Spreco di cibo, gli italiani sono davvero così “virtuosi”?

L’autorevole sondaggio promosso dalla campagna Spreco zero mostra che ogni settimana sprechiamo mezzo chilo di cibo procapite, il dato migliore tra i grandi Paesi analizzati. Ma allargando il quadro d’osservazione la performance italiana peggiora di molto

di
Luca Aterini

La campagna Spreco zero di Last minute market ha presentato oggi i risultati del report Food & waste around the world, che condensa i risultati di un sondaggio su cibo e spreco condotto – insieme a Ipsos e Università di Bologna – in 8 Paesi del mondo: Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Canada, Italia, Russia, Germania e Spagna.

I risultati, divulgati alla vigilia della seconda Giornata internazionale di consapevolezza sulle perdite e gli sprechi alimentari sono il frutto di un’indagine cui hanno preso parte 8mila cittadini di 8 Paesi del mondo, con un campione statistico di 1000 interviste per ciascun Paese.

In questo modo, l’indagine pone l’accento su un particolare segmento nella filiera dello spreco di cibo, quello a noi più vicino perché dipende direttamente dai comportamenti personali.

Come spiegano infatti da Spreco zero, a livello globale, circa il 14% del cibo prodotto viene perso tra il raccolto e la vendita al dettaglio – per perdite economiche pari a circa 400 miliardi di dollari, equivalenti al Pil dell’Austria – mentre si stima che il 17% della produzione alimentare globale totale vada sprecato: l’11% nelle famiglie, il 5% nel servizio di ristorazione e il 2% nella vendita al dettaglio. Anche dal punto di vista ambientale, le perdite e gli sprechi alimentari incidono in modo più che rilevante, dato che si stima siano responsabili dell’8% delle emissioni globali di gas a effetto serra.

« Le perdite alimentari – riassumono da Spreco zero –  si verificano nel tragitto tra il campo e la vendita al dettaglio (esclusa), mentre gli sprechi alimentari si osservano a livello di vendita al dettaglio e di consumo (servizi di ristorazione e nuclei familiari). Fra le cause del fenomeno si annoverano i vizi di manipolazione, l’inadeguatezza delle modalità di trasporto o immagazzinamento, l’assenza di capacità lungo la catena del freddo, condizioni atmosferiche estreme, l’esistenza di norme di qualità sull’aspetto esteriore fino all’assenza di capacità di pianificazione e competenze culinarie tra i consumatori. In sostanza, se si riducessero le perdite o gli sprechi alimentari si potrebbe garantire maggiore disponibilità di cibo per i cittadini del mondo, verrebbero ridotte le emissioni di gas a effetto serra, si allenterebbe la pressione sulle risorse naturali e si potenzierebbero la produttività e la crescita economica».

Ridurre le perdite e gli sprechi alimentari è essenziale in un mondo in cui il numero di persone colpite dalla fame è in lento aumento dal 2014 e ogni giorno tonnellate e tonnellate di cibo commestibile vengono perse e/o sprecate.

Eppure resta ancora molta strada da fare, come mostrano i dati raccolti dal sondaggio. Tra gli 8 Paesi indagati, gli italiani si auto dichiarano i più “virtuosi” in fatto di spreco di cibo con poco più di mezzo chilo (529 gr) sprecati a testa nell’arco di una settimana; i russi arrivano a 672 gr, gli spagnoli a 836 gr, gli inglesi a 949 gr. Negli altri Paesi si sfonda invece il muro del kg: in Germania 1081 gr, in Canada 1144 gr, in Cina 1153 gr, mentre in Usa si arriva 1453 gr, quasi il triplo di quanto dichiarato in Italia.

«Il rapporto conferma il forte collegamento fra abitudini di consumo, spreco alimentare e diete sane, sostenibili e tradizionali come la dieta mediterranea – dichiara il fondatore della campagna Spreco zero e ordinario di Politica agraria internazionale all’Unibo, Andrea Segrè – Aumentare la consapevolezza dei cittadini e delle istituzioni in tutto il mondo permette di promuovere un’alimentazione sana e sostenibile, com’è in primis la dieta mediterranea, e di prevenire e ridurre lo spreco alimentare a livello domestico. Anche il consumo e la cucina domestica aiutano a ridurre lo spreco, come dimostra “Il caso Italia”: chi è abituato a mangiare fuori spreca di più in casa».

E questo rimanendo nel pur significato regno dell’auto-percepito, dato i risultati del report si basano su sondaggi con tutta l’aleatorietà del caso, come spiegato a suo tempo su greenreport dallo stesso Segrè. Allargando il quadro d’osservazione fino ai confini del rapporto tecnico pubblicato sul tema dall’Ispra – l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale –, dove lo spreco alimentare come «la parte di produzione che eccede i fabbisogni nutrizionali e le capacità ecologiche», risulta che nella “virtuosa” Italia «almeno il 60% circa in energia alimentare della produzione primaria edibile destinata direttamente o indirettamente all’uomo potrebbe essere sprecata». In altre parole, ogni 100 calorie di alimenti destinati al consumo umano, 60 sono sprecate: più della metà.

A questo livello d’indagine, le soluzione possibili non possono che gravitare in una dimensione pubblica e dunque collettiva, piuttosto che nel ristretto ambito dei soli comportamenti privati. Partendo dal presupposto che vede oggi i sistemi alimentari prevalenti tra i maggiori fattori di superamento dei limiti planetari ecologici e sociali, il rapporto Ispra suggerisce in pratica di cambiare rotta ripartendo dalle piccole comunità virtuose, focalizzando l’attenzione sull’importanza della autosufficienza alimentare e dello sviluppo coordinato di sistemi alimentari locali resilienti, da sostenere con adeguati incentivi.

fonte: greenreport.it