Ardita: ”Politica vuole mortificare i magistrati per paura delle inchieste sul potere”

Il consigliere togato al dibattito di ‘Nessuno tocchi Caino’ con Sergio D’Elia

La guerra in Ucraina, il diritto naturale, la riforma della giustizia, l’amministrazione delle carceri e la riforma della legge sull’ergastolo ostativo. Sono stati questi i temi trattati nel dibattito intitolato “Non un Diritto penale migliore ma qualcosa di meglio del Diritto penale” andato in onda su Radio Radicale tra il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita e il segretario dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’ Sergio D’Elia.
Il punto di partenza è stato l’aggressione della Federazione Russa alla nazione Ucraina: “Tutti condanniamo l’invasione di uno Stato sovrano – ha detto Ardita – perché è inevitabile che cittadini inermi fanno le spese di un contrasto grave che si è verificato”. Il conflitto, ancora in corso, non può essere spiegato con delle valutazioni semplicistiche poiché è chiaro che quello che è successo è frutto di lunga catena di eventi. Secondo il magistrato infatti dobbiamo “guardare cosa accade innanzitutto dentro questi Stati che hanno fatto uso delle armi per affermare quello che ritengono essere proprie prerogative”. In questi Paesi “inevitabilmente le carceri diventano luoghi di repressione pura anche e non solo della criminalità ma del dissenso politico. Abbiamo visto che nelle carceri sono morti degli intellettuali, sono morti magistrati, arrestati perché indipendenti. Sono morti politici di opposizione, com’è successo in Turchia”, ha detto il magistrato.
In Italia – ha continuato – noi abbiamo la fortuna di avere un sistema equilibrato il quale una compressione dei diritti e delle libertà corrisponde soltanto ad un danno grave alla collettività. In funzione di questo esistono i sistemi penalistici e di prevenzione. Esiste il carcere, esiste il 41-bis, esiste l’alta sicurezza perché servono a bilanciare in un sistema democratico l’esigenza di sicurezza con l’esigenza di libertà”.

Referendum giustizia
D’Elia durante il dibattito ha detto che l’ordine giudiziario sarebbe uscito fuori da quelle che sono le sue prerogative diventando così una sorta di ‘potere’ cha ha assunto su di sé il diritto di legiferare e quindi provocando uno scompenso all’interno dell’equilibro tra i poteri dello Stato. Inoltre il segretario di ‘Nessuno tocchi Caino’ ha ricordato il referendum popolare proposto da Lega e Radicali definendolo come una grande occasione per un dibattito sulla giustizia.
Ardita non ha avanzato scuse: “C’è bisogno sicuramente in democrazie, la distinzione tra le funzioni giudiziarie da quelle politiche, questo non c’è dubbio”. “Detto questo – ha continuato – non è male in sé che esista un potere giudiziario. E’ male in sé che esiste uno squilibrio tra poteri. Il problema che avete introdotto con il referendum però è un problema secondo me capovolto”.
Secondo Ardita infatti gli interventi che si dovrebbero fare devono essere riferiti ai vertici della magistratura dove ci sono certi soggetti che “hanno assunto la rappresentanza di tutti e che per tutti ritengono di dover decidere nelle scelte di autogoverno”. Invece il referendum promosso vuol “essere una specie di monito alla magistratura per dire: tornate un po’ nel vostro angoletto e non date fastidio al manovratore”.
Secondo il consigliere togato ci sono molti magistrati che “vogliono essere liberati in questo momento da un altro vincolo che è il vincolo appunto dei gruppi che si sono formati all’interno del nostro mondo. E’ una cosa difficile da spiegare ai cittadini però esiste e che potrebbe vedere la politica impegnata magari con una semplice riforma in cui magari una volta tanto introduca il sorteggio per la scelta dei candidati dei componenti togati e laici del consiglio superiore e dia un colpo di reset ad un sistema che si è un attimo imballato”. “Cioè quello che io voglio dire è questo: i magistrati contro cui vengono fatti questi referendum sono quelli che lavorano ogni giorno nelle loro inchieste e nelle loro attività e sono lasciati soli” dall’organo di autogoverno.
Questi magistrati – ha continuato – che operano sul territorio si ritrovano ad essere molte volte soli in alcune scelte che fanno perché chiaramente quello che dovrebbe essere l’organo di autogoverno, che deve essere un organo di garanzia, diventa un organo di rappresentanza” delle correnti.
In questa situazione i magistrati hanno più volte chiesto aiuto alla politica ma questa “non li aiuta” anzi “vuole mortificarli perché si preoccupa delle indagini che riguardano il potere che conta” e i collegamenti tra i politici con i poteri mafiosi o quelli deviati, “questo è lo scopo”. “I referendum intimidiscono la base e non scalfiscono minimamente il potere” ha detto Ardita.


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La politica non ascolta la magistratura
D’Elia ad incerto punto del dibattito ha detto che il magistrato “dovrebbe stare zitto” e non prendere parola in merito a determinate questioni (come appunto la revisione del 41-bis) poiché “non ha un ruolo politico” e perché il parlamento a larghissima maggioranza (quasi il 90 per cento secondo D’Elia) farebbe gli interessi dei magistrati.
Affermazioni dalle quali il consigliere togato Ardita si è opposto dicendo di essere convinto che “in una democrazia in cui c’è in ballo la libertà e la sicurezza dei cittadini e la loro conoscenza dei fenomeni e di quello che accade, stare zitti non sia la soluzione migliore. E non sono assolutamente d’accordo sul fatto che all’interno del parlamento ci sia il novanta percento dei parlamentari che sono disposti a portare avanti gli interessi dei magistrati, non sono gli interessi dei magistrati se mai sarebbero gli interessi per una giustizia che funziona”.
Il magistrato ha poi ricordato come la politica non ascolti la magistratura prendendo come esempio il caso del decreto Cura Italia. Già Ardita e il collega togato al Csm Nino Di Matteo erano intervenuti definendolo un “indulto mascherato“, un “pericoloso segnale di distensione”, poiché era accaduto, infatti, che anche i detenuti per mafia in attesa di giudizio definitivo, abbiano ottenuto la concessione dei domiciliari. Il caso più eclatante è stato quello di Rocco Santo Filippone imputato nel processo ‘Ndrangheta stragista dove, assieme al capomafia palermitano Giuseppe Graviano, è accusato di essere il mandante degli attentati contro i carabinieri (in cui morirono anche i brigadieri Fava e Garofalo), avvenuti tra il 1993 ed il 1994.
E in quel caso noi magistrati, pochi – ha detto Ardita – abbiamo spiegato quale fosse il problema e certamente la politica non è stata ad ascoltare perché c’era un’emotività di fondo, c’era un emozione sull’onda della quale come sempre in Italia si fanno determinate scelte. Quindi non è affatto vero che le leggi che vengono proposte nascono dall’ascolto, non dico degli interessi, ma da una prospettazione che viene fatta da tecnici che lavorano su questo tipo di scelte”.

Il 41-bis, Ardita: “I boss che escono tornano a fare i capi”
Uno dei cavalli di battaglia di ‘Nessuno tocchi Caino’ è sempre stato l’abolizione del 41 – bis. Di questo infatti si è trattato nell’ultima parte del dibattito.  In conclusione Ardita ha detto che “io credo che l’emergenza del 41 – bis non è stata ancora superata”. Infatti il magistrato ha ricordato che Salvatore Riinadiceva al suo compagno di cella ‘dobbiamo ammazzare a Di Matteo, facciamo subito, ammazziamolo come un tonno e dobbiamo farlo subito’”. “Io temo che questa battaglia (a favore dell’abolizione dell’ergastolo ostativo e per la dissociazione dei boss ndr) possa andare a vantaggio dei capi delle organizzazioni mafiose. Sono questi che si fanno portavoce di questo tipo di riforme. E’ Graviano che dice che vuole uscire senza collaborare con la giustizia. I capi di Cosa Nostra che hanno avuto riconosciuta l’aggravante di essere promotori e capi se beneficiano di questo tipo di opportunità torneranno a fare i capi” ha concluso Ardita.

fonte: .antimafiaduemila.com