Parla la mafia!

Le dichiarazioni da buon “uomo d’onore”, al Foglio, di Marcello Dell’Utri

Parla Marcello Dell’Utri, pregiudicato e condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa a sette anni. Lo aveva già fatto nei giorni successivi alla sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Palermo nel processo trattativa Stato-mafia, che lo ha assolto per “non aver commesso il fatto”. 

Aspettando di leggere le motivazioni della sentenza, ed il presumibile terzo grado di giudizio in Cassazione, va ricordato anche che in primo grado era stato condannato a 12 anni.

Parla Marcello Dell’Utri e, leggendo tra le righe, è come se parli la mafia nel suo semi monologo, intervallato da domande e considerazioni del giornalista Salvatore Merlo, pubblicato sulle pagine de “Il Foglio” (il giornale dell’amico Berlusconi). 

“I diari di Marcello” il titolo del lungo sproloquio in cui parla della vita vissuta in carcere (guarda caso proprio nei giorni in cui in Commissione giustizia si parla di ergastolo ostativo e presunzione di innocenza); annuncia l’idea di girare un docufilm sulla sua storia con tanto di possibili interviste a Silvio Berlusconi e Gian Carlo Caselli; bacchetta l’editore Umberto Cairo per alcune trasmissioni andate in onda su La7 parlando del solito “accanimento” nei suoi riguardi; racconta alcuni aneddoti e si lascia “sicilianescamente” e “mafiosamente” andare a considerazioni su processi e figure che certe inchieste hanno sempre voluto portare avanti. 

Così il processo trattativa viene definito “una gran minchiata”. Antonio Ingroia viene appellato come un “babbasunazzo” perché avrebbe avuto l’ardire di convocarlo in Procura “dopo aver letto su un giornale che io sapevo dove era finito il fantomatico capitolo mancante del romanzo ‘Petrolio’ di Pasolini”. 

Evidentemente a Marcello Dell’Utri la ricerca della verità non interessa in alcun modo. Almeno se a ricercarla sono i soliti magistrati. 

Tra tante baggianate prendiamo atto che si è lasciato andare anche a qualche “confessione”. Perché per la prima volta Vittorio Mangano non viene descritto come “l’eroe” chiamato ad Arcore per occuparsi dei cavalli (versione sempre ribadita nel corso degli anni), ma come il soggetto scelto per proteggere la famiglia Berlusconi dai sequestri. 

L’ex senatore di fatto conferma gli incontri avuti da Berlusconi con lo stesso Mangano e Tanino Cinà. In passato li aveva descritti, aggiungendo anche la presenza di Stefano Bontade, il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo (oggi deceduto).

Ovviamente, come farebbe un buon “uomo d’onore”, vengono omessi numerosi dettagli, ma alcuni passaggi sono importanti: “Quando Mangano e Tanino Cinà vennero a Milano dalla Sicilia, Berlusconi, dopo averli squadrati, mi fa: Uhm, accidenti che facce'”. “Ma bisogna capire il momento – aggiunge, giustificandosi, Dell’Utri nell’intervista – Eravamo negli anni 70, e la faccia di Mangano poteva tenere lontani i malintenzionati in un periodo violentissimo della storia di questo paese. Una faccia da duro. C’erano i rapimenti allora. Mangano venne a vivere ad Arcore con la moglie, la mamma della moglie e le due figlie. Che giocavano in giardino con i figli di Berlusconi. Non sembrava un mafioso vero, sembrava il personaggio di un film con Alberto Sordi in Sicilia. Uno sul quale si può persino fare dell’ironia”.

“L’assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo”, è scritto nelle motivazioni della sentenza di condanna per concorso esterno che conferma i suoi rapporti con la mafia almeno per 18 anni, dal 1974 al 1992.

E ancora si afferma che l’ex senatore è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra con un ruolo di “rilievo per entrambe le parti: l’associazione mafiosa, che traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”.

Marcello Dell’Utri, pericoloso criminale e uomo di mafia, fondatore assieme a Berlusconi di Forza Italia, tace proprio su quei rapporti avuti con Cosa Nostra. 

Oggi viene nuovamente santificato, ma la verità è che per pulire la sua coscienza dovrebbe collaborare con la giustizia e dire tutto quello che è a sua conoscenza proprio sui rapporti avuti con i mafiosi, o cosa avvenne a Roma, nel 1994, quando nei pressi del Bar Doney, il luogo in cui il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano incontrò il pentito Gaspare Spatuzza, all’hotel Majestic venivano celebrate convention organizzate da Publitalia. E poi ancora collaborare con i magistrati di Firenze che indagano sui mandanti esterni delle stragi e che lo hanno iscritto nel registro degli indagati assieme a Silvio Berlusconi. Quindi riferire ciò che sa sui poteri occulti, le massonerie deviate, i servizi segreti deviati (italiani e stranieri), le organizzazioni criminali che hanno stretto rapporti con alti poteri dello Stato. 

Più passano gli anni, più si può affermare che il nostro non è solo un Paese senza memoria, ma è anche un Paese che, coscientemente, non vuole ricordare i fatti. 

Basti pensare alla vergognosa pagina di auguri pubblicata, seppur a pagamento, sul Corriere della Sera per gli 80 anni di Dell’Utri, nonostante le sentenze definitive che dimostrano come l’ex senatore si fece garante di un patto tra Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane.

Come scrivemmo allora fare finta di nulla su tutto ciò, voltarsi dall’altra parte, è la dimostrazione che ancora oggi vi è una parte di popolo che dopo oltre 150 anni di storia vuole avere rapporti con la mafia.

E’ la metafora che viene raccontata nella celebre scena del film “Centopassi” (dedicato alla storia di Peppino Impastato) in cui viene ricostruito per sommi capi il monologo di Salvo Vitale trasmesso il 9 maggio 1978, poco dopo la morte dell’amico fraterno, a Radio Aut. “Chi se ne fotte di questo Peppino Impastato – recitava in maniera straordinaria l’attore Claudio Gioé Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall’altra parte, tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può cambiare. Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non aveva Peppino. Domani ci saranno i funerali. Voi non andateci, lasciamolo solo. E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Ma no perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace. Noi siamo la mafia”.

Ecco, finché si dà spazio su tv e giornali a losche figure come Marcello Dell’Utri, o pregiudicati che pagavano la mafia e che possono ambire addirittura al Quirinale, questo Paese avrà sempre un fondo di filo-mafiosità. 

Una “cultura mafiosa” che ha lontane radici e che è un aspetto dell’ideologia dominante, quella del potere, che si rende manifesta a tutti i livelli. 

Per fortuna c’è anche un’altra Italia. C’è il vero Stato rappresentato da quei cittadini onesti e da quei magistrati i quali, malgrado siano stati condannati a morte dalla mafia, hanno il coraggio di mettere sotto inchiesta i vertici del Sistema criminale dello Stato-mafia e che non si rassegnano nella ricerca della verità sulle stragi e sui misteri che da sempre attanagliano il nostro Paese. 

Verità e misteri che, contrariamente a ciò che i soliti noti dicono, non sono affatto vecchie storie.

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

fonte: antimafiaduemila.com