Cambiare la dieta a base di carne potrebbero produrre grandi compensazioni alle emissioni di CO2

Per soddisfare l’attuale domanda globale di carne e latticini serve oltre l’80% della superficie agricola della Terra

«Mangiare meno carne e latticini a favore di proteine ​​vegetali come quelle che si trovano nei cereali, nei legumi e nelle noci potrebbe fare un’enorme differenza nella quantità di anidride carbonica che raggiunge l’atmosfera», A dimostrarlo è lo studio “The carbon opportunity cost of animal-sourced food production on land” pubblicato su Nature Sustainability da un team guidato da William Ripple dell’Oregon State University (OSU)  – che comprende anche ricercatori della New York University, della Colorado State University e dell’Harvard University –  che descrive dettagliatamente come i terreni agricoli dedicati alla produzione di cibo di origine animale mettono a dura prova le foreste e altra vegetazione autoctona adatta ad assorbire CO2.

Ripple, che insegna al College of Forestrydell’OSU, spiega che «Gli alimenti a base di proteine ​​vegetali forniscono importanti nutrienti mentre richiedono una piccola percentuale di territorio rispetto a una fattoria e un  ranch necessari per produrre prodotti animali come carne di manzo, maiale e latte. Tramite la fotosintesi, alberi e altra vegetazione generano energia dalla luce solare, acqua e anidride carbonica, immagazzinando parte del carbonio sotto forma di legno e fogliame e rilasciando ossigeno».

Dalla ricerca per lo studio realizzata da Matthew Hayek della New York University viene fuori che «La terra necessaria per soddisfare l’attuale domanda globale di carne e prodotti lattiero-caseari costituisce oltre l’80% della superficie agricola della Terra»

I ricercatori sono convinti che se spostassimo la produzione verso alimenti più rispettosi della terra, la conseguente ricrescita della vegetazione autoctona sarebbe in grado di spazzare via anni di emissioni di combustibili fossili climalteranti.

Gli scienziati statunitensi hanno mappato e analizzato le aree nelle quali la produzione estensiva di alimenti di origine animale sta probabilmente eliminando le foreste e altra vegetazione autoctona e ne hanno identificato oltre 7 milioni di Km2 – all’incirca le dimensioni della Russia, il più esteso Paese del mondo – «con condizioni tali che le foreste ricrescerebbero e prospererebbero da sole se venisse tolta la pressione agricola fosse».

Dall’inizio dell’era industriale, l’’anidride carbonica atmosferica è aumentata del 40%, provocando un rapido  riscaldamento del pianeta. Secondo la National atmospheric and oceanic administration Usa (Noaa), nel 2018 la concentrazione media globale di CO2 atmosferica era di  407,4 parti per milione, superiore a qualsiasi periodo negli ultimi 800.000 anni.

All’Osu spiegano ancora che «I combustibili fossili come il carbone e il petrolio contengono carbonio che le piante hanno estratto dall’atmosfera attraverso la fotosintesi nel corso di milioni di anni. Lo stesso carbonio viene ora restituito all’atmosfera nel giro di centinaia di anni perché i combustibili fossili vengono bruciati per produrre energia». Secondo la Noaa, il tasso annuo di aumento della CO2 atmosferica negli ultimi sei decenni è circa 100 volte più veloce degli aumenti derivanti da cause naturali, come quelli verificatisi dopo l’ultima era glaciale, più di 10.000 anni fa.

A differenza dell’ossigeno o dell’azoto, i gas serra assorbono il calore e lo rilasciano gradualmente nel tempo e se non ci fossero la temperatura media annuale del pianeta sarebbe sotto lo zero, ma livelli troppo alti di gas serra causano uno sbilanciamento energetico della Terra.

Sono gli Stati relativamente ricchi – come l’Italia – ad avere il maggiore potenziale per la ricrescita forestale a beneficio del clima e gli scienziati  fanno notare che in questi Paesi, «I tagli alla produzione di carne e latticini porterebbero impatti relativamente lievi sulla sicurezza alimentare, contribuendo in modo sostanziale a limitare il cambiamento climatico a 1,5 gradi Celsius sopra i livelli di età preindustriale come richiesto dall’Accordo di Parigi del 2016».

La maggioranza dei climatologi concorda sul fatto che limitare il riscaldamento a 1,5 gradi salverebbe molti ecosistemi essenziali e andrebbe a vantaggio della salute umana e delle economie.

Hayek  evidenzia che «Possiamo pensare di cambiare le nostre abitudini alimentari con diete land-friendly, come un supplemento allo sviluppo di energia verde, piuttosto che come un sostituto. Il ripristino delle foreste native potrebbe far guadagnare ai Paesi un po’ del tempo tanto necessario per fare la transizione delle loro reti energetiche verso infrastrutture rinnovabili e fossil-free».

Secondo il team di ricercatori statunitensi, le loro scoperte puntano ad aiutare gli amministratori locali che cercano di elaborare piani per mitigare il cambiamento climatico. Ma uno degli autori dello studio, Nathaniel Mueller della Colorado State University, riconosce che «Mentre il potenziale per il ripristino degli ecosistemi è notevole, l’allevamento animale estensivo è culturalmente ed economicamente importante in molte regioni del mondo. In definitiva, i nostri risultati possono aiutare a individuare i luoghi in cui il ripristino degli ecosistemi e l’arresto della deforestazione in corso avrebbero i maggiori benefici per il carbonio».

Ripple conclude:«Ridurre la produzione di carne aiuterebbe anche la qualità e la quantità dell’acqua, l’habitat della fauna selvatica e la biodiversità, inclusa la promozione della salute degli ecosistemi che aiuta a contrastare le malattie pandemiche originate dagli animali, come si ritiene che sia il Covid-19. Ecosistemi intatti e funzionanti e habitat della fauna selvatica preservati contribuiscono a ridurre il rischio di pandemie. La nostra ricerca dimostra che con il cambiamento della dieta, abbiamo l’opportunità di restituire ampie aree alla natura e alla fauna selvatica con un impatto relativamente minimo sulla sicurezza alimentare. Il ripristino dell’ecosistema e la riduzione delle popolazioni di bestiame potrebbero ridurre la trasmissione delle malattie zoonotiche, che passano dalla fauna selvatica ai polli o ai maiali e, in ultima analisi, alle persone».

fonte: greenreport.it