Patente di pentito a Spatuzza: meglio tardi che mai

di ImageMonica Centofante – 8 settembre 2011

 

 

E’ stato tenuto sulla graticola per oltre un anno. Ma per ammettere Gaspare Spatuzza, già nel giugno del 2010, allo speciale programma di protezione per i collaboratori di giustizia sarebbe stato sufficiente applicare il codice.

Chissà se fingeva di non saperlo o magari non lo sapeva davvero il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, ossia il Presidente della commissione sui programmi di protezione, che finché ha potuto si è opposto strenuamente alla concessione a Spatuzza della patente di pentito chiesta dalla Dna e da tre procure della Repubblica. Motivo: il collaborante aveva reso “dichiarazioni significative oltre il termine di 180 giorni previsto dalla legge”. Laddove per “dichiarazioni significative” si intendevano le accuse mosse a Berlusconi e Dell’Utri, che negli anni delle stragi avrebbero trattato con il capo del mandamento di Brancaccio Giuseppe Graviano, cosa che il pentito avrebbe saputo dallo stesso boss.

Per le altre rivelazioni di Spatuzza, comprese quelle che avevano permesso la riapertura delle indagini sulla fase esecutiva della strage di Via D’Amelio, la Commissione non aveva avuto infatti nulla da obiettare, ma quando l’attenzione del pentito si era spostata dall’ala militare ai sistemi di collusione con la politica Mantovano e gli altri (quasi tutti) avevano storto il naso. E pochi giorni prima della sentenza di appello contro il senatore Dell’Utri (che sarebbe stato poi condannato a 7 anni di reclusione) – “rischiando” di gettare ombre sulla genuinità delle dichiarazioni del pentito che era stato ascoltato in quel processo – avevano negato l’inserimento di Spatuzza nel programma di protezione. Sostenendo con forza: “Dobbiamo impedire le dichiarazioni a rate”.

Eppure la tesi della tardività, proposta dalla difesa dell’imputato Dell’Utri, era già stata bocciata dalla Corte d’Appello che giudicava il politico del Pdl mentre il senatore dell’Idv, avvocato Luigi Li Gotti era intervenuto immediatamente, spiegando che le dichiarazioni cosiddette de relato (quelle che Spatuzza aveva appreso da Graviano ndr.), come previsto dall’art. 195 del codice di procedura penale, non sono sottoposte alla legge dei 180 giorni. Un particolare, aveva sottolineato Li Gotti, legale di molti collaboratori di giustizia, che “consente di affermare la debolezza giuridica della motivazione e un evidente errore frutto di chiara sciatteria”. Che porta con sé “un messaggio devastante a possibili future collaborazioni”.

Un anno più tardi gli ha dato ragione il Tar del Lazio, che il 9 giugno scorso ha annullato la decisione della Commissione centrale per i testimoni e collaboratori di giustizia spiegando, lo riporta lo stesso Mantovano, che “quelle dichiarazioni, benché tardive, non precludono l’ammissione al programma di protezione in quanto riguardano non conoscenze dirette, ma dati appresi da altri”. E dal momento che la sentenza del Tar è immediatamente esecutiva la Commissione, se ne lava le mani il sottosegretario, è costretta ad eseguirla. Poi accampa qualche scusa: la Direzione Nazionale Antimafia e le distrettuali di Caltanissetta, Firenze e Palermo “hanno di recente fornito nuovi importanti elementi informativi, ulteriori rispetto a quelli a disposizione della Commissione centrale all’epoca della decisione del giugno 2010”. Ma sembra non ne sappiano nulla i magistrati palermitani, mentre quelli di Caltanissetta avrebbero inviato soltanto una relazione sulle dichiarazioni del neo-collaboratore di giustizia Fabio Tranchina, che ha confermato molte rivelazioni di Spatuzza.
Nulla di nuovo quindi, né nei documenti delle procure né sotto il sole.

Fonte:Antimafiaduemila
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