa negli ultimi giorni: credo che questi attacchi siano cominciati quando Berlusconi, mi pare in occasione di un congresso del PDL, ha affermato che alcune procure stavano riaprendo le indagini su delle vecchie storie, sperperando del denaro pubblico. La trovo una cosa molto sospetta. Perché il Presidente del Consiglio fece quest’uscita? Aveva paura di qualcosa che poteva venire fuori dalla riapertura delle indagini? È forse una escusatio non petita o qualcosa del genere? Come può chiamare “vecchie storie” delle stragi come quelle di Via D’Amelio, di Capaci, di via dei Georgofili, il cui sangue non si è ancora potuto asciugare perché non è stata fatta giustizia? Mi piacerebbe che la gente si interrogasse su questo. Ritengo che stavolta non possiamo solo parlare di macchina del fango (si ricordi il giudice pedinato a cui sono stati fotografati i calzini), e di tutti quei procedimenti che hanno portato alla delegittimazione e all’estromissione dalla magistratura di De Magistris o di Clementina Forleo, o della procura di Salerno; credo invece che, vista l’importanza della situazione che si potrebbe venire a creare, si possa arrivare ancora una volta a dei metodi violenti, e questo me lo fa pensare anche l’analogia tra il periodo storico attuale ed il ’92: stiamo assistendo alla dissoluzione di una classe politica che sta annegando nello stesso fango di cui fino ad oggi si è alimentata. Devono nascere nuovi equilibri nel nostro Paese, Paese che si crede democratico ma che in momenti storici decisivi come questo ha sempre visto scorrere del sangue. Credo si stia attivando una sorta di “strategia della tensione”, e questo mi fa temere per la stessa vita di quei magistrati, che potrebbero andare incontro a dei metodi violenti che fino ad ora erano stati messi da parte.

Il nostro governo, ed il ministro Maroni in particolare, si fregia dei risultati ottenuti nella lotta contro la mafia, sottolineando sempre il numero di arresti effettuati. È reale tutto ciò?

Questo è un periodo in cui sono stati catturati svariati latitanti, e il governo si vanta di ciò; secondo me, invece, dovrebbe semplicemente vergognarsi e arrossire di fronte alle sue affermazioni. Credo che questi risultati delle forze dell’ordine siano ottenuti malgrado le azioni del governo, che prova e spesso riesce a togliere le armi agli stessi magistrati, come ha fatto snaturando la legge sui collaboratori di giustizia voluta proprio da Falcone e Borsellino, mettendo dei paletti secondo cui se un collaboratore di giustizia non parla entro un determinato lasso di tempo allora non può più parlare. Perché mettere questi paletti che non hanno assolutamente nessun significato se non quello di scoraggiare i collaboratori di giustizia, cosa che è accaduta anche con la protezione inizialmente negata a Spatuzza, che era esposto alle vendette della mafia, cosa che accade a chi ha la sventura di trovarsi nella situazione di un collaboratore di giustizia. Chi lo diventa, da un lato si assicura la vendetta, prima o poi, della criminalità organizzata che non dimentica, dall’altro non è protetto dallo Stato. Vogliono togliere alla magistratura il controllo della polizia giudiziaria, togliendo quindi assolutamente le armi; vogliono togliere l’obbligatorietà dell’azione penale, facendo diventare i reati da perseguire una cosa che deve essere stabilita dalla classe politica… Ci sono tutta una serie di provvedimenti che vanno in senso contrario rispetto alla lotta alla mafia. Lo stesso scudo fiscale non è altro che un riciclaggio di Stato, che permette ai criminali di far rientrare dei capitali pagando una cifra irrisoria. Ritengo dunque che il merito esclusivo di questo successo nei confronti della criminalità organizzata sia merito della magistratura e delle forze dell’ordine, e non di quel governo che fa addirittura la proposta di abolire il 41 bis. Questo si somma a tutti gli altri provvedimenti che vengono presi nei confronti di quella legislazione costruita anche grazie al sangue versato da persone come Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa e tanti altri, che qualcuno sta smantellando per pagare quelle cambiali contratte al momento della trattativa.

Gasparri ti ha definito “il fratello disistimato”, Ayala vuole farti passare per malato di mente, ma dall’altra parte vediamo come tantissimi giovani (e non) ti stimano e ti seguono, con te alla ricerca della verità. Chi è veramente Salvatore Borsellino?

Vorrei che chi è Salvatore Borsellino lo dicessero soprattutto quei tanti giovani che mi onorano della loro fiducia e che io stimo molto, e che costituiscono il nerbo di quello che è questo movimento delle agende rosse, movimento che combatte per la giustizia e per la verità. Di ciò che dice Gasparri non mi curo assolutamente, e credo sia appropriata quella battuta secondo cui lui avrebbe un unico neurone che si sente solo nel cervello; d’altra parte, visto che Gasparri non ha mai conosciuto mio fratello non so come abbia potuto fargli questa confidenza, cosa che a me non risulta. Mi hanno colpito più le affermazioni di Ayala, non tanto quelle in cui lui mi ha definito malato di mente, quanto quelle, per cui l’ho querelato (non civilmente, non mi interessano i risarcimenti, ma penalmente) in cui mi definiva un caino, e di cui deve rispondere in tribunale. Ripeto: lascio che siano quei giovani che lottano con me a giudicarmi. Io non sono altro che il fratello di Paolo Borsellino, e ho in me un grosso complesso di colpa: da un lato per aver abbandonato Palermo, scegliendo egoisticamente di andare via, mentre invece mio fratello ha fatto una scelta di amore, ed il fatto di essermi trovato a 1500 chilometri di distanza quando veniva assassinato; dall’altro per essere stato in silenzio, rassegnato, per dieci anni, dopo aver perso la speranza; speranza che nutrivo, ancora una volta da egoista, perché volevo vedere giustizia solo per me stesso, mentre solo dopo ho capito, dopo essermi mosso per rabbia, che dovevo cercare la verità per i giovani, e lotterò fino all’ultimo giorno della mia vita per far sì che questi giovani possano vedere la giustizia e vivere in un Paese migliore di quello che è oggi.

Secondo Dell’Utri, la mafia non esiste; secondo Sgarbi, è stata sconfitta. Ma allora di che stiamo parlando?

Capisco perché Dell’Utri dice che la mafia non esiste: d’altra parte, i mafiosi non la chiamano mafia, ma la chiamano Cosa Nostra. Forse è meglio chiedere direttamente a lui, visto che probabilmente è un appartenente ad essa organicamente, e non è solo un fiancheggiatore esterno. Di Sgarbi preferisco non parlare; ha minacciato di querelarmi (cosa che non ha mai fatto) quando come sindaco di Salemi ha offerto la cittadinanza onoraria a mia cognata Agnese e io mi sono ribellato. Lo considero un buon critico d’arte e nulla più di questo; ricordo i suoi continui attacchi alla magistratura quando gridava in faccia a magistrati come Caselli di essere addirittura degli assassini. Quindi mi interesserebbe sapere chi lo pagava per condurre quella trasmissione e a che scopo lo faceva.

Sia Falcone che tuo fratello credevano fermamente che la mafia si sarebbe potuta sconfiggere. Vent’anni dopo, qual è il tuo pensiero a riguardo? Quali pensi che potrebbero essere i mezzi per mettere fine a quest’incubo? Che consiglio ti senti di dare ai giovani?

Penso che la mafia si potrebbe sconfiggere soltanto se la si volesse sconfiggere. Ci sono però delle differenze. Se parliamo del braccio armato della mafia, quello si potrebbe sconfiggere in poco tempo se lo Stato piuttosto che scendere a trattative la combattesse frontalmente e non facesse gravare tutto il peso su quella magistratura che poi attacca alle spalle, così come fa il Presidente del Consiglio. La mano militare della mafia si potrebbe sconfiggere se cessasse quella rete di connivenze che ci sono tra lo Stato ed essa stessa, e se venisse combattuta globalmente, coralmente, non mandando degli uomini coraggiosi a morire da soli, come fu per Dalla Chiesa. Dunque una cosa è sconfiggere questo tipo di mafia, ed è possibile con l’impegno delle istituzioni e con dei provvedimenti legislativi necessari a combatterla anche in un regime di emergenza. È molto più difficile invece sconfiggere l’altro tipo di mafia, quella costituita da quella rete di contatti e connivenze tra quegli uomini, anche professionisti, che fa affari con essa, e la cui unica soluzione sembra essere un ricambio generazionale. Basta ricordare le parole di mio fratello, in uno dei suoi più bei discorsi, che quando parla di lotta alla mafia usa queste parole: “La lotta alla mafia, primo problema morale da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale”. In queste parole c’è la chiave della lotta alla mafia, che va combattuta nelle famiglie, nelle scuole, all’interno della coscienza civile, vista come un problema culturale, e in questo caso ha un processo sicuramente più lungo. Questo è tanto vero quanto è vero il fatto che ad oggi anziché cambiare la Sicilia si è “sicilianizzata” l’Italia; quella criminalità organizzata sviluppata soprattutto nel sud del nostro Paese si è poi diffusa, e purtroppo sono stati mutuati certi meccanismi di omertà e connivenza. Concludendo, il processo di cui parlava Paolo, di cui parlava Giovanni, di sconfitta della mafia, purtroppo non lo vedo vicino. Sicuramente è possibile, ma lo sarà quando sarà tutta la coscienza civile, tutto lo Stato, sia come istituzione che come cittadini, a volere veramente l’eliminazione della mafia, e questo purtroppo è un processo, anche se certo e sicuro, lungo e difficile.

Quanto sopra riporta fedelmente le dichiarazioni di Salvatore Borsellino.Giuseppe Campisi e Luca Bardaro (amedit.wordpress.com, 23-09-2011)