Com'e' difficile spiegare la mafia

di Nicola Tranfaglia – 2 agosto 2011
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La novità sui terribili avvenimenti del ‘92 è che nessuno aveva capito niente sulle stragi di quell’anno, sul brutale assassinio con l’esplosivo di Falcone e Borsellino, sul proseguimento dell’attacco stragista al Centro e al Nord per vincere la guerra e trattare con la classe dirigente italiana.

E neppure si capì l’uccisione dell’on. Lima come il primo possibile contro quei politici che avevano collaborato con la mafia e che perciò subito dopo approvarono una legislazione dura ed efficace contro Cosa Nostra. Non fu la reazione popolare dopo gli assassini che pure c’era stata a determinare quella rapida risposta, ma il terrore che la strategia mafiosa si concentrasse proprio contro quelli che avevano tradito.

Due elementi decisivi ci fanno capire finalmente quello che 19 anni fa era del tutto oscuro: le indagini dei giudici siciliani che ormai sono vicini a decidere la riapertura del procedimento per l’assassinio di Borsellino, le ricerche degli scienziati sociali che hanno preso di nuovo in esame le organizzazioni mafiose e hanno verificato i radicali cambiamenti che sono avvenuti. È emerso con chiarezza alla Festa nazionale di Libera a Firenze che la novità maggiore nello sviluppo delle associazioni mafiose italiane è stata la loro capacità di trasformarsi in imprese economiche e finanziarie di grande rilievo e di diventare attori importanti dell’economia internazionale. Lo dimostra tra l’altro il Rapporto appena pubblicato dalla Fondazione Res, sotto la direzione di Pier Francesco Asso e Carlo Trigilia, nel volume Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno a cura di Rocco Sciarrone (Donzelli editore). Ma in che senso e attraverso quali modalità il volto della mafia nel nostro Paese, ma anche in Europa e nel mondo, è cambiato rispetto al Novecento? E quali sono gli effetti che il cambiamento ha nella nostra società? È soprattutto a questi interrogativi che bisogna rispondere per superare i vecchi stereotipi che le televisioni hanno continuato a tramandare.

Il primo stereotipo riguarda l’identità del mafioso. Violento, non molto civilizzato, di origine proletaria. Insomma un contadino o un allevatore. Non un borghese e tanto meno uno che ha studiato e che fa una professione tecnica o umanistica. Questo non è più vero: basta pensare al medico Guttadauro di Palermo Brancaccio o all’architetto Liga di Tommaso Lorenzo Natale. Borghesi e professionisti che, nello stesso tempo, gestiscono l’associazione mafiosa e fanno la loro professione. Il secondo riguarda i rami preferiti dall’attività mafiosa. Non più soltanto quelli tradizionali del commercio o quelli soliti come il traffico di cocaina e gli appalti pubblici,   ma i rami nuovi come i rifiuti, le energie rinnovabili, la sanità, i trasporti, il governo del territorio, lo scambio immobiliare, la catena alimentare, prima di tutto ma non solo in Campania, Calabria, Sicilia ma anche nelle capitali politiche e finanziarie del paese: Roma, Torino, Milano.

E ancora i rapporti interni nel governo degli affari in cui i mafiosi convivono e acquistano peso rispetto ai politici, ai funzionari pubblici, agli amministratori, agli imprenditori. Oggi è difficile parlare di mafia e politica perché i politici contano poco e sono, a loro volta, guidati e dominati dalla ricerca costante del successo attraverso i voti e il denaro. L’obiettivo centrale da parte delle associazioni mafiose resta quello degli affari economici e finanziari e dell’uso dello Stato e delle istituzioni per ottenere un profitto parassitario e, in questa direzione, trovano interlocutori compiacenti in tutte le categorie appena indicate. E questo avviene sempre di più in una società che ha messo da parte le ideologie ed è incapace di osservare regole neppure lontanamente simili a quelle che i Costituenti hanno scritto nel 1948. L’attività di repressione viene compiuta con sempre più difficoltà per i tagli e i pochi mezzi a disposizione della polizia e della magistratura, ma è costretta a fermarsi alla superficie per la scarsa (o nulla) volontà politica di chi governa di risolvere una volta per tutte il problema della mafia. Potremmo aggiungere per la difficoltà di capire che la battaglia è culturale prima ancora che politica e istituzionale. Da questo punto di vista vale la pena ricordare, dopo aver letto le tante storie raggelanti che emergono dal rapporto della Res, che se si chiede ai giovani, anche a quelli che hanno un’effettiva sensibilità rispetto al problema della mafia grazie ai loro insegnanti, le risposte fanno riflettere.

A leggere con attenzione un’indagine condotta nelle scuole secondarie del Lazio e della Toscana dall’Associazione Libera di don Luigi Ciotti e pubblicata in questi giorni emergono tre elementi critici, la difficoltà dei giovani di ricordare personaggi di grande rilievo nella lotta contro la mafia come il giudice Chinnici o il giornalista Giuseppe Fava, il giudizio fortemente negativo che le nuove generazioni hanno verso tutta la classe politica e infine una concezione della difesa della legalità confusa e insoddisfacente. Insomma, alla fine si ha la netta sensazione di una scarsa attenzione delle precedenti generazioni e delle loro classi dirigenti e di una voluta incapacità a trasmettere il senso di quello che è successo. E questo è piuttosto preoccupante.

Tratto da:
Il Fatto Quotidiano