Berlusconi, Dell’Utri, la mafia e la memoria a breve termine

di Aaron Pettinari

Torna a parlare Marcello Dell’Utri. Ringalluzzito dalla sentenza che lo ha visto assolto per “non aver commesso il fatto” nel processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia, dopo gli ultimi anni di silenzio ha rilasciato alcune interviste.
Un fiume di parole in cui l’ex senatore di Forza Italia ha manifestato tutta la propria soddisfazione per il risultato raggiunto dopo la pesante condanna in primo grado a 12 anni di carcere per l’accusa di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato.
In mezzo a tante gioie e commozioni, però, non sono mancate anche alcune castronerie volte a indurre i lettori, quindi i cittadini italiani, a credere che tutte le accuse che lo hanno riguardato nella sua lunga storia siano frutto di fantasie.
“È sempre stata la stampa a dire che ero un mafioso. Io non l’ho mai pensato di me stesso e dunque direi che questa assoluzione mette in dubbio anche la precedente condanna” ha detto a La Stampa il 24 settembre. E poi ancora a La Repubblica: “Nel governo di Berlusconi ci sono state solo leggi contro i mafiosi”.
Affermazioni simili a quelle di tanti benpensanti che hanno commentato la sentenza d’appello facendo intendere che il processo è stato tutta una “boiata” e che “non andava fatto”.
Peccato però che il dispositivo di sentenza racconta altro.
Dell’Utri è stato assolto perché, secondo i giudici di secondo grado, non c’è la prova che abbia trasmesso le minacce dei mafiosi a Berlusconi o comunque che il governo in carica l’abbia recepito, reagendo di conseguenza.
Ed è per questo motivo che è stata modificata l’accusa a Bagarella, per quel che concerne il 1994, da minaccia ad un Corpo politico dello Stato a tentata minaccia, e la condanna al boss corleonese è stata abbassata di un anno. Per questo motivo sarà molto interessante leggere in che modo i giudici di secondo grado motiveranno la propria decisione. 
Al di là della sentenza della scorsa settimana, però, è assolutamente inaccettabile il “processo di beatificazione” che si è aperto davanti ad un popolo italiano che soffre di “memoria a breve termine” dimenticando i fatti ed il peso della storia.
Ed in questo contesto possiamo affermare che le affermazioni di Dell’Utri e dei soliti “fans” sono assolutamente pretestuose e non è per una questione di stampa “amica” o “nemica” che Dell’Utri viene dipinto come un uomo di mafia.
C’è una sentenza definitiva che lo certifica.
Quella per concorso esterno in associazione mafiosa che comprova come per diciotto anni, dal ’74 al ’92, Marcello Dell’Utri è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra l’ex premier Silvio Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari.
Si legge in quella sentenza che “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”. E ancora, la Suprema corte – nelle motivazioni depositate nel luglio del 2014 – sottolineava come vi fosse un “patto di protezione andato avanti senza interruzioni” in cui Dell’Utri era il garante per “la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore”.
E poi ancora si legge nelle carte che “il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5”.
Fatti che restano nella storia. In quello stesso processo Dell’Utri è stato assolto per i fatti successivi al 1994. E indubbiamente questo aspetto può aver avuto un peso sulla sentenza di giovedì scorso. Ma, ribadiamo, si dovranno leggere a fondo le motivazIoni della sentenza per capire fino a che punto.


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L’ex senatore, Marcello Dell’Utri e l’ex premier, Silvio Berlusconi © Imagoeconomica


Berlusconi e la mafia

Un altro tema discutibile nelle affermazioni di Dell’Utri ai giornali riguarda le tanto decantate leggi antimafia dei governi Berlusconi.
In questi anni abbiamo sentito più volte lo stesso ex Premier sostenere il proprio impegno.
Ma basta andare con ordine per capire che la storia è ben diversa dalle apparenze che si vogliono rappresentare.
E se la Corte d’assise d’appello si è convinta che la richiesta estorsiva della mafia al primo esecutivo di Forza Italia non si è concretizzata c’è sicuramente da capire come mai il 13 luglio del 1994 il governo Berlusconi decise di varare il decreto Biondi, noto anche come “Salvaladri”.
Un punto che è stato approfondito nel processo Stato-mafia durante il dibattimento in primo grado, grazie alla testimonianza dell’ex ministro Roberto Maroni.
Quest’ultimo, già in un’intervista al TG3 del 16 luglio 1994, denunciò l'”imbroglio” con cui il Consiglio dei ministri aveva approvato il decreto.
Con quella normativa si vietava la custodia cautelare in carcere (trasformata al massimo in arresti domiciliari) per i reati contro la Pubblica Amministrazione e quelli finanziari, comprese corruzione e concussione.
Un decreto che avevano evidenziato i giudici della Corte d’Assise di Palermo e interveniva sull’articolo 275 del codice di procedura penale.
Se prima di allora si prevedeva che “… quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 416 bis… ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo… è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.
Di fatto, mentre per gli altri reati la custodia cautelare era l’extrema ratio, per i reati di mafia era una scelta obbligata fino a prova contraria. L’articolo 2 del decreto Biondi modificava quella norma: nel senso che anche per i delitti di mafia il giudice, prima di applicare la custodia in carcere, avrebbe dovuto cercare e illustrare le esigenze cautelari, prima date per scontate. Inoltre si restringeva ulteriormente la possibilità di arresto preventivo in caso di pericolo di fuga: non bastava più il “concreto pericolo che l’imputato si dia alla fuga”, ma occorreva provare che l’indagato “stia per darsi alla fuga”.
Inoltre sottobanco, sarebbero state inserite disposizioni che favorivano Cosa Nostra come quella norma che obbligava i pm a svelare le indagini per mafia dopo tre mesi, di fatto vanificandole.
Si trattava dell’art.9, (che portò Maroni a denunciare anche in televisione il fatto) in cui si diceva: ‘Nell’art. 335 del C.C.P. il comma 3 è sostituito dal seguente: le iscrizioni previste dai commi 1 e 2 sono comunicati alla persona alla quale il reato è attribuito, al suo difensore e alla persona offesa che ne facciano richiesta. Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine il pubblico ministero può disporre con decreto motivato il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore complessivamente a 3 mesi’.
Maroni, sentito nel dicembre 2016 come teste, aveva ribadito di essersi sentito “imbrogliato” perché quella norma era stata inserita nel testo a sua insaputa. Fu una telefonata del Procuratore Caselli ad avvisarlo che con quella norma diventavano difficili, se non impossibili, le indagini sulla mafia. Il 23 luglio 1994 il decreto venne poi ritirato per una questione relativa alla ritenuta mancanza di motivi di urgenza.

Destra o sinistra? Comunque pro-mafia
Successivamente, caduto il governo dopo appena 7 mesi, vi furono anche altri interventi della politica sul tema antimafia, stavolta con l’appoggio bipartisan di destra e sinistra.
Elementi di cui si deve tener conto perché la lotta alla criminalità organizzata ed ai Sistemi criminali non è un tema da spendere solo quando si dirige il Paese.
Nell’agosto del 1995 è stato il governo tecnico di Lamberto Dini a varare un nuovo ddl, con i voti bipartisan di centrodestra e centrosinistra (contrari solo Verdi e Lega) in cui, tra le altre cose, si rendeva la custodia cautelare più breve e più difficile da applicare. L’arresto per reati di mafia da obbligatorio diventava facoltativo, la norma che prevedeva l’arresto in flagranza per testimoni reticenti veniva abolita.
L’Ulivo, con l’appoggio del centrodestra dal ’96 al 2001, arrivò a decretare la chiusura di Pianosa e Asinara, l’abolizione di fatto dell’ergastolo (per due anni), e la predisposizione di una legge anti-pentiti (la Fassino-Napolitano) che ridusse i benefici e gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, imponendo loro di raccontare tutto quello che sanno entro sei mesi.
Nel mezzo ci fu anche il tentativo di disegno di legge per consentire la dissociazione ai mafiosi.
Tutti elementi che erano contenuti nel papello, ovvero l’elenco di richieste presentato allo Stato per interrompere le stragi.
Tra i punti chiave vi era anche l’ annullamento del decreto 41-bis.
Un vero e proprio tarlo per i boss di Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra.
E’ noto che nel 2002 il boss stragista Leoluca Bagarella, intervenendo in teleconferenza a un processo dal carcere de L’Aquila, lesse una dichiarazione a nome dei detenuti in sciopero della fame contro i politici che non avevano mantenuto le promesse sul 41-bis: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. E il 22 dicembre, allo stadio di Palermo, comparve uno striscione a caratteri cubitali: “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. Il 27 dicembre l’ex premier, intervenendo in conferenza stampa al municipio di Catania, rispose quasi giustificandosi che “il 41 bis contiene una filosofia illiberale, ma siamo stati costretti ad adottarlo affinché permanga per tutta la legislatura, perché la gente ha diritto a non avere paura”.


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Il boss di Cosa nostra, Leoluca Bagarella © Letizia Battaglia


Rinnovamento 41 bis
E’ proprio di quell’anno il “rinnovato” 41-bis. Con la legge 279 si trasforma il carcere duro per i mafiosi da provvedimento amministrativo straordinario, rinnovato di semestre in semestre dal ministro della Giustizia, in una misura stabile dell’ordinamento penitenziario. Quello che in apparenza sembrava come un duro attacco alla mafia, però, sortì un effetto opposto. E così vi furono centinaia di boss che ottennero la revoca del 41-bis dai Tribunali di sorveglianza, per una serie di difficoltà interpretative della nuova legge e perché la riforma agevolava le richieste di annullamento.
Nel 2006, con il governo di centrosinistra in auge, ma anche con l’appoggio del centro destra, vi fu il mega-indulto Mastella di tre anni, che includeva anche i reati collegati a quelli mafiosi e il voto di scambio politico-mafioso. Votarono contro Idv, Pdci e Lega.
I denigratori della trattativa Stato-mafia di tutto questo non parlano. Ed ovviamente tace anche Dell’Utri.
Ma la storia è fatta di fatti che prescindono dal rilievo penale.
Ricordarli non è ostinazione, ma un diritto-dovere sacrosanto per tutti coloro che credono nella democrazia e che pretendono la verità sulle stagioni buie di stragi, delitti e trattative.

Foto di copertina © Imagoeconomica

fonte: antimafiaduemila.com