MUTOLO: “DI MATTEO È NEL TUNNEL DELLA MORTE” (Silvia Truzzi)

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 Gli altri dissociati hanno confermato le mie dichiarazioni, anche le più rilevanti, come quelle sull’omicidio di Salvo Lima. Inoltre, sono il primo collaboratore a provenire dalle schiere di Riina. La mia storia è quella di un uomo che ha voluto rompere un sistema scellerato, figlio della follia di Riina. Io che ero legato alla mafia vincente, ero stato il braccio destro di Riina, ho parlato non per paura di essere ammazzato, ma per affossare il sistema instaurato da Riina: i libri di storia sono pieni di esempi di tiranni uccisi dai loro uomini più fedeli”. Si presenta così Gaspare Mutolo, pentito di mafia dal 1992, nel libro testimonianza La mafia non lascia tempo (con Anna Vinci, Rizzoli).
Oggi il braccio destro del feroce boss vive sotto copertura, lontano dall’amata Sicilia, e continua a collaborare con la giustizia. In questo memoir pieno di omicidi, vendette, denaro e potere, Totò Riina s’incontra spesso, spessissimo. Con lui Mutolo non va per il sottile. Lo definisce “un demonio” “artefice di un regime del terrore”. Uno il cui pensiero fisso era: “Questo è diventato troppo importante. Meglio ammazzarlo”. E ancora “un pazzo sanguinario che non si faceva problemi ad ammazzare i suoi parenti”, “imprevedibile e inavvicinabile”. Totò u’ curtu, detto anche la Belva, è in cella, nel carcere di Opera: intercettato durante l’ora d’aria, spiega a un “collega” della Sacra corona unita come vorrebbe eliminare Nino Di Matteo, il pubblico ministero del processo sulla trattativa Stato-mafia.

Mutolo, che cosa pensa delle intercettazioni di Riina?
Le aspettative di Riina, ma non solo le sue, sono state tradite: si capisce da come parla con Lorusso, quel compagno di sventura suo. Dopo tanti anni di collusione tra mafia, politica e affari, tutti questi grossi personaggi come Riina sono finiti in galera. Secondo la loro mentalità storta è perché sono stati traditi. La realtà è che i politici sono stati incalzati, in questi anni, dalle associazioni, dai familiari delle vittime della mafia. Penso a Maria Falcone, a Salvatore Borsellino, ai figli di Dalla Chiesa, alla moglie di Rocco Chinnici: persone che hanno continuato a mantenere alta l’attenzione sulle cose della mafia. Sono loro gli unici che lottano alla mafia, la volontà politica non c’è. Non vedo nessuna volontà di tagliare questi cordoni ombelicali tra le istituzioni e Cosa Nostra.

Torniamo ai discorsi di Riina.
Io a Riina lo conosco benissimo. Riina non parla perché vuole dare fiato alla bocca, no. Parla perché lui pensa che fuori c’è qualche fanatico – e ci sarà ancora – che prenderà la palla al balzo. Il problema che bisogna porsi è: riusciranno a fare del male a Di Matteo? Di Matteo è visto dai mafiosi come Falcone nell’85. Logicamente quando nasce un magistrato che non guarda in faccia a nessuno, diventa pericoloso. A Ingroia l’hanno fatto stufare: io penso che ha abbandonato la magistratura perché gli davano sempre addosso. Falcone era uno dei pochi magistrati che volevano liberare la Sicilia dalla mafia, eppure ci andavano tutti contro. Anche i suoi colleghi, anche i suoi amici. Di Matteo sta combattendo, ma l’hanno lasciato solo. Anche se io penso che oggi i giudici sono tutti concordi, con qualche eccezione, a dare contro alla mafia. Purtroppo in Italia le infiltrazioni della mafia nella politica sono profonde. Pensiamo a Marcello Dell’Utri. Ma anche certi atteggiamenti criminali di Berlusconi, condannato per evasione fiscale. Il problema è che ci sono delle cose che al sud si chiamano mafia e al nord si chiamano in un altro modo. Io sono rimasto terrorizzato quando ho letto le intercettazioni della Cancellieri, il nostro ministro della Giustizia, con la compagna di Ligresti. Lei dice di suo marito che è un brav’uomo perché ha dato lavoro a tanta gente. Ma che discorso è? Anche Ciancimino dava tanto lavoro, ed era un mafioso, anche i Salvo davano tanto lavoro ed erano mafiosi.

Il boss in carcere dice anche: “I Graviano avevano Berlusconi”. Che significa?
Li conosco, me li aveva presentati Pino Savoca. Riina vuol dire che i Graviano avevano rapporti con Dell’Utri (la circostanza, affermata nella sentenza di primo grado, non è stata confermata dai giudici d’Appello, ndr). E Dell’Utri era molto amico di Berlusconi: c’erano interessi d’affari. È una verità che si vuole nascondere che la mafia avesse rapporti con Dell’Utri e di conseguenza con Berlusconi. Non dimentichiamo Vittorio Mangano.

Lei dice: Riina parla perché si sente ancora un uomo forte. Lo è davvero o è solo una sua convinzione?
Qualche potere ce l’ha. Ci sono i figli, non bisogna dimenticarlo. E poi la mentalità non è cambiata. Se la maggior parte delle persone in Sicilia paga il pizzo e viene ricattata, allora la mafia non è finita. Lo Stato si è fatto più moderno, ci sono tutte queste tecnologie che ora anche il mafioso sa che lo beccano. Prima era diverso, ma adesso lo sanno tutti che con queste cose elettroniche…

…quindi Riina parla sapendo di essere ascoltato?
Sapendo di essere ascoltato e con la speranza che qualcuno fuori obbedisca. È uno spietato, lo è sempre stato. Quando qualcuno non si sottomette al suo volere, lo vorrebbe morto. Così faceva con i mafiosi, con le donne e i bambini, con i suoi amici, con i poliziotti, con i magistrati. Chiunque gli si metteva contro lo voleva eliminare. Ha questo carattere. Se c’è qualcuno che tenta di combatterlo o di fargli vedere la verità, lui l’unica cosa che spera è che viene ucciso.

“Gli farei fare la fine del tonno”, cosa vuol dire?
Il tonno viene preso quando fa il viaggio dell’amore per andare a deporre le uova, o al ritorno. L’operazione della pesca è complessa. Vengono gettate le reti, le tonnare, che sono divise in diverse camere. Ma quando il pesce entra nella camera, non ha più scampo: dalla prima arriverà all’ultima, la camera della morte. Ed è in gabbia, non si può muovere, non può tornare indietro. Alla fine del tunnel c’è la mattanza: il tonno viene ucciso violentemente. Di Matteo ha preso quel tunnel lì di combattere la mafia, perché tutti i processi importanti ce li ha anche Di Matteo, e quindi è come se fosse entrato nella camera della morte. Anche il magistrato ha un passaggio obbligato, tutti i giorni: va al Palazzo di giustizia e torna a casa. È come i tonni, che seguono sempre la stessa rotta, all’andata e al ritorno del loro viaggio: si chiama la strada della morte. Se vuole, lo Stato è più forte di tutto questo: Di Matteo non deve essere abbandonato dallo Stato e dal governo.

Fonte: Giacomosalerno.com