Emergenza Coronavirus: lo Stato dica ai boss di restare in carcere
Dopo la morte del capomafia Sucato nuove pressioni per fare uscire i detenuti
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Il decesso del boss di Cosa nostra Vincenzo Sucato,
ultra settantenne, arrestato nel dicembre 2018 nell’ambito
dell’operazione Cupola 2.0 in quanto ritenuto appartenente alla famiglia
di Misilmeri, paese vicino Palermo, riapre nuovamente il dibattito sul
sovraffollamento delle carceri in questo delicato momento di emergenza
sanitaria nazionale. Infatti, secondo quanto emerso, è morto in ospedale, dove si trovava in quanto ricoverato per una serie di patologie, a causa del Coronavirus.
Immediatamente
penalisti, associazioni per i diritti dei detenuti, politici, hanno
colto la palla al balzo per tornare alla carica addosso al governo dopo
che, con il decreto Cura Italia,
si erano già espressi sul tema carceri, prevedendo gli arresti
domiciliari per i detenuti che abbiano una condanna “non superiore a 18
mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena”, proprio per
intervenire sulla situazione di emergenza ed evitare gli affollamenti
negli istituti di pena.
Si diceva anche che dalla norma venivano
esclusi “coloro che abbiano commesso reati particolarmente gravi, come
ad esempio quelli richiamati dall’articolo 4 bis dell’ordinamento
penitenziario, maltrattamenti in famiglia o stalking, coloro che abbiano
partecipato alle rivolte dei giorni scorsi e quei detenuti che siano
privi di domicilio effettivo e idoneo, anche in funzione delle esigenze
di tutela delle persone offese dal reato”.
E’ notizia di oggi, però, che Vincenzino Iannazzo,
65 anni, capo dell’omonima cosca mafiosa di Lamezia Terme, coinvolto
nell’operazione Andromeda e già condannato in appello a 14 anni e 6 mesi
di reclusione e ora in attesa della sentenza davanti alla Corte di
Cassazione, lascerà il carcere di Spoleto per gli arresti domiciliari.
Lo
ha deciso, con ordinanza datata 1 aprile, la Seconda sezione della
Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, riunita in videoconferenza via Skype, su istanza dei legali del boss.
Nel
documento è specificato che il provvedimento è stato emesso “in
relazione alla compatibilità del regime carcerario, rispetto alle
condizioni di salute, e in considerazione dell’attuale emergenza
epidemiologica”, dando atto che si tratta di un “soggetto
particolarmente a rischio”. E la decisione è stata presa anche se, allo
stato, non sono stati registrati a Spoleto “casi di contagio in carcere e
il detenuto risulti in parte protetto dall’essere sistemato in cella
singola”.
Ovviamente i domiciliari, alla cui concessione si era
opposto il sostituto procuratore generale, sono stati concessi previa
applicazione del “braccialetto elettronico”, “anche in relazione alla
posizione apicale rivestita dall’interessato”.
Dunque
non era affatto fuori luogo l’allarme lanciato dai magistrati Nino Di
Matteo e Sebastiano Ardita in sede di Plenum del Csm, chiamato a dare un
parere sul decreto del governo. Entrambi avevano
evidenziato i rischi che si nascondevano dietro il provvedimento,
definendolo “indulto mascherato”. Un concetto ribadito anche oggi,
intervistato da Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano: “Rende
possibile la scarcerazione di migliaia di detenuti senza permettere al
magistrato di sorveglianza una adeguata istruttoria su chi viene
scarcerato, senza che possa valutare se esiste il pericolo di fuga e di
reiterazione del reato. È stato creato un automatismo analogo a quello
dell’indulto. Anzi, questo è peggio. Perché almeno l’indulto è una
decisione dei politici che se ne assumono la responsabilità. Qui invece
la scaricano formalmente sui magistrati di sorveglianza, che però non
possono decidere niente”. Inoltre il consigliere togato del Csm ha evidenziato “la
problematica dello scioglimento del cumulo”. “Porterà, inevitabilmente,
alla concessione di questo beneficio della detenzione domiciliare anche
nei confronti di soggetti che sono condannati pure per taluni dei reati
dei delitti previsti nell’articolo 4 bis – aveva denunciato durante il Plenum – Compresi mafiosi e autori di omicidi e gravissimi reati contro la persona”.
Il
caso Iannazzo diventa un esempio trasparente di come anche i mafiosi
potranno vedere ottenute le proprie istanze. Un pericoloso precedente
che potrebbe dare il via ad una lunga serie di richieste di
scarcerazione. Non a caso, proprio ieri, è stata presentata dal legale
del boss, Settimo Mineo, una richiesta di arresti
domiciliari per incompatibilità delle condizioni di salute con la
detenzione in carcere a causa di una cardiopatia ipertensiva. L’anziano
capomafia di Porta Nuova (81 anni) non è uno qualunque. E’ stato
arrestato nell’ambito dell’inchiesta Cupola 2.0 che fece luce sul
tentativo di Cosa nostra di ricostituire la commissione provinciale.
Ovviamente
la salute dei detenuti è fondamentale, ma uno Stato serio non può
permettersi che certi soggetti appartenenti a quelle associazioni
criminali che hanno commesso reati efferati (omicidi, estorsioni,
corruzioni, traffico di stupefacenti, stragi…) ottengano certi
benefici, non è ammissibile.
Può
essere giusto parlare del sistema carceri, della sicurezza e della
salute di tutti i detenuti, e si può anche discutere, in questo momento
così delicato a livello nazionale, di spostare ai domiciliari quei
delinquenti che hanno da scontare pochi anni di pena e compiuto piccoli
reati (i cosiddetti “ladri di polli”, che rubano per pochi euro e che
con il loro agire non mettono certo a repentaglio la tenuta di una
democrazia).
Ma non si può cedere di fronte a chi appartiene a Cosa
nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita. Non vi può essere una
valutazione di attenuazione di pericolosità sociale di fronte a
soggetti che, come raccontato da decine e decine di pentiti, e sentenze
passate in giudicato, rompono il vincolo associativo solo in due casi:
con la morte o collaborando con la giustizia.
Neanche la lungo desiderata “dissociazione” determina una reale rottura con il vincolo mafioso.
Alla
luce delle sentenze recenti della Cedu e della Corte costituzionale
sull’ergastolo ostativo, nell’ultimo anno da parte di alcuni boss non
sono mancate generiche lettere di distacco, o ammissioni, nelle aule di
giustizia, solo dei propri delitti, senza chiamare in causa terze
persone, né alzare il velo sugli affari del clan. Senza dunque offrire
alcun contributo all’accertamento della verità.
Un atteggiamento ambiguo dietro a cui può celarsi la persistente adesione al clan.
Dopo
la morte del boss Sucato, la Camera penale di Palermo è intervenuta in
favore dei reclami dei detenuti, addirittura dando atto dell’esistenza
di un carteggio tra il direttore del carcere di Pagliarelli e i detenuti
in alta sicurezza. Questi ultimi “hanno avanzato molteplici richieste
volte a fronteggiare le conseguenze negative insorte in seguito alla
legislazione emergenziale adottata dal governo per affrontare la
pandemia”.
Ancora una volta, dunque, si torna sugli argomenti che
hanno portato alle rivolte dei primi di marzo, nate nel momento in cui
il ministero aveva scelto di sospendere i colloqui con i familiari fino
al 31 maggio 2020, proprio per far fronte all’emergenza coronavirus.
Colloqui che non sarebbero stati vietati, ma sostituiti con colloqui per
collegamento video (via Skype) o telefono.
Dopo quelle
proteste il Governo è intervenuto con il decreto “Cura Italia”. Già Di
Matteo ed Ardita avevano rappresentato il rischio che quell’apertura ai
domiciliari, fosse colta come un segnale di cedimento.
“Questa
concessione del beneficio della detenzione domiciliare in maniera
sostanzialmente indiscriminata, con una procedura che non garantisce una
valutazione caso per caso significativa – aveva detto Di Matteo – è
tanto più grave nel momento in cui questi benefici sono previsti
proprio all’indomani di quelle violenze, pressioni di quel che io
definisco come un vero e proprio ricatto allo Stato. Se non sono il
frutto di cedimento di fronte a quel ricatto, e voglio sperare che non
lo siano, rischiano di apparire tali non solo agli occhi dell’opinione
pubblica, ma rischiano di apparire come cedimento dello Stato agli occhi
della popolazione carceraria e delle organizzazioni criminali che,
all’interno e all’esterno del carcere, hanno organizzato quelle rivolte”. Ed oggi ha ribadito nuovamente il concetto, suggerendo anche un’alternativa alle scarcerazioni: “Le
istituzioni non devono dare neppure l’impressione di cedere davanti ai
ricatti violenti. Dovrebbero rispondere all’emergenza sanitaria in corso
garantendo il diritto alla salute di tutti, ma senza cedimenti e senza
infliggere un vulnus agli obiettivi di certezza della pena. Senza un
indulto mascherato. Cercando, prima delle scarcerazioni di massa, altre
soluzioni, come l’utilizzo di padiglioni oggi inutilizzati o di caserme
dismesse“.
Anche il Procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervistato ieri da Il Fatto Quotidiano, aveva evidenziato la problematica:
“Una premessa: da anni sento parlare di sovraffollamento e di
condizioni disumane di detenzione. Ebbene: perché mai nessun governo ha
fin qui realizzato un piano per costruire quattro carceri in Italia che
possano ospitare 5 mila persone? Basta fare un unico progetto,
replicarlo in quattro luoghi del Paese e in sei mesi sarebbe possibile
porre fine all’affollamento carcerario. È giusto che le persone detenute
abbiano spazi adeguati e la possibilità di lavorare e studiare in
carcere”. E poi ancora: “Uno Stato moderno ed europeo non può
permettersi di dare un messaggio di cedimento a chi ha organizzato
rivolte, ha fatto danni per milioni, ha usato violenza nei confronti
degli agenti della polizia penitenziaria. Non può mostrare di cedere al
ricatto e premiare la violenza. Sarebbe, in piccolo, ripetere quello che
lo Stato ha fatto dopo le stragi di mafia, quando a molti mafiosi è
stato tolto il carcere duro, il 41 bis”. E alla domanda sulla paura di contagio nelle carceri, anche alla luce della morte di Sucato, ha riposto: “Nelle
carceri italiane ci sono 19 persone infettate su 62 mila detenuti. È
giusto che si preparino infermerie apposite per i contagiati da
Covid-19, ma se questi sono i numeri, mi pare si possa dire che oggi San
Vittore o il carcere di Opera a Milano sono più sicuri di piazza Duomo”.
Di
fronte ai numeri, nonostante le pressioni sempre più insistenti che
stanno pervenendo da più parti, la politica non può e non deve fare
passi indietro.
Agli italiani si dice, giustamente, di stare a casa. Che lo Stato dica ai boss di restare in carcere.
Foto © Imagoeconomica
fonte: antimafiaduemila.com