Questa rabbia sacrosanta. Ma sterile

di Alessio Mannino – ilribelle.com.

Nelle pseudo-democrazie come la nostra, la violenza è un tabù. È vietato non solo praticarla, perché rompe il quadretto falso e idilliaco del “migliore dei mondi possibili”, ma perfino provare a comprenderla. Di qui il coro compatto e idiota che da destra a sinistra ha marchiato i manifestanti che martedì 14 dicembre hanno messo a ferro e fuoco Roma come una canaglia di teppisti. 100 mila fra studenti armati di libri (i “Black Books”), di precari dell’università, di operai, di comitati sparsi per il paese, di sindacati, di partiti e di associazioni sono stati fatti scomparire dalla cronache per far posto all’allarme per i famigerati Blocchi Neri (“Black Bloc”), gli antagonisti di estrema sinistra, i centri sociali.

La tecnica della criminalizzazione ha oscurato le motivazioni della protesta, negando il bisogno di rivolta che cova nell’Italia censurata dalla televisione. È in questo meccanismo in cui le vittime (i contestatori) diventano complici dei carnefici (il sistema politico-mediatico) facendo ciò che questi ultimi si aspettano (atti di rabbia incontrollata) che si fonda il circuito perverso della tabuizzazione. Per spezzarlo, la rabbia dovrebbe trasformarsi in violenza politica, cioè in forza di ribellione organizzata, strategica e sostenuta da idee forti diffuse nel senso comune. Niente di tutto questo esiste, allo stato attuale. Non ci sono, come si dice, le condizioni storiche.

E allora i tumulti di piazza dell’altro giorno si possono sì capire. Si può stare dalla parte dei ragazzi che pestano e rischiano di essere pestati, dato che rappresentano la reazione brutale al modo soft, sottile, viscido, e in quanto tale ancor più inaccettabile, di reprimere la disperazione di massa: i sempre più larghi strati di società che non ce la fanno più a vivere dignitosamente vanno in bestia perché sono considerati invisibili, obiezioni viventi alla propaganda del benessere. Ma non si possono osannare. Perché il puro sfogo di strada non porta a nulla. È stupido e controproducente, perché, come abbiamo visto, fa comodo al Potere. Ed è autolesionista, perché soddisfa per poco la voglia di “fargliela vedere”, di menar le mani, di mostrare all’universo mondo che c’è chi lotta in mezzo a noi, per poi tornare al proprio microcosmo, alla ridotte del dissenso che si auto-appaga (il centro sociale, la formazione extraparlamentare ecc).

Affinché la scarica di rabbia faccia il salto di qualità e divenga, alla Sorel, violenza politica, a nostro avviso sono necessari tre elementi. Il primo è ideologico: la forza fisica dev’essere strumento di un pensiero che detti obbiettivi di fondo, mete a lungo raggio, miti in cui credere e riti in cui identificarsi. A cosa mirava la guerriglia scatenata contro la zona rossa della capitale? Alla contestazione del governo Berlusconi, della riforma Gelmini e, genericamente e confusamente, delle banche e della Borsa. Senza una chiara ed esplicita visione alternativa, però. Senza una diagnosi della realtà che non ripeti a pappagallo formule vecchie, superate, sessantottarde o, se va bene, vetero-marxiste. Senza il respiro lungo di una concezione coerente, strutturata, condivisa che opponga a questo modello di vita un altro modello. Né uno slogan né una voce che vada al di là del no, pur sacrosanto, alla precarietà del lavoro, ai tagli nelle scuole e atenei, alla mercificazione della conoscenza. La rivolta di pancia si ferma all’atto di sfasciare camionette e cassonetti, e non diventa ribellione di testa.

E non ci riesce anche perché priva del secondo elemento, di tipo operativo: la strategia. I riots di Roma saranno stati sì opera di “professionisti”, di gente abituata a dare l’assalto agli “sbirri”, a cui si sono pure accodati giovani e giovanissimi inesperti (i 26 fermati, eccezion fatta per uno mandato ai domiciliari, sono stati rilasciati tutti perché le accuse non reggevano: come mai i “black bloc” incappucciati e manganellatori non saltano mai fuori, in questi arresti sommari?). Ma dietro non hanno associazioni di massa. Non svolgono le operazioni sul campo di un disegno premeditato di destabilizzazione. Non sono l’avanguardia di centrali politiche come un tempo potevano essere i partiti anti-sistema, semmai sono l’avanguardia di sé stessi. Al massimo, si tratta dei più scalmanati di enclaves autoreferenziali appartenenti alla galassia antagonista. Manca un centro decisionale che pianifichi un’agenda di azioni secondo uno sviluppo politico. È tutto molto spontaneo, romantico, individualistico, gruppettaro. Ma tutto molto sterile.

Il terzo elemento è propriamente politico. Forme di lotta violenta possono essere utili e liberatorie se incontrano il consenso e la simpatia di una parte consistente della società. Nella Storia ogni cambiamento radicale è stato accompagnato dalla violenza poiché questa trovava terreno fertile in uno scontento abbastanza profondo e senza ritorno da farla apparire come una violenza giusta. È l’egemonia politica a rendere il sangue giustificabile e addirittura desiderabile: dalla Rivoluzione di Cromwell a quella Americana a quella Francese fino a quella d’Ottobre, dallo squadrismo fascista al terrore nazista all’insurrezione castrista, è il favore popolare a sancire la giustezza della politica armata. È la potenza assunta in seno all’opinione pubblica a decretare il carattere positivo o negativo di un atto in sé puramente criminale com’è contrapporre la forza illegale del ribelle-rivoluzionario alla forza legale di chi difende lo Stato. Il nostro non è un giudizio di valore su queste epopee tragiche e le idee, sbagliate o giuste, che la animarono. È un’analisi storica.

Le jacqueries senza scopo né organizzazione (e senza “soggettività politica”, come ha scritto il Corriere della Sera di ieri mettendo le mani avanti con orrore) sono comprensibili e non vanno condannate come fanno i Saviano con i loro ipocriti sermoni non-violenti su Repubblica, l’altro giornale di regime. Ma sono inutili. Purtroppo.

Tratto da :Megachip