Affari e segreti dell'accusatore di Dell'Utri

di MonicaImage Centofante

 

 

Fu prima amico e socio in affari dei fratelli Marcello e Alberto Dell’Utri, poi grande accusatore del senatore del Pdl che nel giugno dell’anno scorso è stato condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Filippo Alberto Rapisarda, imprenditore e faccendiere, originario di Sommatino (Cl) è morto ieri all’età di 71 anni a Milano, dove già negli anni Settanta era al vertice del terzo gruppo immobiliare italiano. Una vita spesa tra gli affari e le cattive compagnie, da sempre legato, per vari motivi, a soggetti più che vicini alla criminalità organizzata e più volte ospite nelle aule di Giustizia, come imputato o come testimone a raccontare verità non sempre riscontrate.
In stretti rapporti fino agli anni Novanta con Marcello Dell’Utri, e fra gli animatori di uno dei primi club di Forza Italia, fu il primo a chiamare in causa i contatti dello stesso Dell’Utri e di Silvio Berlusconi da una parte e i boss di Cosa Nostra Stefano Bontade e Mimmo Teresi dall’altra. Accusando i primi di aver riciclato il denaro dei potenti capimafia e di altri soggetti appartenenti alla criminalità organizzata.
Era il 1987 quando al giudice istruttore milanese Giorgio Della Lucia, aveva raccontato di un incontro, risalente al 1978, con i due boss nel corso del quale sarebbe stato Teresi a confidargli “che stava per entrare in società con Silvio Berlusconi in una azienda televisiva per cui servivano 10 miliardi”. E successivamente aveva visto quei soldi nell’ufficio di Dell’Utri alla Bresciano costruzioni, mentre Bontade e Teresi li riponevano in una sacca e lo stesso Dell’Utri era al telefono con l’imprenditore di Milano 2. Non un caso isolato perché nel 1980 – 81, avrebbe aggiunto dieci anni più tardi, Dell’Utri “aveva chiesto e ottenuto dal Bontade e dal Teresi un finanziamento di 20 miliardi da utilizzare per l’acquisto di pacchetti film”.
La prova di quell’attività di riciclaggio non sarebbe mai stata raggiunta, ma è vero che nel corso delle indagini gli inquirenti avevano raccolto le testimonianze di diversi collaboratori di giustizia, sicuri di quei contatti tra Dell’Utri, Bontade e Teresi in relazione alla nascita delle televisioni del gruppo Fininvest. E tra questi Francesco Di Carlo, il pentito che aveva raccontato del famoso incontro tra Berlusconi, Dell’Utri, Bontade e altri boss negli uffici della Edilnord, nel 1974. Incontro che aveva dato il via al rapporto di do tu des tra l’imprenditore milanese (mai indagato) e gli uomini di Cosa Nostra, mediato dall’amico Marcello, che per questo sarà condannato a Palermo per concorso esterno.
Al processo contro il senatore, Di Carlo aveva parlato dei soldi guadagnati da Cosa Nostra con il traffico dalla droga e ripuliti sulla piazza milanese grazie anche a quei soggetti “che ho visto di presenza”: “L’industriale Berlusconi” che “ancora non era onorevole, o Dell’Utri che non era né onorevole e nemmeno industriale”.
Anche le indagini della Dia era giunte a conclusioni sconcertanti su alcune società del gruppo televisivo Fininvest a cui erano interessati soggetti vicini all’associazione mafiosa mentre gli inquirenti avevano tentato di analizzare il complesso iter di trasferimenti di quote che aveva riguardato molte delle holding dello stesso gruppo senza riuscire a raggiungere risultati definitivi.
Le consulenze tecniche non poterono essere completate per lo spirare dei termini d’indagine e il materiale a disposizione dei consulenti di accusa e difesa non era riuscito a chiarire la natura di alcune anomale operazioni finanziarie e ad escludere definitivamente che Marcello Dell’Utri avesse utilizzato la Fininvest per la sua attività di riciclaggio.
Una domanda rimasta aperta alla quale, forse, Rapisarda avrebbe potuto rispondere se un giorno avesse davvero mantenuto fede a quella promessa, più volte disattesa, di vuotare veramente il sacco e raccontare tutto su quegli affari milanesi. Sui fratelli Alberto e Marcello Dell’Utri assunti nel 1977 nel suo gruppo immobiliare, quando l’amico Marcello, che aveva da poco lasciato la villa di Arcore, si era presentato nel suo ufficio accompagnato da Gaetano Cinà che, aveva specificato Rapisarda, “non rappresentava solo se stesso, bensì il gruppo in odore di mafia facente capo a Bontade e Teresi”. I capi di Cosa Nostra. Gli stessi che avevano finanziato la sua vertiginosa ascesa imprenditoriale.
In quegli anni diverse erano le società che facevano capo a Rapisarda. Tra queste la Bresciano Spa, impresa di costruzione; la Cofire spa, Compagnia Fiduciaria di Consulenze e Revisione; la Inim spa, internazionale immobiliare (poi andata in bancarotta), nella cui compagine sociale appariva Francesco Paolo Alamia, soggetto notoriamente in rapporti con Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo e padre di Massimo Ciancimino. Lo stesso Massimo Ciancimino che molti anni più tardi avrebbe avviato una controversa collaborazione con la giustizia e che, tra le altre cose, avrebbe messo a disposizione dei magistrati un foglio di appunti sul quale il padre aveva annotato: “Berlusconi – Ciancimino”, “Marcello Dell’Utri, Milano – truffa bancarotta, Ciancimino Alamia, Dell’Utri Alberto”.
Di Alamia, in termini molto simili, aveva parlato anche il pentito Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”. Ai magistrati aveva raccontato di un suo colloquio con Stefano Bontade che parlando del Dell’Utri gli aveva accennato ai suoi rapporti con “un certo Alamia” e con Vito Ciancimino. In merito a quest’ultimo ”mi disse che stava… il Dell’Utri curava problemi finanziari del Ciancimino, inerenti a questa società di costruzioni con l’Alamia”. Accuse che non hanno trovato un definitivo riscontro, anche se hanno lasciato diverse zone d’ombra. Ma questa è un’altra storia.