Tra depistaggi e collusioni, parla il pentito Di Carlo: “I servizi mi chiesero di fermare Falcone, con loro anche La Barbera”

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di Miriam Cuccu
“Voleva far sapere che lui è il capo di Cosa nostra e che lo stragismo non è finito, è alla ricerca di chi continui la sua linea suicida”. Così il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo descrive, dalle colonne di Repubblica, i messaggi di morte di Riina e le confidenze fatte dal Capo dei capi a Lorusso, esponente della Sacra Corona Unita. Di Carlo si è dissociato da Cosa nostra nel 1996. Uomo d’onore “vecchio stampo”, la sua affiliazione risale alla seconda metà degli anni Sessanta, all’interno della famiglia di Altofonte, successivamente annessa al mandamento di S. Giuseppe Jato il cui capo era Bernardo Brusca. Il pentito si mostra non poco sorpreso delle inedite esternazioni del boss corleonese detenuto, che nei suoi exploit non risparmia magistrati, vecchi amici come Bernardo Provenzano (accusato di ‘sbirritudine’) e Matteo Messina Denaro, ultimo superlatitante di Cosa nostra (Totò Riina sarebbe rimasto deluso dal boss di Castelvetrano, che avrebbe dovuto proseguire la strategia stragista precedentemente interrotta da zu’ Binnu).

Dal ’94 in poi, però, tutto tace. Cosa nostra, provata dai numerosi arresti e sequestri patrimoniali ma non certamente sconfitta, fa proprio il noto proverbio ‘calati juncu ca passa la china’: in silenzio tenta di riorganizzarsi mettendo da parte le bombe, sostituite da investimenti e affari con esponenti della politica e dell’imprenditoria. “Il popolo di Cosa nostra è stanco, decine di uomini d’onore sono stati sacrificati per la sua megalomania” commenta ancora Di Carlo parlando di Riina, tuttavia non esclude che “può esserci in giro qualche pazzo disposto a dargli credito”, a diventare il braccio armato contro il quale è indispensabile tutelare i magistrati che si occupano della trattativa Stato-mafia oggetto dei messaggi di morte.
Parlando delle stragi, Di Carlo sostiene che “hanno messo d’accordo più soggetti” in quanto “Falcone e Borsellino erano un pericolo anche per chi nello Stato temeva la propria fine”. Del resto, anche i due giudici erano pienamente consapevoli della presenza di una convergenza di interessi che univa personaggi delle istituzioni, dei servizi, della mafia, in nome dei quali è sempre esistito un dialogo continuo tra le parti. Di Carlo racconta che “prima dell’attentato all’Addaura dell’89, venne a trovarmi un emissario di un ufficiale dei servizi che era stato il mio tramite con il generale Santovito per tanti anni” insieme al capo della Mobile Arnaldo La Barbera”. Il motivo della visita? “Vennero a chiedermi di trovare un modo per costringere Falcone ad andar via da Palermo, a cambiare mestiere”. Di seguito l’attentato all’Addaura (poi fallito) il 21 giugno 1989, sul quale permangono molti buchi neri che attendono ancora spiegazioni, non ultima l’ipotesi di un coinvolgimento dei servizi segreti. Lo stesso Falcone, all’indomani del fallito attentato, aveva menzionato Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde, poi condannato per concorso in associazione mafiosa) tra i possibili nomi che potevano celarsi dietro la pianificazione dell’eccidio, come ha testimoniato proprio ieri, ai pm del Borsellino quater, l’avvocato generale di Palermo Ignazio De Francisci, che in passato lavorò fianco a fianco con Falcone e Borsellino nel pool antimafia degli anni ’80.
Rende atto delle intuizioni di Falcone lo stesso Riina, che in una conversazione risalente al 19 agosto confida a Lorusso: “Perché anche per il fatto dell’Addaura, l’Addaura… L’Addaura… quando gli hanno messo la bomba… Poi a lui… Tre anni prima, quattro anni prima, figlio di puttana, lui ha detto… Saranno gente perfetta, gente che… Se lo è immaginato che poteva essere gente… Politici…”.
Il giudice aveva infatti indicato, in merito alla la bomba dell’Addaura, l’esistenza di “punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi”
Il nome di La Barbera, che assistette al colloquio in carcere tra Di Carlo e l’uomo dei servizi (il pentito ha dichiarato che per creare un collegamento “Cercai un contatto, credo che abbiano trovato un’intesa”) viene menzionato anche da Vincenzo Scarantino, in un’intervista esclusiva di Servizio Pubblico. Scarantino è il picciotto della Guadagna sulle cui dichiarazioni è stato messo in piedi un primo processo, per la strage di via D’Amelio, che ha portato alla condanna all’ergastolo di sette persone (poi risultate innocenti). La posizione di Scarantino è stata poi sconfessata dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, le cui rivelazioni smascherarono il depistaggio delle indagini costruite ad arte sul presunto pentito. Nel 1998 Scarantino ritratta le sue precedenti dichiarazioni, accusando poliziotti e magistrati che lo avrebbero indotto a raccontare false verità sulla strage del 19 luglio ’92. Le indagini erano dirette proprio da La Barbera, a capo del gruppo investigativo denominato Falcone-Borsellino. “Io non avevo nessun motivo di inventarmi le cose, io parlavo con il Dottor Arnaldo La Barbera. Facevamo conversazioni lunghe, nelle quali mi sono state indicate delle soluzioni, ma non è vero niente” sostiene Scarantino davanti alla telecamera. “Mi aiutavano a imparare tutto quello che c’era scritto… per ripetere, sistemare. Poi avevano paura che qualcuno mi poteva convincere a dire la verità, magari altri poliziotti…”, “mi chiedevano cosa avrei risposto a una certa domanda che avrebbe potuto farmi l’avvocato e io dicevo che non ne sapevo nulla, allora mi correggevano: “no, devi rispondere così….”. La decisione di collaborare matura dopo un anno di detenzione al carcere duro di Pianosa: “Io volevo scappare da Pianosa perché mi stavano facendo morire!” esclama. Scarantino racconta che nel 1995, dopo aver deciso di ritrattare con una telefonata al tg di Italia Uno, il dottor Mario Bo, appartenente al gruppo Falcone-Borsellino, si presentò a casa del falso pentito, dove ebbe luogo un pestaggio per opera di Bo e del collega Di Ganci. Della genesi della collaborazione di Scarantino si occupano i pubblici ministeri di Caltanissetta che nel corso delle udienze stanno esaminando una lunga serie di testimoni – appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura – che a vario titolo furono coinvolti nelle primissime indagini sulla morte di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta. Lo scorso novembre sono comparsi in aula i funzionari di polizia Vincenzo Ricciardi e Mario Bo, che alle domande dei magistrati si sono trincerati dietro un ostinato silenzio.

Fonte:Antimafiaduemila