Il Caravanserraglio contro Nino Di Matteo

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Nino Di Matteo non svolge attività politica, non ha dato vita a una sua lista elettorale, partecipa a incontri pubblici alla media di due volte l’anno, in occasione, cioè, degli anniversari delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, e per gli altri 363 giorni, domeniche incluse, se ne sta immerso fra le sue carte, fra gli interrogatori, le udienze d’aula, i turni di routine, dividendo la sua esistenza fra ufficio blindato e vita familiare blindata, e – ma questo non è dato sapere – se è di fede cattolica, trovando persino qualche minuto per rivolgere un paio di preghiere al buon Dio, della cui amichevole vicinanza avrebbe gran bisogno.
Nino Di Matteo è un magistrato antimafia di Palermo, è – ma d’altra parte non si può essere perfetti – un pubblico ministero che si è trovato, giocoforza, a indagare su un maleodorante affaire, quello della Trattativa Stato-Mafia, che vede coinvolti uomini di Stato, uomini politici, alti gradi dell’Arma dei carabinieri, insieme a mafiosi di analogo alto lignaggio. E il tutto condito da una spezia, che a tanti italiani risulta indigesta come l’olio di ricino, di un pugno di telefonate fra il Capo dello Stato, i suoi consiglieri e proprio uno di quegli imputati – Mancino Nicola – che è Stato tutto: presidente del Senato, ministro degli interni, vice presidente del consiglio della magistratura, ma che oggi è nient’altro che un imputato. Per questo dicevamo che l’affaire è “maleodorante”. Ma torniamo a Di Matteo. Sulla testa del quale, non dimentichiamolo, pende la condanna a morte emessa, in nome dello Stato-Mafia e della Mafia-Stato, da Totò Riina.

Che dovrebbe fare Di Matteo in queste condizioni? Levare le braccia al cielo quando si imbatte in nomi eccellenti che in quell’inchiesta non sarebbero dovuti comparire né ora né mai? Dovrebbe, da pubblico ministero, chiedere l’assoluzione per gli imputati perché l’affaire si è troppo ingrossato? O dovrebbe anche lui, come tanti altri, entrare a far parte del pittoresco caravanserraglio di quanti lodano la bontà di una Trattativa perché venne condotta “a fin di bene”? O, più semplicisticamente, spogliarsi della toga e avviarsi a serena vecchiaia in un atollo Polinesiano? O farsi prete?
Di sicuro c’è – e questo tutti lo hanno capito benissimo – che Di Matteo, e i suoi collaboratori, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene, e il coordinatore, Vittorio Teresi, e il capo dell’ufficio, Francesco Messineo, non lasciano intendere di volersi chiudere in convento o di voler chiedere asilo politico in qualche Centro Raccolta di Pubblici Ministeri Irredimibili. E questo, per Giorgio Napolitano, capo dello Stato, e per il caravanserraglio che si muove rumorosamente al suo seguito (grancassa dei media, uomini delle istituzioni, politici) resta un gran bel problema.
Cerchiamo di spiegare perché.
Alla pansana che i pubblici ministeri “non devono fare politica”, adoperata per mettere fuori gioco e fuori corsa Antonio Ingroia, alla vigilia delle ultime elezioni politiche, non crede più nessuno. Era una vistosa patacca. Ingroia dava “personalmente” fastidio a Napolitano, avendone ascoltato per ragioni d’ufficio le telefonate con Mancino, e di conseguenza al caravanserraglio, proprio perché aveva indagato sino al giorno prima sulla Trattativa, e intendeva caratterizzare fortemente la sua lista con l’opzione “antimafia”. Sarebbe stato scomodo, ancor prima che imbarazzante,  trovarselo seduto a Montecitorio.
Prova ne sia che, appena qualche mese dopo, la lista Tsipras, che pure si muoveva dentro l’analogo bacino elettorale di “Rivoluzione civile” (Ingroia), ha avuto via libera dal caravanserraglio essendosi prudentemente tenuta alla larga dal tema dell’”antimafia” e da candidature che quell’opzione volessero sottolineare. D’altra parte, che i magistrati “non devono fare politica” sia una panzana bella e buona, lo prova oggi la presenza di Piero Grasso, presidente del Senato; Piero Grasso che sino al giorno prima di diventare senatore garantito dal Pd, svolgeva la funzione di Procuratore nazionale antimafia.
Concludendo su questo punto.
A non piacere, a risultare antipatici e indigesti, a far rizzare i capelli in testa a Napolitano e al caravanserraglio, non sono i magistrati che si accostano alla politica, bensì i magistrati che indagano. E, in particolar modo, quelli che indagano troppo, e troppo in alto; quelli che hanno smesso di guardare il dito essendosi accorti che da tempo c’è anche la Luna; quelli che hanno fatto proprio, come motto del loro lavoro, quel verso di Dante Alighieri che così recita: “Non è senza ragion l’andare al cupo”. E – ma questo lo aggiungiamo noi – in Italia non è che scarseggino le “ragioni” per “andare al cupo”.
Nino Di Matteo, l’altro giorno in via d’Amelio, ha parlato in maniera schietta di Paolo Borsellino e di quel contesto statale e istituzionale che 22 anni dopo – 22 anni dopo! – impedisce ancora che mandanti e esecutori siano assicurati alla giustizia. Nino Di Matteo ha detto apertis verbis al caravanserraglio che lui, a far carriera grazie all’argomento delle sue indagini, non ci pensa proprio; diversamente si sarebbe astenuto dal chiamare pesantemente in causa il capo dello Stato e nei termini in cui lo ha fatto.
E’ a quest’ultimo, al capo dello Stato, che toccherebbe il diritto di replica. Le anime belle della sinistra si terranno alla larga da argomento tanto scottante e viscido. Quelle della destra, peggio che andar di notte. Il premier Renzi, che pure, come Dante, è di Firenze, di “andare al cupo” non se lo sogna nemmeno.
Giorgio Napolitano, se ci fosse consentito un benevolo consiglio, dovrebbe andare alla stazione di  Roma-Termini, salire sul primo treno per Palermo, e venire a farsi interrogare dalla Corte d’assise, presieduta da Alfredo Montalto, che indaga sulla Trattativa. Farebbe un figurone davanti a tutti gli italiani. Persino il caravanserraglio, finalmente sgravato dalla responsabilità di difendere all’infinito una causa indifendibile, sarebbe in Stazione, al gran completo, ad applaudire. I cronisti registrerebbero persino qualche lacrima di commozione da parte di qualche direttore di giornale di sinistra.

fonte. Antimafiaduemila