Ma io non ho riserve: questo non e' un ministro

di Claudio Fava – 26 marzo 2011
Quando finiremo di giudicare «con riserva» l’inadeguatezza morale della classe politica italiana?
Quando decideremo di prescindere dalle sentenze dei magistrati e di valutare nel merito – per ciò che sono, per ciò che rappresentano – i gesti, gli atti, i comportamenti, le omissioni, le amicizie, le menzogne senza attendere il giudizio di Dio o dei tribunali? Quando saremo disposti a utilizzare codici di civiltà, e a pretendere comportamenti di limpidezza politica, senza ostinarci a frugare prima nei codici penali?
Con Saverio Romano, neoministro dell’Agricoltura per conto della pattuglia di ascari che ha offerto in Parlamento il proprio sostegno alla maggioranza, questo sforzo di verità e di responsabilità non è stato fatto. Nemmeno dal Quirinale, che ha scelto di controfirmare con riserva la nomina di Romano. Sbagliando. Perché Romano, per storia giudiziaria e politica, per l’opacità di certi suoi comportamenti, per la contiguità con ambienti di frontiera mafiosa, il ministro non merita di farlo. E l’Italia non lo merita come ministro.
Sonovent’anni esatti dall’incontro che Romano organizzò tra il suo vecchio amico Totò Cuffaro e Angelo Siino, all’epoca incensurato ma già ai vertici dell’organizzazione mafiosa che rappresentava in qualità di «ministro dei lavori pubblici»: appalti, forniture, tangenti. Correva la campagna elettorale del 1991, in Sicilia si votava per il consiglio regionale e tutti i voti erano preziosi: servivano non solo a farsi eleggere ma soprattutto a definire i rapporti di forza dentro i partiti, a prenotarsi ribalte nei futuri assetti di governo, insomma una moneta da spendere bene e presto. E Siino di voti poteva muoverne parecchi, visto il suo rango dentro Cosa Nostra.
Vent’anni dopo Cuffaro è a Rebibbia mentre Romano sale al Quirinale a giurare come ministro. Nulla da eccepire sul piano formale: il primo è stato condannato con sentenza definitiva, l’altro no. Ma sul piano della sostanza politica e morale, i due si rassomigliano: stessa vischiosità nelle frequentazioni, stesse opacità nella costruzione del consenso.
Sul destino di Saverio Romano pende oggi la decisione di un Gip per un procedimento che lo ha visto indagato di concorso in associazione mafiosa. E un altro procedimento è stato aperto per un sospetto di corruzione aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra: denari incassati dal figlio di Ciancimino per facilitare il cammino di certi suoi affari.
Per un cittadino italiano, il sospetto d’aver favorito o utilizzato i favori della mafia è già in sé grave.
Diventa gravissimo se quel cittadino è un uomo politico, eletto nelle istituzioni anzitutto per garantirne l’impermeabilità e la lealtà. E’ un sospetto devastante se quel politico è siciliano, se i voti che ha raccolto gli sono arrivati da donne e uomini di una terra in cui la mafia ha scannato in cinquant’anni più di tremila persone. “Contiguità” ha scritto il pubblico ministero: non abbastanza per mandare sotto processo ma sufficiente per pretendere più d’una “riserva” quando ti propongono di fare il ministro. Insomma, posso chiedere, legittimamente chiedere che un ministro della mia Repubblica non abbia mai incontrato in vita sua un capomafia, tantomeno per chiederne favori elettorali? Posso scrivere che poco m’importa quanto fosse acclarata la fama di quel capomafia alla data dell’incontro? Questo è un dettaglio che interessa i magistrati, non i cittadini né il decoro delle istituzioni.
Quando parliamo di clandestini e di abusivi, il pensiero corre subito a chi viene da altri mondi e da altre disperazioni. Ecco, mi piacerebbe declinare diversamente queste parole, restituire ad esse un po’ di verità. Clandestini, abusivi, in Italia non sono gli scampati dalle guerre civili nel Maghrebma quelli come Saverio Romano, Nicola Cosentino e Marcello Dell’Utri: occupano abusivamente, da clandestini, il loro posto nel parlamento e nel governo italiano. Se aspettiamo che lo sfratto glielo diano i giudici, rischiamo di dar ragione a chi sente il tintinnio delle manette sulle sorti della repubblica. A me piacerebbe ascoltare invece il rumore delle coscienze, la risacca di un’indignazione che non può limitarsi a esprimere garbate riserve. Ma che deve trovare il coraggio, di fronte agli italiani, di rispondere a certe richieste irricevibili come faceva Bartleby lo scrivano: preferire di no.

Tratto da: l’Unità