Presentato il libro di Nino Di Matteo e Saverio Lodato. Con la partecipazione di Scarpinato, Ardita e Petrozzi

Presentato il libro di Nino Di Matteo e Saverio Lodato. Con la partecipazione di Scarpinato, Ardita e Petrozzi

Al cinema Rouge et Noir di Palermo una sala gremita ha accolto ieri sera la prima presentazione del libro “I Nemici della Giustizia” (ed. Rizzoli). Un libro audace in cui il magistrato, oggi consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo, al giornalista e scrittore Saverio Lodato racconta e illustra in maniera cartesiana la sua visione di magistratura costituzionale, delineando poi le fattezze di quelli che definisce come nemici della giustizia. L’ultimo lavoro di Di Matteo e Lodato, che giunge dopo gli scandali che hanno colpito il Csm, poi raccontati nel libro (sempre editato da Rizzoli) di Luca Palamara, protagonista di quei misfatti, dovrebbe essere il manuale dal quale tratteggiare le nuove linee guida per la rinascita del sistema di autogoverno della magistratura e in generale del mondo giudiziario italiano. Con gli interventi di relatori illustri come il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita e il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, i due autori hanno spiegato al pubblico le ragioni che li hanno portati a scrivere questo libro, nonché la loro idea sul sistema giustizia e le falle che negli anni ne hanno condizionato il respiro democratico. Insieme a loro hanno aperto e moderato l’appuntamento Giorgio Bongiovanni, direttore di ANTIMAFIADuemila, e Anna Petrozzi (già caporedattrice di ANTIMAFIADuemila). Una serata all’insegna della Costituzione che si spera possa essere una nuova semina di legalità e senso di Stato per una cittadinanza attiva e sensibile.


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Di Matteo: “Ci si approfitta della crisi della magistratura per fare un gigantesco colpo di spugna della memoria”
Prendendo parola dopo una serie di ringraziamenti ai colleghi, ai giornalisti e al pubblico (presente in sala anche il presidente del Tribunale di Palermo Antonio Balsamo), Nino Di Matteo, ha spiegato quali sono stati i motivi che lo hanno spinto a scrivere questo libro. “Questo libro viene dopo gli scandali degli ultimi anni e viene dopo la rappresentazione che di quegli scandali in maniera efficace è stata fatta da uno dei protagonisti, il dottor Palamara, anche in un libro denuncia. Quegli scandali non sono altro che l’epilogo inevitabile di un lungo periodo di deterioramento del sistema magistratura. Noi magistrati non dobbiamo fingere di stupirci ma indignarci e mantenere alta l’indignazione. In troppi, anche all’interno della magistratura, vogliono minimizzare quasi a far finta che, una volta sanzionato Palamara e pochi altri magistrati coinvolti nella vicenda all’hotel Champagne, il problema sia risolto”, ha detto Di Matteo. “Questo è uno dei motivi, non lo ritengo per niente risolto, per i quali ho accettato la proposta di scrivere un libro e rispondere alle domande di Lodato. Non possiamo continuare a far finta di nulla e ritenere che quanto emerso sia il frutto della condotta isolata delle poche mele marce. Ma è l’epilogo di un deterioramento che si è alimentato in magistratura attraverso la degenerazione del sistema correntizio, attraverso il carrierismo, la corsa sfrenata ad incarichi direttivi e semi-direttivi, attraverso una forma di collateralismo con la politica che troppo spesso ha privilegiato scelte di opportunità rispetto a scelte di doverosità giuridica, e il frutto della burocratizzazione del ruolo e della gerarchizzazione degli uffici, specie di quelli di procura”.


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Ma c’è un altro motivo, importante quanto il primo, per cui il magistrato palermitano ha ritenuto di far sentire la propria voce. “In troppi, fuori dalla magistratura, vogliono approfittare del grave momento di crisi di credibilità dell’ordinamento giudiziario per regolare i conti per un motivo di vendetta nei confronti della magistratura che ha saputo guardare anche ai crimini del potere, e per un motivo di prevenzione per evitare che questi fenomeni possano ripetersi in futuro. E c’è un’operazione che deve passare nella mente di tanti e che è mediaticamente sostenuta in forma molto ben organizzata, che a mio avviso passa dalla prospettazione di un teorema infondato”. Sostanzialmente, ha spiegato il consigliere togato del Csm, “poiché nella magistratura e nella sua forma di autogoverno sono ormai dimostrati certi vizi, si deve far credere che questi vizi si sono sempre sostanziati nei vizi di tutti i processi che hanno riguardato la criminalità del potere. Oggi il sottile, ma a mio avviso riconoscibile gioco, è quello di dire ‘la magistratura è pervasa da queste metastasi all’interno del suo corpo, quindi tutto quello che la magistratura ha fatto nel tempo’”. Questo, a detta di Di Matteo, si palesa “soprattutto nei processi che hanno riguardato il potere da Tangentopoli, ad Andreotti, al processo Dell’Utri, alla Trattativa, è falso, è viziato, è malato. Io vi dico che a mio avviso non è così, anzi molti di quei processi istruiti e celebrati dalle parti più libere e coraggiose della magistratura, sono stati e sono tuttora ostacolati dal sistema malato del quale fanno parte anche quote della magistratura e del suo autogoverno”.


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La verità, secondo l’autore del libro, “è che sono in molti che vogliono approfittare di questo momento per realizzare un gigantesco colpo di spugna che cancelli dalla memoria, dalla coscienza degli italiani quanto invece era stato acquisito anche grazie a quelle inchieste e a quei processi in termini di conoscenza e consapevolezza della criminalità del potere e della criminalità di quote consistenti di classi dirigenti di questo Paese”. Sempre riguardo lo status della magistratura Di Matteo ha affermato di avere “in certi momenti la sensazione che questa, in questo momento, sia come un pugile alle corde che tenta semplicemente di parare i colpi più violenti che vengono sferrati, ma senza cercare la reazione”. “Non è il momento del silenzio, questo è quello che penso, e bisogna reagire denunciando certamente i nostri mali. Non fingendo di nascondere il sole con la rete. Ma denunciando anche i pericoli che alcune riforme, anche attraverso l’istituto del referendum, trasformino definitivamente l’ordine giudiziario in un potere collaterale rispetto al potere politico”, ha concluso sul punto il magistrato.

Di Matteo: politica e lotta antimafia, tra offensive alla magistratura e assenza di responsabilità politica
Nel suo intervento Nino Di Matteo ha messo il focus sulla politica e come questa nel tempo abbia attuato campagne offensive ai danni delle toghe audaci e come ha dimostrato di non godere di quella responsabilità politica che un tempo era incarnata, per esempio, da politici come Pio La Torre (celebre la sua celebre relazione di minoranza del 1976 che Di Matteo ha ricordato ed elogiato ai presenti in sala).


i nemici giustizia libro


Sentiamo parlare sempre di guerra tra magistratura e politica“, ha esordito sul tema Di Matteo. “Ma non c’è stata una guerra. Anzi, c’è stata un’offensiva molto ben organizzata e sostenuta, anche mediaticamente, di una parte trasversale della politica nei confronti di quei magistrati che pretendevano di esercitare il controllo di legalità anche sulle modalità di gestione del potere”. “Come ho scritto nel libro, la delusione maggiore che ho provato è quella di constatare come questa offensiva è stata sostenuta anche da un’altra parte della magistratura. Non c’è una guerra tra politica e magistratura, ma un’offensiva unilaterale di certa parte della politica e certa parte della magistratura contro i magistrati che con il loro lavoro vogliono incarnare lo spirito costituzionale della legge uguale per tutti”. “In altre parti della lunga intervista ci siamo soffermati su quella che abbiamo definito una delle tragedie italiane: l’assoluta e strumentale sovrapposizione di ogni forma di responsabilità etica, deontologica e politica con la responsabilità penale. Come se un comportamento accertato, una condotta accertata, rilevasse in questo paese soltanto se quella condotta viene accertata anche come condotta di reato. Come se l’unica responsabilità che questo Paese sente ogni tanto di dover far valere, sia la responsabilità penale. Quando alziamo il tiro con le nostre inchieste nei confronti del potere, molta parte della politica ci attacca”. “Ma io penso – ha affermato il magistrato – che in fondo, noi e i processi, costituiscono un alibi per non far valere la responsabilità politica di certi comportamenti accertati. Perché si dice sempre ‘aspettiamo le sentenze definitive della magistratura’, ma le sentenze definitive della magistratura penale riguardano un aspetto, che è quello della sussistenza e della dimostrabilità di un reato che è diverso da quello che dovrebbe far scattare comunque e in ogni caso la responsabilità politica. Nel nostro paese, negli ultimi decenni, la classe politica ha fatto molti passi indietro. Ha preferito che soltanto sulle spalle della magistratura si concentrasse l’obbligo e il potere di controllo della legalità e dell’esercizio del potere. E la stessa cosa hanno fatto per la lotta alla mafia. Oggi, nessuno dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, al di là delle parole, alcuni non hanno detto nemmeno quelle, ha messo effettivamente ai primi posti della propria agenda di governo la lotta alla criminalità organizzata”.


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Il magistrato palermitano ha quindi parlato della tanto discussa riforma della giustizia firmata dalla ministra Marta Cartabia. “Si è parlato e noi ne parliamo a lungo, di questa riforma spacciata come epocale della giustizia: la riforma Cartabia. Che a mio avviso, e non solo a mio avviso, presenta aspetti di inquietante preoccupazione. Si è parlato poco, per esempio, del fatto che per la prima volta viene introdotto un principio per cui il parlamento, quindi le maggioranze politiche di quel momento, debbano dettare i criteri di priorità dell’esercizio dell’azione penale alle procure della Repubblica. A me questo sembra un principio che contrasta rispetto alle regole fondamentali della separazione dei poteri e contrasta con il principio sancito dalla nostra costituzione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ma si è parlato anche dei processi che vanno in fumo in appello e Cassazione, col meccanismo dell’improcedibilità, estraneo alla nostra cultura giuridica di ogni tempo, una sorta di prescrizione processuale, se un processo non termina entro determinato periodo di tempo”. Tornando al problema dell’approccio alla lotta alla mafia Di Matteo ha ricordato che “nella prima stesura della riforma Cartabia, che non penso sia soltanto il frutto della mente della ministra Cartabia, non era prevista alcuna eccezione per i processi di mafia. Quindi soprattutto i processi di mafia che per la loro complessità durano di più in appello, sarebbero andati in fumo con buona pace delle persone offese, con buona pace di coloro i quali si erano esposti denunciando di avere subito un reato, un’estorsione, una forma di violenza o minaccia e con buona pace dei parenti delle vittime di mafia. C’è stato bisogno che alcuni magistrati antimafia intervenissero con dichiarazioni pubbliche per dire quali sarebbero state le conseguenze nefaste in tema di lotta alla mafia. Allora si è fatto un parziale dietrofront. Ma un governo della Repubblica, un ministro della Giustizia, ha ogni volta bisogno (è accaduto con altri governi) che si espongano due, tre, quattro magistrati antimafia per capire che la lotta alla mafia è una cosa serie e non ammette distrazioni di questo tipo, ammesso che siano distrazioni?”, si è chiesto l’autore del libro.


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Di Matteo: “È ora che in tema normative antimafia l’Europa dica: ‘Ce lo chiede l’Italia’”
Un ultimo aspetto, toccato da Di Matteo, è la variante europea. “Tante volte ci sentiamo dire, per giustificare il ricorso a certi strumenti e riforme: ‘Ce lo chiede l’Europa’”, ha affermato il magistrato. “Sappiamo che in tema di ergastolo ostativo, una pronuncia della Corte Europea ha sostanzialmente tracciato la strada, poi percorsa anche dalla Corte Costituzionale, dell’abolizione dell’ergastolo ostativo, e quindi ha aperto le porte alla possibilità molto concreta e molto imminente che anche chi ha fatto le stragi per ottenere l’abolizione dell’ergastolo e che è stato condannato all’ergastolo possa tra poco tempo accedere alla liberazione condizionale. Al di là di quella che è la conseguenza, io ho sottolineato nel libro due aspetti: il primo è l’Europa ci chiede sempre di fare riforme e cambiare la nostra giurisprudenza ma ogni tanto quanto sarebbe bello che in tema di lotta alla mafia l’Europa adottasse delle regole dicendo ai cittadini degli altri Stati: ‘Ce lo ha chiesto l’Italia?’. Siamo in presenza di una legislazione europea che ancora non prevede, negli altri Stati, un reato quantomeno simile a quello previsto dall’art. 416bis del cod. pen.”.
Siamo in presenza di una situazione – ha spiegato – in cui, l’espansione delle mafie anche negli altri paesi europei è anche il frutto delle manchevolezze degli altri stati, innanzitutto a livello di visione legislativa, nel contrasto alle mafie. Del fatto che comunque non si adeguano, nonostante la mafia ormai sia un problema anche loro, a quelle che sono state le punte più avanzate, anche a livello politico e legislativo, del nostro sistema italiano”.

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Di Matteo: “Tutto cambierà quando i giovani acquisiranno consapevolezza di poter costituire motore del cambiamento”
Il magistrato, su sollecitazione del direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni che gli ha chiesto se ha speranza nei giovani magistrati, ha chiuso il suo intervento a fine serata “con una sottolineatura di speranza ma non incondizionata” e un messaggio alle giovani generazioni. “Io spero che la magistratura sappia reagire”, ha detto. “Conto soprattutto sulla voglia dei giovani magistrati di uscire da certe logiche e conto anche sulla memoria di magistrati non più giovani che si sono formati qui in Sicilia sull’onda di attività del primo Pool Antimafia, che sono e siamo entrati in magistratura quando ci sono state le stragi. Speranza c’è, ma la speranza sono soprattutto i giovani che oggi vedo in questa sala e che evidentemente vivono una situazione in cui, questa è la mia paura, molti vi vogliono rassegnati e assuefatti, che tanto nulla potrà cambiare. Ma tutto potrà cambiare soltanto se voi acquisirete la forza, la speranza e la consapevolezza di poter costituire il motore del cambiamento. La presenza di giovani che io avverto anche in altri momenti, come nelle scuole e università, è forse l’unica speranza alla quale possiamo ancora appigliarci”. “Non credo – ha concluso – che il sistema di potere attualmente in auge, all’interno e all’esterno della magistratura, abbia la capacità e la reale volontà di riformarsi da solo”.


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Lodato: “Sulla giustizia c’è una narrazione falsata. In Italia rapporto mafia-potere da sempre presente”
L’immagine di un’Italia che è un Paese diverso dagli altri rispetto all’Europa. L’evoluzione del fenomeno mafioso ed il rapporto con il potere che ha caratterizzato le mafie sin dagli albori della storia. Il fastidio che il potere ha quando si sente scoperto nella sua essenza criminale. Sono questi alcuni dei temi affrontati dal giornalista Saverio Lodato, autore assieme a Nino Di Matteo del libro “I Nemici della Giustizia” (ed. Rizzoli) nel suo intervento. “L’Italia – ha affermato – rispetto a tanti stati dell’Unione Europa ha un triste primato: il fatto di aver avuto, e nel libro il dottore Di Matteo ha scelto in una risposta di elencarli per nome e cognome, esattamente 28 magistrati assassinati, dalla liberazione ad oggi, dalla mafia, dalla ‘Ndrangheta e dai terrorismi di varia tipo. Nessun Paese in Europa ha una simile mattanza”.
Nel suo intervento il giornalista ha quindi ricordato Pierre Michel, amico di Giovanni Falcone che da Marsiglia lavorava alle indagini sulla raffinazione dell’eroina, dell’oppio che proveniva dal triangolo d’oro (Birmania, Laos e Thailandia), nel momento in cui venivano smantellate le raffinerie dalla costa francese e portate in Sicilia, a Palermo.
Altro punto chiave da evidenziare è che “l’Italia è l’unico Paese in Europa che può vantare la presenza di almeno tre mafie (Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra) che ormai hanno occupato l’intero territorio nazionale. Oggi non c’è regione italiana dove non si celebrino processi alla mafia, dove non venga denunciata, con i tanti blitz, la presenza di organizzazioni mafiose. Un esempio è quel paradiso terrestre dell’Emilia-Romagna, occupata militarmente da una ‘Ndrangheta feroce che ha fatto affari e commesso delitti”.


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Terzo aspetto è che “la classe politica italiana, tra tutte le classi politiche europee, è quella che esprime il maggior tasso di illegalità ed in alcuni casi di criminalità”.
Parlando della contrapposizione tra politica e magistratura Lodato ha evidenziato un aspetto: “Chiediamoci il perché la magistratura da quarant’anni sia così odiata in Italia. Perché accade? Perché quando si colpivano mafiosi militari, già allora il potere aveva capito che la magistratura stava uscendo dal suo binario. Perché si andava a colpire il crimine del potere. E per questo si va contro il pool. Contro i giudici antimafia o contro i collaboratori di giustizia, nel timore che avessero iniziato a parlare delle complicità”.
Lodato ha quindi spiegato i motivi che lo hanno spinto, assieme a Di Matteo, a scrivere un libro occupandosi della giustizia. “Noi abbiamo capito che la lotta alla mafia era un pretesto, raccontata con toni favolistici alla popolazione. Oggi si è capito che dopo aver tentato di regolare definitivamente i conti con l’antimafia, pensiamo alle polemiche sull’ergastolo o quello che viene detto in favore dei condannati di mafia e per mafia e mai in favore delle vittime che hanno pagato i delitti di mafia, ora è il momento di alzare il tiro e mettere in discussione il principio della cultura della legalità. Un principio che mette il terrore a lorsignori. E poco importa se dentro il Parlamento ci siano tantissime persone perbene che non hanno mai commesso reati”.


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Altro punto nodale la presenza di tanti avvocati come parlamentari. Numeri che devono far riflettere. “A fronte di una polemica sterminata sui magistrati che fanno politica poi si contano i magistrati in parlamento e scopriamo che sono tre – ha detto il giornalista -. Nessuno ci dice che ci sono 137 avvocati. E che questi 137 avvocati esprimono al 71% la composizione della Commissione giustizia al Senato e al 50% la composizione della Commissione giustizia alla Camera. In altre parole, si aggiustano i reati in funzione, molto spesso, dei clienti che assistono la mattina, visto e considerato che unico Paese, in Italia ed in Europa, non esiste alcuna forma di incompatibilità tra il lavoro di parlamentare ed avvocato. Ai magistrati invece si chiede di dismettere la toga. Lo dicono tanti tromboni, gli stessi che attaccavano Falcone e Borsellino. E nessuno si pone il problema di spiegare alla ministra Cartabia che ci sono troppi avvocati nel Parlamento italiano e che se si vuole combattere la mafia si devono mettere attorno ad un tavolo Scarpinato, Caselli, Piero Grasso, Di Matteo, Ardita, Giuseppe Lombardo. Devi scegliere il fior fiore che esprime questo Paese in cui abbiamo una magistratura d’eccellenza e abbiamo anche delle organizzazioni criminali di eccellenza. E invece la ministra Cartabia, con aria saccente e saputa, ha ritenuto di non avere bisogno di un contributo. E quindi i processi sono visti come corse di cavalli in cui si deve passare dalla clessidra di una volta, in cui il tempo era troppo lungo, al tempo del cronometro in cui cadono i processi indipendentemente dai reati contestati. Ed infine ha concluso: “In questo libro Di Matteo ha cercato di mettere insieme il come venga rappresentata una narrazione falsata del vero problema della giustizia in Italia. Diversamente non avremmo avuto decine e decine di tentativi di riforma affrontati da ogni Governo. E badate. Non c’è mai stato un governo che abbia digerito fino in fondo non la lotta ai colletti bianchi, ma la lotta agli stessi mafiosi. Quelli che sparavano”.


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Scarpinato: “In Italia contrasto tra criminalità della classe dirigente e la Costituzione”
All’interno del libro gli autori si pongono una domanda retorica: ‘Esiste in Europa (e nel mondo aggiungo io) un Paese come l’Italia nel quale da decenni la questione della giustizia è al centro di un conflitto politico accesissimo?’. La risposta è no”. Ha aperto così il suo intervento Roberto Scarpinato, già procuratore generale di Palermo, durante la presentazione del libro. “In Italia – ha spiegato – per un tema tecnico come la riforma della prescrizione si rischiano crisi di governo perché qui è in gioco l’impunità di settore della classe dirigente”. Un fenomeno possibile in quanto “in Italia, a differenza di altri Paesi, ci sono due fattori particolari. Il primo è la presenza di una criminalità di settori rilevanti della classe dirigente storicamente radicata la quale si è declinata sostanzialmente su tre versanti dall’unità d’Italia ad oggi: la corruzione sistemica, la collusione sistemica con la mafia e l’utilizzo della violenza – compresi gli omicidi eccellenti e le stragi – come strumento improprio per falsare la lotta politica”. Il secondo fattore è la nostra Costituzione la quale “nel 1948 e dopo la caduta del fascismo, per evitare che si ripetesse quello che era accaduto fino allora, sancisce: l’indipendenza e l’autonomia dei giudici e del pubblico ministero dal potere esecutivo; stabilisce che i magistrati si distinguono solo per funzioni e quindi non c’è gerarchia; e stabilisce, inoltre, l’obbligatorietà penale, ovvero non c’è discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale”.


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Dal 1860 fino all’inizio degli anni ’70, tra la classe politica e la magistratura regnava l’assoluta pace e armonia poiché in uno Stato monarchico e in uno Stato fascista l’ordinamento prevedeva che il pubblico ministero era subordinato gerarchicamente al Ministro della Giustizia. Ed esisteva una struttura fortemente gerarchica della magistratura requirente al cui vertice vi erano i procuratori generali, che davano ordini ai procuratori della repubblica, che davano ordini ai sostituti procuratori.
Ma la combinazione tra la criminalità di settori rilevanti della classe dirigente e la Costituzione a partire dagli anni ’70 “diventa una miscela esplosiva”. “Tutta la storia dell’Italia liberale è un susseguirsi di scandali e di Tangentopoli: lo scandalo della banca romana, quello della banca Napoli, le truffe delle forniture militari, omicidi eccellenti come quello Notarbartolo. Tutti processi che si concludono con l’assoluzione di tutti gli imputati. Ma leggendo gli atti ci si accorge che ciò che accadeva è che il Ministro della Giustizia si chiamava al ministero i procuratori generali, e a volte i giudici istruttori, e dava istruzioni. È chiaro che c’è la pace e l’armonia – ha sottolineato Scarpinato –. Pace ed armonia che dura per tutti gli anni ’50 e ’60 in quanto la nostra era ancora una ‘Costituzione di carta’ che non si traduceva nella realtà, innanzitutto perché viene mantenuta in vita la vecchia norma sulla struttura gerarchica della prima repubblica; e poi perché al vertice delle procure c’erano magistrati che si sono formati durante il periodo liberale fascista e che, a causa di una mentalità gerarchica, non avevano assolutamente interiorizzato i valori della Costituzione”.


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Due magistrature dopo la Costituzione
Al pari passo della promulgazione della Costituzione, entra in magistratura una nuova generazione che si forma ai valori della stessa, “diciamo che è l’atto di nascita della magistratura costituzionale – quella che prende sul serio i valori della Costituzione – e si rompe per la prima volta l’unità della corporazione della magistratura”, ha detto il già procuratore generale di Palermo. “A quel punto ci sono due magistrature: una omologata al sistema – come scrive Di Matteo nel suo libro – ovvero sensibile ai desiderata che vengono dai vertici della piramide sociale e che quindi piega la vela dove tira il vento; e una costituzionale che rappresenta una variabile indipendente, come dev’essere la magistratura, che non è sensibile alla cosiddetta ‘legalità sostenibile’, non è legata alla compatibilità di sistema e per questo motivo viene considerata eversiva”. L’utilizzo di quell’aggettivo da parte del procuratore Scarpinato non è casuale perché “è questo l’aggettivo usato dalla P2 nel definire questa magistratura e contro la quale entreranno in azione per neutralizzarla, i vertici del potere del tempo e una parte di magistratura omologata: magistratura eversiva”.


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L’aria dunque è cambiata, si rompe la pace sociale e iniziano a prendere piede “una serie di iniziative giudiziarie che fanno scandalo, perché per la prima volta vengono citati in giudizio, vengono indagati gli intoccabili”. “Nel 1974 – ha sottolineato Scarpinato – i pretori scoprono lo scandalo delle tangenti; scoppia lo scandalo di ‘Italgas’; la magistratura di Padova e di Venezia iniziano ad indagare sul golpe borghese e sulle trame eversive della destra, sui responsabili delle stragi di Peteano, di Brescia, di Bologna; c’è un’indagine sulla P2 e sul Banco Ambrosiano che viene utilizzato come canale di riciclaggio sia dalle tangenti ai politici sia dei capitali di mafia. In Sicilia iniziano le indagini con Chinnici sui ‘Cavalieri del lavoro’, Falcone arresta gli intoccabili – i cugini Salvo nel 1984 – e annuncia che farà uso del concorso esterno, che da quel momento diventa la bestia nera della classe dirigente del tempo”. Quella classe dirigente, che sino allora aveva dormito sonni tranquilli, si rende conto che “ha perduto e sta perdendo il controllo su una parte significativa della magistratura”. Da questo assunto introduce una complessa controffensiva che si articola su vari piani.


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Un primo piano è la costruzione di una narrazione di palazzo (cioè veicolata dai media controllati dai gruppi di potere dei partiti e da intellettuali organici al potere) che mira a delegittimare quei magistrati che non sono omologati anche con una terminologia che sembra innocua – ha detto il procuratore –. I pretori che fanno le indagini sullo scandalo del petrolio vengono definiti ‘pretori d’assalto’, come se avessero rotto la neutralità del ruolo e fossero andati oltre. Falcone viene chiamato ‘giudice sceriffo’, accusato di protagonismo e di strumentalizzazione politica. Ingredienti con cui è stata costruita una ossessiva narrazione di palazzo della guerra tra politica e magistratura”.

Poi c’è il secondo livello della controffensiva, questa volta sul piano legislativo. “Dopo lo scandalo del petrolio viene approvata una legge che vieta l’uso delle intercettazioni ai pretori – ha ricordato Scarpinato –. Le intercettazioni diventano così la bestia nera della classe dirigente. Vengono approvate leggi amnistie e indulti che salvano i pochi politici che cadono, che rischiano di essere condannati e processati. Per esempio, leggi, di amnistia e indulto che salvano Almirante che era stato incriminato per favoreggiamento nei confronti di uno degli autori della strage di Peteano”.
Infine, il terzo livello: “la negazione sistematica dell’autorizzazione a procedere, che determina il ritardo delle indagini su tangentopoli mettendo in salvo tanti politici”.


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Scarpinato: “C’è sinergia tra il potere che non tollera il controllo della magistratura e una parte della stessa”
Ma gli attacchi dall’esterno e gli strumenti messi in campo per neutralizzare questa parte della magistratura, non sarebbero stati sufficienti e non avrebbero raggiunto il risultato se non ci fosse stata la fattiva collaborazione di una parte della stessa magistratura, quella più sensibile appunto ai desiderata dei vertici del sistema di potere, che entra in campo utilizzando vari strumenti per togliere le indagini ai magistrati non allineati” ossia “le avocazioni da parte dei procuratori generali” e “il trasferimento per connessione dalle sedi giudiziarie non allineate”. Il magistrato ha citato diversi casi, tra cui lo scaricamento in passato delle indagini sulla P2, quelle sul golpe borghese e le indagini sulle trame eversive.
La sinergia tra il potere e certe parti della magistratura è stata dimostrata anche quando il Csm nomina Antonino Meli al posto di Giovanni Falcone. “Questo – ha detto Scarpinato – dimostra la sinergia che c’è sempre stata tra il settore del potere che non tollera il controllo della magistratura e parte della magistratura”. Un potere che fin dai tempi della P2 si è dato da fare per “riuscire a neutralizzare i magistrati scomodi utilizzando la stessa magistratura”. Una sorta di “Deep State” dove hanno luogo “centri decisionali al di là dei luoghi istituzionali”.


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Operazione “ritorno al futuro”
Nel 1989 si ha un cambio radicale, non solo in Italia ma anche nel mondo. Crolla il muro di Berlino e, per quanto riguarda la giustizia, entra in vigore nel nostro Paese il nuovo codice di procedura penale che cancella finalmente “la norma che stabiliva la subordinazione gerarchica dei sostituti procuratori e pretori della repubblica. Il Csm fa delle circolari in cui dice che i procuratori capo non sono più sovrani della procura, che non possono revocare i processi come vogliono ma devono motivare la motivazione senza la quale possono ricevere provvedimenti disciplinari, stabiliscono che i programmi organizzativi dei procuratori della Repubblica devono essere sottoposti al vaglio del Csm. Si passa così dalle procure monocratiche alle procure plurali”, ha detto Scarpinato. Da qui erano iniziate le grandi indagini come Tangentopoli e Mafiopoli. “Qual’è la reazione del sistema?”, ha chiesto il magistrato.  “La reazione è che nel 2006 viene approvata la riforma Castelli-Mastella, fatta dal centrodestra, ma mantenuta in vita dal centrosinistra, che riporta indietro l’orologio della storia” cioè “ripristina l’ordinamento fortemente gerarchico delle procure della repubblica. Si stabilisce che il procuratore capo è una sorta di sovrano assoluto e solo lui può esercitare l’azione penale, e si stabilisce che non deve essere sottoposto ad alcun controllo del Csm”.

La ratio di questa manovra è semplice: se non si riescono a controllare 2000 pm, si possono controllare i procuratori della repubblica, che sono molti di meno. Come? “Con il vecchio sistema: pezzi della politica che sottobanco si mettono d’accordo con oligarchi di corrente, nel comune interesse di promuovere le carriere di magistrati che si fanno carico della legalità sostenibile, ed emarginare i ‘cani sciolti’, i magistrati che invece operano come variabili indipendenti”.
Questo è stato il primo colpo, mentre il secondo è stato, ha detto l’ex procuratore generale “la riforma della prescrizione che consente la prescrizione di tutti i reati di colletti bianchi, la depenalizzazione selettiva dei reati dei colletti bianchi che finiscono nel nulla come il falso in bilancio, ecc”. “Si arriva – ha continuato – sino ai nostri giorni dove siamo al regolamento finale dei conti, in quanto c’è un sistema che non può tollerare questa variabile indipendente e che sta cavalcando l’onda dalla delegittimazione della magistratura causata da questa parte della magistratura che è sempre stata la causa della neutralizzazione della magistratura costituzionale”.


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Roberto Scarpinato: “Il sistema giustizia di un paese è lo specchio del sistema Paese”
Il sistema giustizia di un Paese è lo specchio del sistema Paese – ha continuato il magistrato – riflette la realtà dei rapporti di forza che ci sono nel Paese”. Dopo l’approvazione della Costituzione si comincia a delineare una giustizia diversa, “con una magistratura che inevitabilmente rompe la sua unità, in quanto c’era una parte di magistratura infedele alla Costituzione, quindi che non applica una legge uguale per tutti, e una parte di magistratura costituzionale ovvero applica seriamente la Costituzione, la legge è uguale per tutti e non c’è discrezionalità dell’azione penale, non c’è gerarchia tra i magistrati”. Tuttavia, durante la globalizzazione foraggiata dal pensiero neoliberista avviene “un processo di oligarchizzazione del potere, la democrazia viene svuotata, la costituzione viene svuotata, il sintomo più rilevante è la crescita galoppante della diseguaglianza sociale, la normalizzazione della povertà, lo svuotamento dei diritti dei lavoratori. La società – ha continuato Scarpinato – diventa ingiusta perché il potere si concentra nell’oligarchia, che inevitabilmente non può continuare a convivere con un sistema giustizia costituzionale, che è esattamente l’opposto di ciò che vogliono. E stanno cavalcando questo momento con i referendum e con iniziative legislative per raggiungere lo scopo. E questo scopo non possiamo impedire che venga raggiunto soltanto da noi magistrati costituzionali”. “Questo lo dovete impedire voi cittadini. È la battaglia politica finale. Quello che abbiamo – ha concluso il magistrato – non è merito del presente, ma del passato, di coloro che si sono fatti ammazzare per avere questa Costituzione e per mantenerla in vita come Falcone. Non ce l’ha regalato nessuno: o voi difendete questa Costituzione o torneranno a vincere loro”.


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Sebastiano Ardita: “Le correnti sono diventate dei gruppi di potere”
Una idea di giustizia che vibra rispetto al fresco profumo di libertà insieme alla voglia di riscatto e di passione civile che questo libro induce a tutti coloro che lo hanno letto”. È questo quanto ha detto il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita riferendosi a quell’ideale enunciato nel libro “I nemici della giustizia” scritto dal magistrato Nino Di Matteo e dal giornalista Saverio Lodato. Una giustizia che sia in linea con i principi costituzionali e che sia fondamento dell’ordine democratico secondo il quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge.
A danno di questo fondamento, però col tempo, si sono venute a creare due contrapposizioni principali: le logiche di potere e di appartenenza. “La questione viene a porsi in termini molto molto semplici – ha detto il magistrato – cioè nella Costituzione viene pensata una idea di democrazia dove l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati siano uno dei fondamenti di questa democrazia, e lo è in tutte le democrazie. E allora cosa è accaduto? E’ accaduto che nel corso degli anni, in un meccanismo un po’ interno al mondo che comanda e governa la magistratura”, si è formato “un potere interno basato su delle élite, fondato su quelle che un tempo erano delle formazioni con un contenuto ideale. Che erano delle correnti che hanno fatto del bene. Hanno smosso negli anni 70’ per esempio l’atteggiamento burocratico che i giudici avevano rispetto alle questioni di giustizia, che molte volte finivano per diventare dei puntelli del potere”. Tuttavia, se “la legge è uguale per tutti” allora “il giudice deve avere la forza di resistere agli altri poteri” e questo può avvenire solo se il magistrato può svolgere la sua funzione “in maniera completa, senza steccati, senza appartenere a gruppi di potere, senza appartenenze a correnti”.


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Ma se invece “c’è qualcosa di diverso che si interpone, questa forza finisce per essere sottratta ai magistrati in prima linea e viene annessa a questa élite, che in un sistema come quello Italiano”, diviene “anch’esso una espressione di potere. Quindi anziché essere difensori e controllori della legalità si diventa in fin dei conti un potere fra i poteri”.
E poi ancora: “Oggi queste correnti sono diventate da molto tempo delle strutture di potere, che hanno assunto un potere proprio e che in nome dell’indipendenza e dell’autonomia, che dovrebbero gestire e che dovrebbero garantire i singoli magistrati si sono, diciamo, interposti tra i magistrati che operano sul territorio e appunto la dimensione di potere che essi hanno realizzato e in qualche modo condizionandone l’azione”.
Riferendosi al libro “I Nemici della Giustizia” Sebastiano Ardita ha detto che il testo “ha una sua filosofia di fondo ed è questa: una sorta di testimone che viene passato ai più giovani, che si occupano di giustizia nella duplice veste di magistrati, ma anche di giornalisti e di cronisti di vita giudiziaria. Perché la storia è unica e la narrazione è unica e molte volte viene veicolata anche attraverso strumenti diversi ma la verità e i fatti quelli sono. Esiste in effetti una proiezione importante che riguarda le generazioni future. La critica – ha aggiunto – al sistema delle correnti è una critica che riguarda le élite e il governo della magistratura ma non è mai una critica rispetto a coloro i quali operano con sacrificio e che si assumono le responsabilità in prima linea”.


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Il consigliere togato ha parlato anche nello specifico degli autori del libro dicendo che “Di Matteo e Saverio Lodato sono due figure uniche e che quando scrivono qualcosa sulla giustizia e sul mondo attorno il quale la giustizia si muove vanno ascoltati. Non sono gli scritti di uomini qualunque” ma “due personaggi che hanno una caratura e una storia particolare”. “Saverio Lodato è un giornalista su cui scritti si sono formati non solo altri giornalisti ma addirittura anche magistrati che hanno espresso curiosità verso il mondo di Cosa Nostra”. “Gli storici e gli autori di mafia sono rimasti pochissimi e non ce ne sono altri perché Saverio Lodato era una delle persone più vicina a Giovanni Falcone, facendo questo mestiere. Tutti lo ricordiamo accanto a Paolo Borsellino a Casa Professa quando ci fu quel famoso e drammatico convegno. E non sono immagini casuali perché in una vita passando a scrivere i libri più importanti porta dietro con sé un testimone importante di memoria, competenza e conoscenza. E non a caso oggi lo lega una splendida amicizia a Nino Di Matteo, un personaggio unico all’interno della magistratura. Basta ricordare quello che ha trascorso e quello che è accaduto. Il suo ruolo e la sua azione penetrante lo ha visto considerato dallo storico capo stragista di Cosa Nostra alla stregua di coloro i quali sono stati oggetto, purtroppo, dei terribili attentati che tutti noi conosciamo. Il ruolo di Nino Di Matteo all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura. Questo organo che troppe volte è stato oggetto di critiche e valutazioni di cui non si è compreso forse fino in fondo per il suo tecnicismo e per la sua vita, forse un po’ avulsa dalla società e del mondo che ne dibatte. Non se ne è compreso completamente il ruolo ahimè negativo nel corso degli anni o e anche nell’attualità. E dunque comprendere che una parte dei mali della giustizia e una componente dei nemici della giustizia passa anche dal Csm è un’operazione forte per chi sta al suo interno ma un’operazione inevitabile”.


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Infatti nel libro Nino Di Matteo ha spiegato che ci sono dei mali interni come “una tendenza alla burocratizzazione, al quieto vivere che fa vedere in queste correnti strutture che assicurano un po’ la sicurezza e che danno certezza e che secondo la logica del gruppo finiscono per proteggere chi vi aderisce” ha detto Ardita aggiungendo che esiste anche una logica di “carrierismo, di voler arrivare. Anche questa è stimolata da, chi nella logica dei gruppi, finisce per sovrapporsi a tutto e che toglie spazio al vero obbiettivo: garantire l’indipendenza e l’autonomia dei giudici. Che cosa vuol dire? Che in una democrazia bisogna garantire che tutti devono essere trattati allo stesso modo, sia i disgraziati, sia le persone potenti, secondo quello che è il parametro della legge. Ma siccome chi è potente sa difendersi da sé alla fine la giustizia serve a chi è più debole. Questo è il concetto finale no?”. Il consigliere togato ha messo l’accento sul fatto che Di Matteo e Lodato, nella loro analisi, hanno fatto emergere “il pericolo che questo stato di crisi della giustizia possa esser utilizzato per regolare i conti con la giustizia, cioè dei magistrati coraggiosi che hanno svolto il loro ruolo fino in fondo e che hanno applicato la legalità, le norme e il rispetto delle regole anche di fronte a imputati eccellenti, che contano gente del potere economico, finanziario e politico”.


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Infine, Ardita ha parlato delle riforme che vengono prese in esame nel libro: “le modifiche strutturali del processo” e “i referendum che sono stati proposti. Perché diciamo sono due settori di impatto politico sulla giustizia”. Il referendum “che ipotizza la responsabilità diretta dei magistrati a che scopo viene proposto? Per rendere più difficile l’attività di coloro i quali svolgono questa funzione in prima linea. E poi c’è la questione che riguarda le riforme del processo” contenute nella riforma Cartabia, la quale introduce “la famosa decadenza in appello”, definita dallo stesso Ardita “una norma irrazionale che sembra messa lì diciamo senza una ragione specifica ma con una unica conseguenza: l’effetto finale di rendere il sistema zoppo, incapace di condurre ad un risultato finale che sia un risultato di giustizia”. “E allora il punto qual è? – ha detto – Il punto è che nelle riforme che vengono esaminate nel libro qui ci accorgiamo che manca qualcosa. Non c’è la volontà di intervenire in maniera diretta sul potere delle correnti” poiché “si ritiene che non sia un argomento culturalmente adeguato”. Tuttavia – ha concluso il magistrato – “non è vero che i magistrati non vogliono che si cambino le cose sotto questo profilo”, infatti in questi giorni “alle elezioni della sezione della giunta regionale della sezione magistrati, il gruppo che propone il sorteggio è stato il gruppo che ha ottenuto la maggioranza relativa” dimostrando che molti giudici dimostrano, da questo lato, notevole sensibilità e voglia di cambiamento.


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Petrozzi: “Magistratura in crisi è campanello d’allarme per tutte le altre parti di Stato”
Tra i vari interventi c’è stato anche quello di Anna Petrozzi, insegnante ed ex capo redattrice di ANTIMAFIADuemila, alla quale è stata affidata l’apertura commentando il libro. “Io penso che se la magistratura è in crisi è un po’ una cartina di tornasole della crisi che attraversa tutta la nostra società. Noi come società dobbiamo renderci conto che se la magistratura è in crisi è un campanello di allarme per tutte le altre parti dello Stato. Io penso che quello che ci deve preoccupare di più è che è in crisi il patto sociale e umano, è in crisi la fiducia nei confronti di tutti gli organismi dello Stato. C’è una mancanza di coscienza, della interconnessione e della interdipendenza che ognuno di noi ha in qualsiasi parte della società lavora, della interdipendenza che abbiamo gli uni nei confronti degli altri”.
Parlando del libro, Petrozzi sostiene che “il grande atto di coraggio che c’è in questo libro è l’operazione di verità, senza sconti, a sé stessi, all’interno della magistratura. Una disamina molto precisa e puntigliosa delle varie responsabilità. È vero che la verità ci rende liberi ma è anche costosa.

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Quindi io penso che bisognerebbe avere il coraggio tutti noi di fare un’autocritica, anche personale, con grande impegno e anche sacrificio. Perché come giustamente scrive Di Matteo nel libro e come ci ha insegnato Giovanni Falcone, è solo rendendoci conto veramente di quello che potremmo fare coscientemente e costantemente ogni giorno ognuno di noi nel proprio posto, che potremo davvero essere liberi”.
Vorrei proprio fare un richiamo a questo: che ognuno di noi possa fare la propria parte. La buona notizia è che non siamo da soli a farlo. Già il dottore Di Matteo e Lodato con questo libro ci danno una bussola, non solo per poter capire cosa sta succedendo oggi in un ganglio vitale del nostro Stato come è la magistratura, ma anche perché ci ricordano che non importa quale sia la tempesta: se ognuno di noi rimane fedele ai suoi principi nonostante tutto quello che succede allora si può sempre andare avanti”, ha concluso.


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Foto © Paolo Bassani

fonte: antimafiaduemila.com