Scarpinato: processo Trattativa ha svelato che parte dello Stato cercò Cosa Nostra

L’ex procuratore generale di Palermo: “Perché Riina si accanisce contro il pm Nino Di Matteo di cui auspicava l’uccisione?”

Il processo sulla Trattativa Stato – Mafia ha avuto il merito “di portare alla luce, vincendo reticenze, resistenze e mille ostacoli, una verità rimasta per lungo tempo occulta, e cioè che mentre una parte dello Stato era impegnata a fermare le stragi seguendo la via maestra di individuare i colpevoli neutralizzandoli con l’arresto, un’altra seguiva la via obliqua di traccheggiare segretamente con alcuni vertici mafiosi, tentando di conseguire lo stesso risultato venendo a patti con la componente meno bellicista”.
Così l’ex procuratore generale di Palermo e oggi senatore del Movimento 5 Stelle Roberto Scarpinato ha commentato la sentenza di Cassazione sul processo Trattativa Stato-Mafia con cui sono stati assolti Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, ‘per non aver commesso il fatto’. Marcello Dell’Utri è stato dichiarato non colpevole “per non aver commesso il fatto”. I soliti boss mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, ‘salvati’ dalla prescrizione, essendo decorsi oltre 22 anni dalla consumazione del reato tentato, riformulato in ‘tentata minaccia a corpo politico dello Stato’.
Non vi sono, secondo Scarpinato, “le condizioni perché venga accertata in sede giudiziaria la verità sui retroscena delle stragi del 1992 e del 1993”.
Certamente “occorrerà attendere le motivazioni per comprendere le argomentazioni della Corte” ma “sembra di capire che i mafiosi hanno effettivamente tentato di usare violenza e minaccia nei confronti dello Stato, e abbiano testardamente eseguito una strage dietro l’altra dal 1992 al 1993 nella pia illusione che qualcuno all’interno dello Stato prima o poi prendesse in considerazione le minacce o, peggio, che si siano lasciati turlupinare da qualcuno che ha fatto loro credere che le minacce fossero fruttuose”.
Restano da capire molte cose: come si spiegheranno le condotte dei carabinieri imputati che le Corti di Assise di primo e di secondo grado di Palermo hanno concordemente ritenuto provate, e che quella di Appello ha definito poste in essere in ‘totale spregio del loro ufficio e dei loro compiti istituzionali’? “Perché ingannarono la Procura di Palermo consentendo ai mafiosi subito dopo la cattura di Riina di fare sparire tutti i documenti custoditi nella casa di quest’ultimo? Perché omisero di catturare Bernardo Provenzano consentendogli di continuare a mafiare e uccidere per anni, tanto da fare scrivere alla Corte di Assise di Appello ‘si resta davvero basiti di fronte all’abnormità delle anomalie, molteplici e reiterate’? Perché omisero qualsiasi attività di indagine su Paolo Bellini pur essendo stati informati che incontrava gli esecutori della strage di Capaci e potendo dunque impedire le ulteriori stragi? Perché Mori arrivò al punto di distruggere l’appunto scritto che gli era stato consegnato sulle attività svolte da Bellini? Sarebbe interessante inoltre capire i motivi dell’accanimento di Riina contro il pm Nino Di Matteo di cui auspicava l’uccisione, come risulta dalle intercettazioni delle sue conversazioni in carcere. Invito recepito da Matteo Messina Denaro che, come dichiarato dal collaboratore Vito Galatolo, ordinò anni dopo il suo omicidio con una autobomba, dichiarandosi disponibile a fornire un artificiere la cui identità però doveva restare ignota a tutti i mafiosi”.

La ricerca della verità sulle stragi
Nonostante il verdetto secondo Scarpinato la partita per arrivare alla verità “resta dunque ancora aperta e, purtroppo, vari segnali inducono a ritenere che resterà irrisolta. La giustizia è praticabile infatti solo nei limiti e negli spazi non occupati dalla prevaricazione dei rapporti di forza, e alla luce della lezione della storia, lo stragismo italiano non appare riducibile a vicenda criminale giustiziabile, ma essere piuttosto questione inestricabilmente intrecciata a quella della lotta del potere, della democrazia e dello Stato”.
“Le responsabilità dei mandanti – ha scritto Scarpinato sul ‘Fatto’ – dei complici esterni e le motivazioni politiche appaiono destinate a restare nell’ombra per ragioni analoghe a quelle che hanno segnato l’impotenza della giustizia a fare piena luce sui complici eccellenti di tutte le stragi che dal secondo dopoguerra hanno pressoché ininterrottamente insanguinato il nostro Paese. Ragioni complesse tra le quali assumono un rilievo preminente i sistematici depistaggi posti in essere da esponenti di apparati statali, condannati in vari casi con sentenze definitive (stragi di Milano del 1969, di Peteano del 1972, di Bologna del 1980), segno inequivocabile di interessi politici sovraordinati a quelli degli esecutori materiali e il silenzio dei depositari di segreti scottanti per ragioni di autotutela personale alla luce di una realistica analisi dei rapporti di forza”.
La ‘mano’ che ha permesso la tutela di interessi politici che erano, e sono, al di sopra della mera esecuzione, è la stessa che ha permesso la  “sottrazione di documenti essenziali per individuare mandanti eccellenti (i documenti custoditi nell’abitazione di Salvatore Riina, l’agenda rossa di Paolo Borsellino, alcuni file delle agende elettroniche di Giovanni Falcone), la creazione di false piste e di falsi collaboratori, proseguita anche dopo il caso eclatante di Vincenzo Scarantino sino a tempi recenti (si pensi al grave tentativo di depistaggio delle indagini su via d’Amelio posto in essere nel 2021 dal collaboratore Maurizio Avola), l’eliminazione di esecutori e di soggetti depositari di segreti scottanti, prima che potessero collaborare con la magistratura (Antonino Gioè, Luigi Ilardo)”.
“Anche il silenzio di boss stragisti condannati all’ergastolo è una replica dei silenzi degli esecutori delle stragi neofasciste: non una libera scelta, ma il frutto di un calcolo calibrato dei pro e dei contro”.
Alla luce di tutto questo è fin troppo evidente l’attuazione di “prassi operative dirette a impedire l’emersione del coinvolgimento della criminalità del potere nelle stragi. Continuità che sembra collegare gli eventi del 1992/1993 a quelli precedenti” ha spiegato l’ex alto magistrato.
“Una esemplificazione paradigmatica di tale continuità emerge dalla sentenza della Corte di Assise di Bologna depositata il 5 aprile 2023, che ha condannato Paolo Bellini come esecutore della strage del 2 agosto 1980, unitamente a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto
Cavallini
e Luigi Ciavardini“.
Nelle motivazioni della sentenza viene spiegato il ruolo di Paolo Bellini, uomo cerniera tra servizi segreti, destra eversiva, ’Ndrangheta e Cosa Nostra.
Era lo stesso che nel 1991 e nel 1992 era presente in Sicilia in tutte le fasi cruciali della campagna stragista ed è in costante rapporto con Antonino Gioè, mafioso esecutore della strage di Capaci al quale suggerisce di innalzare il livello dello scontro con attentati a beni artistici nazionali, la stessa strategia messa in cantiere negli anni 70 da alcune frange della destra eversiva.
Emerge con forza dalla lettura della sentenza la figura di Federico Umberto D’Amato, il potente direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno dal 1971 al 1974.
‘Si è già detto – si legge nella sentenza – che Federico Umberto D’Amato era affiliato alla loggia massonica P2 ed in contatto personale con il ‘capo’ Licio Gelli anche durante la latitanza di costui in Svizzera’.
La tesi della Procura generale è che nel ‘progetto stragista di Licio Gelli subentrò il binomio Federico Umberto D’AmatoMario Tedeschi, menzionati nel Documento/Appunto Bologna come destinatari di finanziamenti da parte di Gelli. I due uomini erano uniti non solo da amicizia, ma da una risalente cooperazione nei servizi d’intelligence, di cui si trova riscontro nel libro di Lando Dell’Amico ‘La leggenda del giornalista spia’, acquisito agli atti del processo’.
“Gelli – ha scritto il senatore – oltre a essere stato un riciclatore dei capitali della mafia, è stato promotore proprio negli anni 1991 e 1992 di un movimento politico nel quale confluirono esponenti delle mafie coinvolti nella esecuzione delle stragi, esponenti della destra eversiva e della massoneria. Nel settembre del 1992 dichiarò in una intervista che occorreva un colpo di Stato, nel febbraio del 1993 giocò un ruolo determinante per costringere alle dimissioni il ministro della Giustizia Claudio Martelli, nell’estate del 1993 definì le stragi ‘espressione dello stato di esasperazione della popolazione oppressa da una classe politica corrotta’. Infine in vari momenti cruciali della sequenza stragista, emerge l’operatività di personaggi dei servizi”.
Personaggi presenti anche in via d’Amelio immediatamente dopo l’esplosione con lo scopo di recuperare la borsa di Paolo Borsellino con l’agenda rossa”.
“Quanto sin qui esposto – ha concluso Scarpinato – fa comprendere perché la sentenza della Corte di Cassazione che ha definito il processo sulla c.d. trattativa non costituisca affatto un punto di arrivo, né una tappa miliare, come tanti hanno commentato, essendosi occupata di una vicenda circoscritta, inidonea a fare luce sulle causali della strategia stragista e sulle sue complesse finalità politiche”.

Fonte: ilfattoquotidiano.it

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