Chi ci guadagna con la fame?

Con i loro extra-profitti, le multinazionali alimentari potrebbero salvare i 230 milioni di persone più vulnerabili del mondo

In molti sono consapevoli che il XXI secolo è dominato dalle grandi multinazionali e dagli interessi di pochi ricchi, «Quindi  – dice greenpeace International – non dovrebbe sorprendere nessuno se le grandi companies venissero colte nel trarre profitto da due dei maggiori sconvolgimenti mondiali dal 2020: la pandemia di coronavirus e la guerra in Ucraina. Eppure, dovrebbe farci arrabbiare».

Il nuovo rapporto “Food Injustice 2020 – 2022 – Unchecked, unregulated and unaccountable: Who a the hunger profiteers?” di Greenpeace International  dimostra come  20 della più grandi corporations  dell’agribusiness –  – le più grandi nei settori dei cereali, dei fertilizzanti, della carne e dei latticini – «Abbiano sfruttato il loro enorme potere per fornire profitti osceni agli azionisti mentre milioni di persone affrontano la povertà alimentare e la fame».

La ricerca mostra «Un fallimento sistemico della politica pubblica, che ha permesso a un gruppo selezionato di multinazionali di registrare enormi profitti, arricchendo gli individui che le possiedono e trasferendo ricchezza a azionisti, la maggior parte dei quali si trova nel Nord del mondo. Sommando i pagamenti delle 20 companies agli azionisti nei soli anni finanziari 2020 e 2021, si è raggiunto l’incredibile importo di 53,5 miliardi di dollari!» Per capire di cosa stiamo parlando, nel dicembre 2022 l’Onu ha stimato che per salvare 230 milioni delle persone più vulnerabili del mondo nel 2023 ci vorrebbero 51,5 miliardi di dollari».

Il rapporto si chiede come sia stato possibile che le multinazionali alimentari siano riuscite  a mettere le mani su questa enorme somma di denaronel bel mezzo di due grandi crisi. La risposta che riassume Davi Martins, biodiversity campaign strategist di Greenpeace International è: «Possedendo letteralmente il mercato. La concentrazione del mercato consente a questo piccolo ma straordinariamente potente gruppo di aziende di avere un controllo estremamente sproporzionato, non solo sulle catene di approvvigionamento alimentare in sé, ma anche sulle informazioni su tali catene di approvvigionamento, il che a sua volta consente una maggiore estrazione di ricchezza a vantaggio dei loro proprietari e azionisti, ma a danno tuo, mio ​​e di tutti gli altri. I dividendi in contanti e i programmi di riacquisto degli azionisti hanno permesso loro di dare una quantità di denaro astronomica ai loro azionisti, amplificando ulteriormente il loro potere sull’industria e sui governi».

Secondo il “Another perfect storm” di  IPES Food, un  panel di esperti di sistemi alimentari sostenibili, le 4 maggiori imprese del settore  (Archer-Daniels Midland, Bunge, Cargill e Dreyfus – ABCD) «Controllano il 70-90% commercio mondiale del grano, ma non hanno alcun obbligo di rivelare ciò che sanno sui mercati globali, comprese le proprie scorte di grano». Per Greenpeace «Questa mancanza di trasparenza significa che queste compagnie nascondono informazioni che possono modellare i prezzi del grano in base alle loro esigenze:  nemmeno gli hedge fund possono ottenere informazioni se non direttamente da queste società. Il nostro rapporto rileva che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’opacità circa le reali quantità di grano immagazzinato è stato un fattore nello sviluppo di una bolla speculativa».

Greenpeace Italia ricorda che «Come ogni bene quotato in borsa, le quotazioni del grano aumentano quando la sua disponibilità sul mercato diminuisce, anche se la scarsità, come avvenuto con i cereali nei primi mesi del conflitto, è più percepita come un rischio futuro che un reale pericolo immediato o reale. In questo contesto è evidente che le quattro “grandi sorelle dei cereali” hanno tutto l’interesse a trattenere le proprie scorte – o a non far sapere a quanto ammontano – fino a quando i prezzi non raggiungono il picco. E se le loro scorte rappresentano una fetta ampia di quelle totali, l’effetto può essere devastante. Nella prima settimana di conflitto la compravendita dei futures (strumenti finanziari) sul grano, solo nel mercato ufficiale è cresciuta tra il 40 e il 60%, e il prezzo della farina macinata alla borsa di Parigi è schizzato al livello record di 400 euro la tonnellata. Per comprendere l’impatto di questi numeri basti pensare che, secondo la Banca Mondiale, per ogni aumento di un punto percentuale dei prezzi alimentari, 10 milioni di persone nel mondo oltrepassano la soglia della povertà estrema».

Gli ambientalisti avvertono: «Si potrebbe pensare che il sistema agroalimentare italiano sia distante anni luce dalle grandi multinazionali che dominano l’alimentazione (o a volte la fame) nel Mondo, ma aprendo il meccanismo di scatole cinesi di queste grandi corporation, scopriamo che non sempre è così. Al primo posto per profitti nel settore della carne troviamo il gruppo brasiliano JBS, con oltre 71 miliardi di dollari di ricavi nel 2022, che in Italia controlla Rigamonti, marchio conosciuto in particolare per la bresaola della Valtellina (fatta però in gran parte con carne di zebù brasiliano). Proprio a dicembre 2021 JBS ha concluso l’acquisto del gruppo King’s, primo operatore italiano nella produzione di Prosciutto di San Daniele D.O.P. e player di spicco nella produzione di Prosciutto di Parma D.O.P,  riconosciuto dal governo italiano come “Marchio Storico di Interesse Nazionale”. L’obiettivo dichiarato da JBS è di raggiungere “ricavi netti per ca. €110 milioni di euro entro la fine dell’anno grazie ad un’operazione strategica per l’espansione di JBS negli Stati Uniti e in Europa” grazie alla possibilità di produrre e distribuire “autentiche specialità italiane in tutto il mondo”, come si legge dal comunicato stampa sull’acquisizione. Dichiarazioni importanti per capire più a fondo quali realtà finiscono per beneficiare, più o meno direttamente, delle politiche di sostegno del Made in Italy finanziate anche con fondi pubblici».

Greenpeace Italia evidenzia che «Nella classifica troviamo anche marchi italiani del settore dei latticini: la francese Lactalis controlla infatti Galbani e Parmalat, prodotti diffusi in tutti i supermercati e in molte tavole italiane, e ha realizzato nel 2021 ricavi per 26 miliardi di dollari, posizionandosi al primo posto tra le big dei latticini. Questo non ha impedito al gruppo di firmare un appello, insieme alla “rivale” Granarolo, per chiedere aiuti economici al Governo italiano a favore del settore del lattiero-caseario, richiamando, tramite le parole dell’AD di Lactalis in Italia, alla “responsabilità pubblica” per contrastare il rischio dell’aumento dei prezzi al consumo in una fase di crisi. A guardare i bilanci dei marchi italiani del settore però non sembra si possa parlare di crisi, e proprio Granarolo, Galbani e Parmalat risultano sul podio per maggiori ricavi netti conseguiti nel 2021, con poco meno di un miliardo di euro a testa. Ma le grandi multinazionali del food entrano nel made in Italy anche in modo più indiretto: ad esempio, attraverso le milioni di tonnellate di soia che viaggiano dal Sud America fino agli allevamenti intensivi italiani, o di cereali, in particolare mais e frumento, destinati alla mangimistica. Il principale porto di ingresso della soia in Italia è il porto di Ravenna, dove, non a caso, è situata la sede italiana di Bunge con i suoi giganteschi silos dove sono stivati cereali e semi oleosi. Ma anche il gruppo Cargill vanta in Italia 9 sedi distribuite lungo tutto lo stivale e detiene una fetta importante del commercio di cereali nel nostro Paese».

Per Martins, «Per governi e responsabili politici, non c’è altra via d’uscita se non quella di agire. Se vogliamo vedere un mondo senza fame, cosa che ci aspettavamo da tempo, il cambiamento strutturale più incisivo che possiamo apportare al sistema alimentare globale sta nel lavorare per realizzare la sovranità alimentare. Per anni, i movimenti per la sovranità alimentare hanno cercato di restituire l’autonomia ai produttori di cibo, accorciando e rafforzando le catene di approvvigionamento per invertire i danni causati da un’agricoltura insostenibile, alle comunità, alla natura e alle nostre diete. E non è solo un pio desiderio. Dalla Papua Nuova Guinea al Brasile, Messico e molti altri Paesi, ci sono profondi movimenti strutturali che lavorano per portare il cibo nel piatto di tutti».

E Greenpeace International aggiunge qualcosa che non piacerà per nulla al nostro governo che si f dichiara fan della sovranità alimentare e del Made in Italy: «Misure come il reddito di base universale per aiutare a combattere la povertà e ridistribuire la ricchezza; tassare gli extra-profitti  delle companies durante le crisi con un’imposta sugli extra-profitti ambiziosa e a livello di settore, e una tassazione significativa sui pagamenti dei dividendi agli azionisti facoltosi, nonché sui redditi da dividendi, sono solo alcuni esempi dei primi passi che i governi devono compiere per portare la prevalente crisi alimentare al termine».

Martins aggiunge: «Visto che è stato uno dei temi principali durante le ultime conferenze delle Nazioni Unite sul clima e la biodiversità, il cibo deve essere trattato come una componente chiave dei diritti umani e del cambiamento climatico. Togliere il potere a quelle poche corporazioni e restituirlo ai piccoli agricoltori ecologici promuoverà attivamente la giustizia sociale che dobbiamo vedere nel mondo contemporaneo in cui viviamo, ma affronterà anche la crisi climatica a testa alta! A livello diplomatico, i governi possono beneficiare di un maggiore controllo sulla logistica e sulla produzione e di prendere decisioni intergovernative più rapide ed efficienti a vantaggio della cittadinanza. E’ tempo che il cibo sia visto per quello che è: un bisogno umano fondamentale che deve essere disponibile per tutti noi e non un’altra merce da sfruttare e scambiare per il profitto di poche famiglie».

Greenpeace Italia concorda e conclude: «Un maggior ruolo delle istituzioni pubbliche e politiche è senz’altro necessario per garantire l’accesso a cibo sano e a prezzi equi, tanto per i consumatori che per i piccoli produttori. È infatti evidente come un modello agroalimentare in cui poche grandi multinazionali controllano intere filiere strategiche finisca per tagliare fuori dal mercato i piccoli produttori locali che sono al centro di quella sovranità alimentare che recentemente è entrata nella denominazione del nostro Ministero dell’agricoltura. I governi a livello internazionale, nazionale e locale hanno un ruolo chiave per limitare il monopolio delle grandi corporation nei sistemi alimentari, promuovendo, ad esempio, misure che garantiscano una maggiore trasparenza e regolamenti più rigorosi sulle operazioni finanziarie al fine di frenare la speculazione e, laddove sia chiara la realizzazione di extraprofitti a seguito di inattesi cambiamenti del mercato, come avvenuto in seguito al conflitto in Ucraina, applicando una altrettanto “extra” tassazione».

fonte: greenreport.it