Stato-mafia: quel silenzio (osceno) sul patto sporco

Nuovi spunti di riflessione nell’edizione aggiornata del libro di Di Matteo e Lodato

Quattro anni. Nel frattempo è successo di tutto. Ci siamo ritrovati a dover affrontare l’inaspettato, che ha scosso le fondamenta del nostro vivere quotidiano. Siamo ancora all’interno di quel vortice che continua a scuoterci. E quando ne usciremo non saremo più gli stessi. Ma se in tutto questo un libro ti ricorda il silenzio osceno che permane sulla verità di un patto tra mafia e Stato, vale la pena acquistare la nuova edizione aggiornata de “Il Patto sporco” (che verrà presentato sabato 17 dicembre a Roma, alle Industrie Fluviali) a firma di Nino di Matteo e Saverio Lodato. Ed è proprio quest’ultimo che nella minuziosa introduzione racconta “l’impresa titanica” dei “cervelli migliori”: cancellare la memoria di ciò che è stato sancito da due sentenze, e iniziare quindi un nuovo “Grande Racconto”.

Le pesanti condanne del 2018 a uomini di Stato (assieme a mafiosi e collaboratori di giustizia) che hanno trattato con la mafia? Shhh, fate piano, pochi titoli sui giornali (salvo rarissime eccezioni) e ancora meno servizi ai Tg o ai vari talk nazionali. Evitiamo che questo tema diventi terreno di scontro in Parlamento, facciamo in modo che cali il silenzio.Le clamorose assoluzioni di quegli stessi uomini di Stato precedentemente condannati (lasciando il cerino in mano solo ai mafiosi)? Ecco, quelle assoluzioni sbandieriamole per bene, ma poi evitiamo di spiegare che nella motivazione della sentenza emergono fatti gravissimi e incontrovertibili a loro contestati: “la trattativa c’è stata”, ma “non costituisce reato” in quanto è stata “un’azione improvvida” di alcuni servitori dello Stato, e comunque compiuta “a fin di bene”, insomma, con “fini solidaristici”. Anche se poi i giudici riconoscono che si è trattato di un “rischio mal calcolato”. E chissene fotte se la trattativa ha sortito l’effetto di provocare altre stragi e altri morti innocenti, tra cui due bambine di 8 anni e 50 giorni (come sancito dalla sentenza della Cassazione sulle stragi del ‘93, secondo la quale la strategia del Ros ha effettivamente rafforzato in Riina la convinzione che l’attacco allo Stato avesse ottenuto i risultati sperati inducendo Cosa Nostra a fare altre stragi). Chissene fotte se quelle stragi politico-mafiose – come ha evidenziato al Senato l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato – sono state eseguite “non solo per interessi interni alle mafie, ma anche per interessi di qualificati soggetti esterni, al fine di realizzare la destabilizzazione politica del Paese e pilotare la transizione verso un nuovo ordine politico con un uso sapiente del linguaggio delle bombe”. L’importante è che quella trattativa abbia “salvato” la facciata delle sacre istituzioni, dei suoi eccelsi rappresentanti, e abbia gettato le basi per favorire quegli “interessi” dei “soggetti esterni”, nazionali, ma anche d’oltreoceano.
Fate dunque smettere quei lamenti dei familiari di vittime di mafia e di quei quattro straccioni di attivisti! Sipario.

Il ruolo di una “cittadinanza attiva”
“Quale che sia l’esito del Processo, assoluzione o condanna – ipotesi da noi auspicata, credendo fortemente nel vostro lavoro – il servizio che avete reso al nostro Paese è ineguagliabile. Il vostro lavoro verrà in qualunque caso portato avanti, e toccherà a noi tutti assumerci lo sforzo di cittadinanza attiva che sarà richiesto, per riflettere e far riflettere sui fatti che grazie a voi sono venuti alla luce, e sulle relative conseguenze per il nostro Stato”. Era il 10 aprile 2018 quando un gruppo di studenti universitari di Trento scriveva una lettera aperta al pool del processo trattativa pochi giorni prima della sentenza di primo grado.

Otto mesi dopo la prima edizione de “Il patto sporco” veniva presentata a Venezia e le parole di quei ragazzi tornavano potenti a farsi sentire al Palazzo Cavalli-Franchetti. Ricordo come fosse ieri l’emozione del pubblico presente a quell’incontro. Era per tutti evidente che non si trattava della mera presentazione di un libro. Attraverso quel volume venivano analizzate azioni ed omissioni gravissime sancite in una sentenza. Azioni ed omissioni che avevano portato alla condanna di chi li aveva compiute. Tutto ciò avrebbe dovuto scuotere le coscienze di un intero Paese, che aveva accettato – più o meno in maniera consenziente – di essere in balia di una classe dirigente funzionale (se non meramente complice) a un sistema di potere. Che vedeva – e vede – come fumo negli occhi la verità sul biennio stragista ‘92/’93. Ma quella tanto auspicata presa di coscienza generale (ancora) non c’è stata.

Una riforma per colpire la giustizia
Uno dopo l’altro sono trascorsi quattro anni nei quali si è assistito a uno stillicidio persistente nei confronti della giustizia. Ma per mano di chi? Di quello stesso sistema di potere che per smantellarla sistematicamente e anestetizzare un intero Paese ha utilizzato donne e uomini di Stato (compresa una parte della magistratura), con il supporto prezioso dei grandi media compiacenti. Uno stillicidio che ha visto la sua apoteosi nella riforma Cartabia: dal nome di una ministra che rimarrà nella storia per aver compiuto fino in fondo la “missione” probabilmente affidata da chi sa manovrare bene ministri, superiori o subalterni, trattandoli come semplici burattini. In totale spregio della Costituzione. Ma anche della stessa Commissione europea che pochi mesi fa ha sonoramente bocciato questa ignobile riforma evidenziandone i pericolosissimi rischi per “l’effettività del sistema giudiziario” attraverso il contestato meccanismo dell’improcedibilità, con effettivi rischi per i processi per corruzione, per la stessa indipendenza dei magistrati e via dicendo. Analogo discorso per il noto decreto sull’ergastolo ostativo che, una volta per tutte, disincentiva definitivamente le possibili nuove collaborazioni di boss mafiosi (e non solo).

Incurante di ciò l’ex ministro della giustizia Marta Cartabia è arrivata ad inserire nella sua riforma, poco prima delle recenti elezioni politiche, una norma contra personam, nello specifico contro il consigliere del Csm Nino Di Matteo. Con un obiettivo alquanto esplicito: impedire ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari – ma anche a chi, come Di Matteo, ha fatto parte del Csm nei due anni precedenti – di potersi candidare. “Non sono eleggibili alla carica di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia, di senatore o di deputato” (ed altre cariche, ndr), e tanti saluti.

Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti
Nella nuova introduzione Saverio Lodato illustra al lettore in maniera chiara, esaustiva e, soprattutto, basandosi su dati oggettivi estrapolati dalla sentenza di Appello al processo trattativa, la gravità di quanto viene riportato dai giudici, nonostante le singolari assoluzioni. Un atto di accusa nei confronti di quella strisciante interpretazione “liberatutti” che la stragrande maggioranza dei mezzi di informazione ha colpevolmente assegnato alla sentenza di assoluzione. E proprio grazie a una maggiore consapevolezza acquisita dopo la sentenza di Appello, le illuminanti risposte di Nino Di Matteo a Lodato (già contenute nella prima stesura del libro) permettono di approfondire ulteriormente fatti e circostanze volutamente occultati. Consentendo al lettore la possibilità di farsi una propria idea su chi ha deciso di trattare con la mafia sulla pelle di integerrimi magistrati, uomini e donne delle forze dell’ordine e ignari cittadini che sono stati barbaramente assassinati. Finiti nelle cronache giudiziarie e nei libri di storia, negli elenchi delle vittime del più recente e infame periodo stragista italiano.

Non si può non provare un senso di vertigine nel leggere uno dopo l’altro i passaggi della sentenza di Appello riportati da Lodato nell’introduzione. Una sentenza che, parafrasando De Andrè – seppur assolvendoli – inchioda alle loro responsabilità, personaggi del calibro di Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno: dalla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, alla mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso (e oltre). Per non parlare di Marcello Dell’Utri, per il quale i giudici scrivono: seppur “non si ha prova” che (Dell’Utri, ndr) “nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto”, “abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso” allo Stato, l’ex senatore di Forza Italia “aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra”. Una “piena conoscenza” dovuta alle “sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano” (e non fino al ‘92, come aveva invece stabilito la sentenza della Cassazione che nel 2014 aveva condannato lo stesso Dell’Utri a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr). E sono ancora tanti altri gli episodi che Saverio Lodato mette in fila uno dietro l’altro, una sorta di consecutio temporum della pura e semplice verità. Che ancora oggi, dopo due sentenze, provoca l’orticaria a molti pezzi dello Stato (Giorgio Napolitano docet), gran parte del mondo politico e del giornalismo, quest’ultimo sempre più colpevole dell’occultamento delle notizie scomode.

Vietato (per legge) fare domande al Pm
Lodato lamenta amaramente l’impossibilità di fare nuove domande al coautore del libro alla luce della sentenza di Appello. E’ mai  possibile che tre carabinieri, completamente soli, abbiano potuto trattare con la mafia per conto dello Stato senza che lo Stato lo abbia saputo o concordato? E’ solo uno dei molti interrogativi che l’autore avrebbe voluto porre a Nino Di Matteo. Ma non è possibile. Vietato per legge. La riforma Cartabia proibisce ai pubblici ministeri di riferirsi ai processi in cui hanno avuto un ruolo. E se poi quei Pm infrangono la regola si imbattono inevitabilmente in un procedimento disciplinare. Nulla da dire la società civile? Benvenuti nel Paese dei tanti bavagli, dove è possibile calpestare i diritti basilari sanciti dalla Costituzione, a suon di restrizioni e di qr code – dove si spendono miliardi in armi da mandare a paesi in guerra, mentre la povertà avanza inesorabilmente – ma dove è vietato porre domande fastidiose e pretendere la verità.

Ma le domande, come ribadisce Lodato, restano; checchè ne dica la Cartabia o il suo successore, Carlo Nordio, pronto a sferrare il colpo di grazia alla giustizia.
Quella chiamata all’assunzione di responsabilità per essere una “cittadinanza attiva”, formulata dagli universitari di Trento quattro anni fa, è oggi più che mai valida.
Nell’indimenticabile monologo finale del film “Il divo”, in cui uno straordinario Toni Servillo interpreta Giulio Andreotti, si osserva da un’altra prospettiva la ragione per cui certe verità continuano ad essere rinchiuse negli armadi di Stato. “Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del paese – spiega il “divo” Giulio –. Lo stragismo per destabilizzare il paese, provocare il terrore, isolare le parti politiche estreme, per rafforzare i partiti di centro come la DC. L’hanno definita strategia della tensione: sarebbe più corretto dire strategia della sopravvivenza. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo! Noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato noi, un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch’io”.
Un mero delirio di onnipotenza? O forse solamente lo specchio distorto di un pezzo (importante) di Stato, disposto a “giustificare” ogni infamia compiuta. Trattativa inclusa.


Info: Industrie Fluviali

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fonte: antimafiaduemila.com