Padre Baldassarre Meli, che non c’è più
di Saverio Lodato
Sacerdote di frontiera, quando la lotta alla mafia non era fatta di parole. E i sacerdoti non si limitavano agli atti dovuti e reiterati del loro magistero.
Sacerdote dell’ospitalità, quando gli immigrati vivevano già a centinaia e centinaia a Palermo in pianta stabile, ma non erano ancora diventati merce di baratto politico per strumentalizzazioni interessate.
Sacerdote colto, dolcissimo, disinteressato, pronto a ascoltare i problemi degli altri, per cercare poi di tentare di risolverli.
Aiutava gli “altri” a Santa Chiara, e si potrebbe dire che li aiutava a casa sua, visto come il nome di don Baldassarre Meli, che ora purtroppo ci ha lasciati, resterà indissolubilmente legato al nome del cuore di quel centro storico che grazie a lui divenne enclave di tolleranza, rifugio per i reietti, approdo sicuro per i neri, gli africani, i dannati della terra.
E mi piace ricordare, di lui che mi accolse a braccia aperte quando gli manifestai l’intenzione di scrivere un’inchiesta sulle Chiese di frontiera, – libro che avrei intitolato “Dall’Altare contro la Mafia” e pubblicato dalla Rizzoli ormai 26 anni fa -, solo un particolare, solo un dettaglio; ma che solo apparentemente era un dettaglio.
Mi accorsi che sulla cassetta della frutta, che adoperava come comodino nella stanzetta che adoperava come camera da letto e di studio, teneva due libri che da un sacerdote non ti saresti mai aspettato: L’autobiografia di Malcom X e i Dannati della terra, di Frantz Fanon.
Forse è anche per questo che padre Meli non se la cavava facilmente dicendo che i neri vanno aiutati a casa loro. Ma questo sarebbe un altro e troppo lungo discorso.
L’Isola Felice
Una missione molto particolare
Tratto dal libro: “Dall’Altare contro la Mafia. Inchiesta sulle chiese di frontiera”
RIZZOLI (1994), di Saverio Lodato
Una
ragazza pulisce per terra con straccio e secchio d’acqua. A pochi passi
da una statua in marmo bianco che raffigura un “Don Bosco” molto
giovane e forse alle prime armi. Un ragazzo nero alto e grosso come un
giocatore di rugby, con giubbotto e pantaloni jeans, cuffia e
auricolare, la prende in giro nella sua lingua, sorridendo e
dondolandosi al ritmo della musica.
La ragazza non gradisce “Va a
farti fottere. Il ragazzo di colore, intuendo l’antifona, sgrana gli
occhi e resta quasi imbambolato. La ragazza delle pulizie punta diritto
verso di lui, gli gira attorno, svuota il secchio nel cortiletto dove
“Don Bosco” assiste all’insolita scena, e, rivolta al ragazzo nero che
non si è ancora ripreso, gli sibila con durezza: “Un giorno o l’altro ti
faccio diventare bianco.”
Lei ha la pelle bianca bianca, si esprime
in dialetto molto stretto e da piccola devono averle insegnato che non
si accettano complimenti dagli sconosciuti, meno che mai dagli
sconosciuti neri e con la cuffia in testa.
Queste sono scene molto
rare a Palermo. Il luogo dove si è svolta quella che vi ho appena
descritta, è un posto incantevole, fuori dal tempo, e poco conosciuto:
siamo nell’ex convento delle clarisse di clausura, sopravvissuto fino
all’inizio del Novecento con il nome di Santa Chiara, e poi, nel 1920,
assegnato dalla Curia ai salesiani. Inizialmente ospitò un istituto per
gli orfani della prima guerra mondiale. Oggi sembra un grande consolato
di tutti i Paesi africani riuniti, una fetta di Terzo Mondo trapiantata
fra ruderi cinquecenteschi animati da presenze spagnole e francesi, in
un mixage di religioni, culti ed etnie che teoricamente non dovrebbero
compiere insieme neanche un piccolissimo cammino. Perché questa visita
al Santa Chiara? Perché tutti i preti ai quali esponevo l’idea di questo
lavoro non facevano altro che ripetermi: “Lei deve andare a trovare
padre Baldassarre Meli, da 8 anni si trova a Santa Chiara ed è l’unico
che si dedica anima e corpo al problema dei nuovi immigrati. Se non ci
fosse lui la vita di questi giovani sarebbe, se possibile, ancora più
difficile di quella che è.” E allora per un momento, lasciamoci la mafia
dietro le spalle. Cerchiamo di scoprire quest’altro volto sconosciuto
della Chiesa palermitana, con la consapevolezza che non si rischia di
andare fuori tema per la semplicissima ragione che la diga rappresentata
dalla comunità di Santa Chiara ostacola la delinquenza organizzata nel
suo sforzo costante di appropriarsi di mano d’opera criminale a basso
costo. Il problema non è da sottovalutare. Ci sono luoghi della città,
orari, giorni della settimana, linee di autobus, borgate, angoli
sperduti del centro storico, in cui i palermitani sembrano fantasmi, non
li vedi e non li senti più. Il sabato sera passi da Piazza Castelnuovo,
e, sotto il palchetto della musica, ti sembra di essere alla fermata
dei pullman di Mombasa o di Colombo. Ci sono borgate, a Partanna o a San
Lorenzo, dove i variopinti costumi del Ghana o del Togo sembrano fuori
posto e penseresti al set di un film. Da un decennio a questa parte
Palermo è diventata quasi irriconoscibile. Dall’Africa e dall’Estremo
Oriente, si sono riversati migliaia di immigrati. Un esodo colossale e
costante che ha trasformato il volto economico e sociale di una città
che ha sempre sofferto del problema del lavoro. Nessuno è in grado di
dire con esattezza quanti siano questi giovani africani, o cingalesi o
filippini, che hanno finito con l’adattarsi ai lavori più umili e meno
retribuiti e che i palermitani non sono più disposti ad affrontare.
Diverse migliaia dicono in Questura. Probabilmente diecimila,
considerato il fatto che moltissimi, entrati clandestinamente, sono
privi di permessi di soggiorno e perciò refrattari a qualsiasi forma di
censimento. Sono integrati? Sono tollerati? Sono molto sopportati?
Rispondere non è facile. Atteniamoci alla cronaca. Scopriremo, allora,
che forse Palermo è una delle città meno razziste d’Italia. Non si ha
notizia dei pestaggi, dei bidoni di benzina usati per barbari roghi
all’insegna della discriminazione razziale, non vengono trovati cadaveri
irriconoscibili, come accade spesso a Roma o Milano, in certe zone del
Veneto “civilissimo”, insomma, almeno da questo punto di vista, a
Palermo non si respira aria di violenza. Sarà che la Sicilia è stata per
secoli e secoli talmente esposta alle dominazioni straniere da avere
imparato a convivere non lasciandosi impressionare da quanto di più
superficiale possa esserci, e cioè il colore della pelle. Sarà che i
giovani immigrati, appena sbarcano in città, si adattano con estrema
facilità a usi e dialetti del luogo. Il clima è mite per tutti, non c’è
nebbia, non nevica, e dal lungomare, in certe giornate di sole e di
vento, arrivano incontaminati i profumi africani, almeno sembra proprio
così. Sarà che la Sicilia “non è Italia”, non è Europa” o perché, come
dicevano scherzando i ragazzi del Sessantotto, “La Sicilia è l’unico
Stato africano che non ha dichiarato guerra a Israele” fatto sta che i
giovani di colore, in nessun posto della penisola, come a Palermo,
possono sentirsi in qualche modo come a casa loro.
Vi chiederete: E
allora perché la ragazza manda il nero a “farsi fottere”? Perché dalla
convivenza tranquilla, dal rispetto reciproco, dalla tolleranza, che
presuppone ancora una diversità, all’integrazione razziale, il passo è
ancora molto lungo. Ogni comunità vive rinchiusa in sé stessa. Gli
anglofoni del Ghana hanno poco da dire ai francofoni della Costa
d’Avorio. I filippini fanno mondo a parte, se non altro perché essendo
giunti prima del ‘90 sono quasi tutti muniti del permesso di soggiorno,
dunque messi in regola, attentissimi a fare rispettare i diritti
sindacali, coperti da assistenza medica. Anche le religioni sono un
fattore più che di divisione, di sottolineatura orgogliosa della propria
identità, etnica e geografica. Ciascuna comunità non rinuncia alle
proprie feste, ai propri funerali, ai propri anniversari. Il nigeriano o
il ragazzo di Capo Verde che arriva a Palermo è già atteso dalla sua
comunità, ha già i suoi indirizzi, i suoi punti di riferimento per
quanto deboli possano essere. Il primo enorme problema che deve
risolvere è quello di trovare un tetto, un materasso e una coperta.
Proprio per venire incontro a esigenze tanto elementari esistono i
volontari e gli obiettori di coscienza che vivono a Santa Chiara.
Immaginate
una missione cristiana come ce ne sono tante nei Paesi sperduti
dell’Africa. Immaginate un edificio coloniale, con i muri giallognoli e
screpolati, e molto silenzio, molto ordine e molta pulizia. O un cortile
ravvivato da palme e magnolie secolari, e dove c’è un’altalena per i
bambini.
Immaginate ancora il ritratto di Santa Chiara vestita di
bianco e di grigio, e la statua di don Bosco alta quanto le riproduzioni
in gesso della Statua della Libertà delle quali fanno incetta i
siciliani che per la prima volta arrivano a New York. Immaginate un
poster a colori con il primo piano di una bambina del Bangladesh,
denutrita ma dagli occhi bellissimi. Eppure non siete all’interno di una
missione, anche se questa costruzione ne avrebbe tutta l’aria. E sapete
perché? Perché qui nessuno cercherà di convincervi della bontà della
religione cristiana, nessuno si sognerà di convertirvi, ma sarete
accettati pur essendo di fede musulmana o animista. Poi c’è quel
manifesto che ricorda che siamo a Palermo. Riproduce le foto a colori di
due bambini e si legge:” Colletta Salvatore e Farina Mario, bambini di
Casteldaccia. Chi li ha visti?” La porta d’ingresso, invece, è
tappezzata da bigliettini e avvisi d’ogni tipo, una specie di grande
passaparola per gli immigrati che qui si danno appuntamento. Un
bigliettino annuncia che in una casa privata si terrà una festa con
musiche rap e reggae.
Una decina di ragazzi di colore staziona di
fronte all’ingresso di Santa Chiara. Trovare padre Meli è stato
facilissimo: trascorre fra queste mura la sua intera esistenza. Va a
dormire all’una di notte e alle cinque del mattino è già in piedi.
Controlla infatti che tutto sia in regola, che non esplodano contrasti
fra gli abitanti della casa, e fa il possibile per risolvere i mille
problemi di una comunità eterogenea perseguitata dal bisogno. Sono
centocinquanta i ragazzi africani che qui hanno trovato un centro di
prima accoglienza. Le vecchie celle delle clarisse sono state
riadattate, e con letti a castello, è stato possibile sfruttare al
massimo lo spazio dell’antico convento. Padre Meli nacque cinquantun
anni fa a Favara , in provincia di Agrigento. E’prete da ventitré anni,
molti trascorsi fra Messina e Catania. Giunse a Palermo nel 1986 e
diventò presto il parroco di Santa Chiara prendendo il posto di Don
Giuseppe Falzone che aveva iniziato a svolgere un primo embrionale
lavoro fra i giovani immigrati del quartiere dell’Albergheria.
La modestia di don Baldassarre Meli
“Finalmente
qualcuno si interessa al nostro lavoro. Ma metta in evidenza, con molta
chiarezza, che io non sono solo. Con me lavorano tanti volontari e un
altro sacerdote, che sin dall’inizio di questa avventura hanno scelto di
impegnarsi al massimo per rendere più accettabile la vita di questi
ragazzi. Senza di loro questo centro non potrebbe esistere.” La stanza
in cui padre Meli mi ha ricevuto, al piano terreno del convento, è zeppa
di targhe di ambasciate e consolati di quei Paesi che lo ringraziano
per il lavoro svolto in questi anni. Ci sono vocabolari e carte
geografiche, un vecchio mappamondo. Come portagraffette, padre Meli
adopera un barattolo verde con stampigliata questa scritta: “Carne
bovina in brodo. Dono della Cee agli indigenti. 250 grammi”. Infinite
vie della solidarietà… Manca solo il ventilatore e potremmo essere a
Tangeri o a Benares.
Lui sorride: “Non ci crederà ma non ho mai
visitato né l’Africa né l’Oriente. Sicuramente andrò in Africa il
prossimo anno. Sto con loro, vivo con loro, ho imparato a conoscere i
loro problemi, ma non conosco le loro radici. Per me, oggi, fare quel
viaggio non significa tanto soddisfare una curiosità, quanto sforzarmi
di essere ancora più adatto a penetrare nel loro mondo, nella loro
mentalità”. C’è una foto che ritrae padre Meli, con un microfono in
mano, che sembra circondato da una tribù con i costumi delle grandi
occasioni. “È stata scattata dietro Piazza Bologni, a pochi metri da
qui. Sono giovani del Ghana. È la festa per un funerale di un loro
parente deceduto al paese d’origine. Noi rispettiamo tutte le loro
usanze. Proprio in questi giorni si è presentato un problema molto
grave. Si è scoperto che un ragazzo è irrimediabilmente malato di
cancro. Ha chiesto di poter tornare a casa. Stiamo facendo una colletta,
ma il biglietto aereo è carissimo, fra l’altro è indispensabile l’uso
della barella e questo servizio viene garantito dalle compagnie aeree a
costi ancora più alti. Le faccio quest’esempio perché lei abbia un’idea
di questa assistenza a trecentosessanta gradi che cerchiamo di offrire.
“I primi mesi che trascorsi a Santa Chiara, fra il dicembre ‘86 e
l’aprile ‘87, furono forse fra i più duri della mia vita di sacerdote.
Avevo già fatto un’esperienza non indifferente nei quartieri più
dissestati di Catania, a Santa Cristina, a Monte Po, a San Giorgio, o a
Nesima Superiore. Sono sempre vissuto fra gente di tutte le età e che ha
bisogno di tutto. E pur essendo prete, mi sono sempre sentito piccolo
piccolo. Ma appena arrivai qui, il caso volle che si verificasse un
episodio di incomprensione fra un nostro operatore e un ragazzo che
veniva dal quartiere di Ballarò. Non ci fu verso di risolvere
amichevolmente la faccenda. Quell’episodio si tirò dietro una scia di
vandalismo e di violenza perché il ragazzo di Ballarò chiamò altri
coetanei del suo quartiere a prendere parte alla contesa. Per mesi non
potemmo occuparci d’altro. Una storia vecchia, per fortuna.
“In che
modo iniziamo a occuparci a tempo pieno degli immigrati? Con l’ausilio
di alcuni medici del Policlinico. Il dottor Serafino Mansueto, primario
specialista in malattie tropicali, ebbe l’idea di aprire qui una specie
di centro di osservazione per verificare l’eventualità che il forte
afflusso da quei Paesi portasse delle patologie particolari nei nostri
ambienti. In tempi molto rapidi decidemmo di installare un
poliambulatorio, una struttura pensata esclusivamente come servizio da
offrire a questi ragazzi. Tenga presente che tutti coloro i quali sono
privi di permesso di soggiorno non possono usufruire dell’assistenza
sanitaria, incontrano difficoltà quasi insormontabili per procurarsi le
medicine, e rischierebbero di trascinarsi in malattie di ogni tipo. Qui,
esclusivamente per loro, ogni mattina, funzionano in reparti di
medicina generale, dermatologia, ginecologia, otorinolaringoiatria e
pediatria.
Questi ragazzi, venendo qui sapevano che sarebbero stati
curati e avrebbero avuto campioni gratuiti di medicinali. Iniziammo così
a conquistarci la loro fiducia.”
Per tutta la durata della nostra
conversazione, ragazzi di colore bussano alla porta a vetri, cercando di
richiamare l’attenzione di padre Meli. Lui faceva ogni tanto qualche
gesto con la mano per invitarli alla pazienza. Loro per un po’ si
rassegnavano, poi ricominciavano tamburellare. “Mi conoscono. E la cosa
più importante che mi hanno insegnato in questi anni è ad avere una
concezione del tempo ben diversa da quella di noi occidentali. Ormai se
finisco intrappolato nel traffico palermitano utilizzo quel tempo per
pensare. Forse dovrò rinunciare a fare qualcosa che avevo programmato il
giorno prima, ma il mio sistema nervoso può sopravvivere meglio allo
stress…”.
Lo stress di questo sacerdote si spiega facilmente con la
sua ferrea tabella di marcia. Abbiamo già detto che dorme quattro ore
per notte. In altre parole, non “smonta” mai. “Anche questa fu una
scelta, sin dall’inizio. Dopo aver affrontato il problema
dell’assistenza medica, ci rendemmo conto che molti di loro spesso non
avevano dove dormire. Né potevamo rassegnarci all’idea che un pezzo di
cartone all’aperto fosse il loro giaciglio. Dobbiamo aprire una
parentesi. E’vero come lei dice, che a Palermo non si sono mai
verificati gravi episodi di razzismo. Ma è anche vero che moltissimi
palermitani stanno approfittando della situazione di questi poveracci.
Affittano topaie e tuguri del centro storico a cifre enormi:
cinquecento, a volte seicentomila lire, per una stanza, un cucinino, e
un gabinetto.
“Se non ci fossero questi immigrati disperati, in
quelle stalle non andrebbe a vivere nessuno. Mi sono ribellato a questo
ricatto. Non potevo consentire che questi ragazzi supersfruttati sul
lavoro, sottopagati, non messi in regola, fossero penalizzati una terza
volta, anche al momento di andare a dormire. Così nel 1990 decisi che
qui, in convento, poteva esserci posto per tutti. Lanciammo un appello
alla città. Spiegammo che avevamo bisogno di materassi cuscini e
coperte. La molla della solidarietà funzionò e funziona ancora oggi a
meraviglia. Quando un abitante della casa riesce a trovarsi una
sistemazione civile e a prezzi ragionevoli se ne va da qui, portandosi a
casa nuova il suo materasso e la sua coperta…”.
All’inizio, i
ragazzi di colore vennero alla spicciolata. Non tutti conoscevano il
provvidenziale indirizzo dell’isola felice. Quei pochi che chiesero
ospitalità dovettero rassegnarsi a orari antelucani. Il grand hotel
chiudeva i battenti alle nove di sera. E alle sei del mattino gli ospiti
dovevano lasciare i letti a castello. Furono sufficienti poche
settimane e il tam-tam si diffuse in tutti i quartieri di Palermo, col
risultato che gruppi sempre più consistenti di senza tetto si
presentarono al portone d’ingresso di Santa Chiara. Si pose un problema
di pubblica sicurezza, come si dice in gergo burocratico. Padre Meli
informò la Questura di quest’enorme domanda di posti letto. Ricevette la
visita dell’attuale questore di Palermo, il dottor Aldo Gianni, che
volle rendersi conto di persona delle strutture disponibili e del modo
scelto dai volontari per utilizzarle al meglio. Fra le forze di polizia e
i religiosi nacque subito un rapporto proficuo che dura ancora oggi.
Dice
padre Meli: “La stragrande maggioranza delle persone che ospitiamo è
priva di regolare permesso di soggiorno. Ma è gente che è venuta qui per
lavorare, per darsi da fare, e che tenta tutte le strade per mettersi
in regola al più presto. Il questore Gianni si è reso conto
dell’importanza della funzione che ricopre questo centro: offriamo un
luogo riparato per dormire, togliamo dalla strada degli immigrati che
altrimenti rischierebbero di andare allo sbando. La presenza dei
poliziotti è discretissima. Fanno qualche controllo, ogni tanto, per
verificare che tutto sia in regola. È giusto che lo facciano. Ma in
fondo non ce ne sarebbe bisogno. Sono proprio i nostri ragazzi quelli
più interessati a un clima di tranquilla convivenza.
“Ospitiamo
normalmente tra le cento e le centocinquanta persone. Se non ci fosse
autodisciplina, massima collaborazione e soprattutto grande rispetto
reciproco, ogni notte sarebbe l’inferno. Invece è filato sempre tutto
liscio. Certo: le occasioni di attrito ci sono. Ma in più di quattro
anni sarò stato costretto a intervenire solo una decina di volte.
Proprio per essere presente, evitando di delegare responsabilità che
potrebbero risultare gravose, ho sempre fatto la scelta di dormire
all’interno del centro. I ragazzi sono entusiasti del nostro lavoro,
riconoscenti. Capiscono perfettamente gli sforzi che facciamo per
offrire loro almeno un sonno profondo, senza altre preoccupazioni, senza
altri assilli oltre quelli che già li tormentano abbastanza durante il
giorno.
“Abbiamo sempre scartato l’ipotesi di un numero chiuso. Né
fissiamo limiti di tempo per il soggiorno. L’ex convento delle clarisse è
molto grande. Volendo, e col tempo lo faremo, potremmo ricavare nuovi
cameroni dove sistemare altri letti a castello. Come le ho detto i
palermitani non si sono mai tirati indietro quando abbiamo chiesto di
contribuire alla gara della generosità donando materassi e coperte. Da
qualche anno abbiamo deciso di spostare alle 11 di sera l’orario di
chiusura. Molti di questi ragazzi, infatti, lavorano fino a tardi in
quartieri e borgate molto distanti da qui.
Ce ne sono molti che
lavorano nei paesi, a Bagheria a Casteldaccia, o a Termini Imerese.
Spesso, viaggiando su autobus e corriere che partono e arrivano
regolarmente in ritardo, rischierebbero di passare la notte
all’addiaccio. Le 11 sono un ottimo orario per tutti. Evitare poi di
imporre un numero chiuso, è stata per noi un’autentica questione di
principio. Ho sempre visto in quel ragazzo di colore che si presenta da
noi, infreddolito e impaurito, a chiedere asilo, un segno che Dio vuole
darci della sua presenza. Come si fa a rispondere: “Ci dispiace. È tutto
completo”?
“Si fa un gran parlare delle condizioni di vita degli
animali. Si dice che dobbiamo fare del tutto per non farli soffrire.
Sono buoni proponimenti. Ma non le nascondo che c’è una pubblicità che
mi provoca sempre un certo nervosismo. E’quella che raffigura un bambino
che prende una busta piena di soldi e la mette in bocca a un cane.
Strano che a nessuno venga in mente di battersi con altrettanta fantasia
e efficacia televisiva per l’affermazione di valori di solidarietà.
Quando vedo i nostri ragazzi, quando penso a quali condizioni di vita
devono sottostare pur di sopravvivere in qualche modo nella nostra
città, non posso mai fare a meno di chiedermi quali dovranno essere le
condizioni di vita nei loro Paesi d’origine, se, fatti i loro conti,
decidono comunque di vivere in Italia. Sono persone che hanno diritti,
per Il fatto stesso che sono persone. E meriterebbero di vivere meglio
degli animali… la nostra ricetta? Una grande apertura di cuore. Tentare
di assisterli non solo di notte, ma anche di giorno”.
Come finirà in Italia?
Ecco
perché Santa Chiara assomiglia molto a un Segretariato generale. I
ragazzi di colore ricevono qui la corrispondenza, le telefonate.
Custodiscono i loro beni: dal passaporto alla borsa con qualche ricambio
di biancheria. È una struttura che copre loro le spalle. Naturalmente
nei limiti del possibile. Cerchi una casa a un prezzo abbordabile? Ne
parlerai certamente con padre Meli. Ti hanno chiesto un affitto da
capogiro? Padre Meli o qualcun altro di Santa Chiara cercherà di
convincere il proprietario che di te ci si può fidare, e farà il
possibile per convincerlo a moderare le sue pretese. Sei sotto pagato
per il lavoro che fai? Non vogliono darti la tredicesima? Non vogliono
riconoscerti il diritto alle ferie? La “missione” non resterà
insensibile. Hai grane di natura legale? Ti metteranno in contatto con
un avvocato. Compatibilmente con gli spazi e il tempo disponibili,
cercheranno anche di contribuire alla crescita della tua coscienza di
emarginato, di sfruttato, di immigrato. Ci sono sacerdoti che parlano
inglese e francese e tengono periodicamente assemblee su temi politici e
culturali. Proprio nell’ultimo periodo, per esempio, i ragazzi di
colore hanno chiesto e ottenuto di discutere a lungo della nuova
situazione politica che si è creata in Italia. C’è una preoccupazione
diffusa: sarà definitivamente bloccato l’accesso di immigrati nel nostro
Paese? E se questa possibilità dovesse verificarsi, cosa decideranno le
autorità per tutti quelli che già vivono in Italia ma sono ancora fermi
alla condizione di clandestini, di abusivi? Saranno considerati presto
indesiderabili? In Costa d’Avorio o nelle isole di Capo Verde, nel Togo,
e persino nel Sudan, in questo momento ci sono migliaia e migliaia di
famiglie che seguono con trepidazione il caso italiano: le rimesse dei
familiari che vivono all’estero sono infatti fonte primaria per la loro
stessa sopravvivenza.
Vi abbiamo dato un quadro realistico, anche se
parziale, delle tante attività dell’isola felice. Ma ci sono le
sconfitte, gli obiettivi difficili da raggiungere, le ostilità del
quartiere con le quali spesso padre Meli è costretto a misurarsi.
Ascoltiamo ancora: “Il nostro più grande rammarico nasce dal fatto che
di notte non possiamo ospitare le donne e i bambini. Non ci sono le
condizioni per creare dormitori separati. Questo significa che i nuclei
familiari vengono di fatto divisi. Purtroppo non credo che riusciremo
presto a risolvere questo problema. Non è un caso che negli ultimi anni a
Palermo abbia cominciato a diffondersi il fenomeno della prostituzione
delle donne di colore. E non è un caso che in alcune occasioni siamo
stati costretti a mettere alla porta degli individui, palermitani o di
colore, interessati a gravitare attorno al Santa Chiara per imporre
piccole forme di spaccio. Ce ne accorgiamo subito. Di questi ragazzi
finiamo presto col sapere quasi tutto. “Appena Notiamo che qualcuno è
più elegante del solito, che non ha difficoltà di danaro, che si
atteggia a capo di tutti gli altri, e sappiamo che non ha un lavoro, non
ci vuole molto a capire che è entrato a far parte di qualche giro poco
raccomandabile. Quando si verificano queste situazioni teniamo
particolarmente alta la nostra attenzione. Quando si presenta
l’occasione, con molta discrezione, senza creare allarmismi, cerchiamo
il dialogo. Facciamo notare a questi ragazzi che con i loro
comportamenti non solo rischiano di infilarsi in un vicolo cieco, ma
rischiano di compromettere l’equilibrio dell’intera comunità. A volte il
dialogo raggiunge lo scopo. A volte, no. In quei casi l’unica scelta
possibile è una scelta drastica: dobbiamo allontanarli dal centro. E
qualche volta abbiamo avuto la soddisfazione di vederli tornare avendo
deciso – in tutta autonomia – di rimettersi sulla retta via.
“Un
altro problema con il quale spesso sono costretto a fare i conti e
l’incomprensione di alcuni abitanti del quartiere. Fanno girare una voce
che riesce ad avere una certa presa, pur non avendo alcun fondamento.
Dicono: padre Meli si dedica solo ai ragazzi immigrati e trascura e gli
abitanti di Santa Chiara. È assolutamente falso. Per quanto è possibile
cerco infatti di non sottrarmi a nessuno dei miei doveri. Ma il fatto è
che dietro quel luogo comune si cela una forma serpeggiante di razzismo,
anche se, per fortuna, innocuo. La definirei una forma di gelosia:
molti parrocchiani pretenderebbero di avere una sorta di esclusiva sul
loro parroco… Razzismo vero e proprio? Direi di no. Anche se si sono
verificati due pestaggi. Ne sono rimasti vittime un tunisino e un
ragazzo della Costa d’Avorio. Il primo lavorava in un ristorante: lo
hanno picchiato a sangue perché colpevole di aver portato a un cliente
una pietanza troppo salata.
“So per certo che non era stato lui. Ma
il vero colpevole, un cameriere palermitano, per evitare di essere
scoperto, avevo organizzato il pestaggio insieme a un gruppo di amici,
scaricando così definitivamente la responsabilità sul ragazzo
tunisino.Il secondo è stato ridotto in fin di vita dai familiari di un
bambino del quartiere: il ragazzo della Costa d’Avorio era sospettato di
avere commesso atti osceni. Se non lo avessi conosciuto personalmente,
se non avessi parlato con lui, e molto a lungo, di quanto era accaduto,
forse anch’io avrei potuto nutrire qualche dubbio. Qui non si tratta di
difendere questi ragazzi a tutti i costi. Si tratta invece di capire
che, in una realtà disgregata come quella del centro storico
palermitano, questi immigrati diventano il parafulmine ideale per tutto
quello che di cattivo può accadere. Se il colpevole negro non c’è,
diventa facilissimo inventarlo. E chi è disposto facilmente ad alzare la
mano per difendere un colpevole negro?”.
Chiedo di visitare L’isola
felice. Di andare a curiosare nelle stanze, nei cameroni che sono
diventati la residenza abituale di tanti ragazzi giunti in Italia con il
miraggio del posto di lavoro garantito. Padre Meli è ben lieto di farmi
vedere i risultati che hanno raggiunto. Di mostrarmi il poliambulatorio
che, per igiene e funzionalità, può fare tranquillamente invidia a
tutti gli ospedali cittadini. Di presentarmi alcuni di questi ragazzi
che sorridono con emozione ascoltando le dolci parole del sacerdote.
Entriamo nei cameroni. Siccome è ormai ora di pranzo, alcuni ospiti del
Santa Chiara si stanno facendo da mangiare adoperando dei fornelli
sistemati sui balconi. I letti sono in ordine. Le coperte sono tutte di
colore diverso fra loro. Su qualche muro sono affisse le foto dei leader
politici di tanti Paesi africani a me sconosciuti. Su una cassetta
della frutta, adoperata come rudimentale comodino, ci sono due libri che
riportano la nostra memoria indietro di tanti anni. Ci sono infatti
L’autobiografia di Malcolm X e I Dannati della terra di Franz Fanon. Chi
l’avrebbe mai detto che i testi sacri del leader nero cresciuto nei
ghetti statunitensi e che predicava la rottura e la rivolta contro il
mondo dei bianchi, e dell’intellettuale martinicano che si batteva per
l’indipendenza dell’Algeria, sarebbero finiti, tanti anni dopo, sul
comodino di un vecchio convento dei salesiani?
Ma la scoperta più
stupefacente che si fa a Santa Chiara è un’altra. Avevamo già accennato a
questa singolarissima missione dove il culto cattolico non viene
privilegiato rispetto all’osservanza di altre religioni. Ecco allora che
padre Meli prima di congedarsi, vuol farmi vedere la cappella del
convento e la moschea islamica. Sì. La moschea, con i versetti del
Corano, i tappeti per la preghiera.
“L’abbiamo aperta al culto dei
ragazzi arabi che hanno manifestato il desiderio di continuare a seguire
la loro religione. Non abbiamo trovato nulla di strano in questa
richiesta. Né ci sembrava corretto, in cambio di un posto letto,
sollecitare conversioni affrettate. Qui siamo tutti convinti che la
religione, qualunque essa sia, aiuta l’uomo a vivere meglio. Gli offre
un’ancora alla quale aggrapparsi nei momenti di maggiore difficoltà. E
come lei può notare, la piccola moschea così come la nostra cappella, si
trovano all’ingresso del convento, una a destra e l’altra a sinistra.
Chi entra qui è libero di scegliere la direzione che preferisce”.
Lo
Stato italiano fa per questi ragazzi immigrati un centesimo di quello
che fanno questi volontari, questi obiettori di coscienza, questi medici
questi sacerdoti? Auguriamoci, almeno, che non decida di rispedirli a
casa loro.
Abbiamo voluto aprire questa lunga parentesi, anche se
siamo momentaneamente usciti dal tema della lotta alla mafia per dare
fino in fondo l’idea di quanto sia ampio – sul fronte sociale –
l’impegno del clero di Palermo.
? saverio.lodato@virgilio.it